Dischi 12 - Macallè Blues

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Recensioni: dischi...

DON BRYANT


"Don't give up on love"

Fat Possum Rec. (Usa) - 2017

A nickel and a nail/Something about you/It was jealousy/First you cry/I got to know/Don't give up on love/How do I get there/One ain't enough/Can't hide the hurt/What kind of love


Nella vita, Don Bryant ha collezionato ben più alti meriti rispetto a quello per il quale è, ahimè, conosciuto: cioè, l’aver sposato Ann Peebles. E’ stato principalmente un apprezzato autore (suo il sempiterno hit I Can’t Stand The Rain, portato al successo proprio dalla Peebles) e, in misura minore, cantante soul in forze alla Hi Records del patron Willie Mitchell. Purtroppo, l’essere stato tale proprio nel periodo in cui nasceva, cresceva e scalpitava arrogante Al Green, il cavallo vincente della casa di Memphis, ha contribuito a mettere presto in ombra, tanto la buona stella sua quanto quella di altri talenti appartenenti alla medesima scuderia, come Syl Johnson, per dirne uno.
A dimostrazione che, in questo settore, sempre che la salute sia dalla tua, a volte esiste anche una giustizia, magari tardiva e non necessariamente “divina”, e l’età conta ciò che è giusto conti, cioè poco, Don’t Give Up On Love può essere considerato, a ben vedere, il disco della rivalsa e della riscoperta di un artista che, pur non essendo un caposcuola, va assolutamente riconsiderato e illuminato con la luce che davvero merita e gli compete.
Dopo un lungo periodo di oblio, durato quasi cinquant’anni, durante il quale si è dedicato al “divino” e al gospel, a settantaquattro anni, con lo spirito di una giovane stella nascente, torna al soul e ci regala un gioiellino di rara grazia e preziose fattezze. Il registro vibrante, predicatorio dell’introduttiva A Nickel And A Nail, superclassico reso universale dalla voce di O.V. Wright e qui doppiato con toni alltrettanto sermonici, apre la via ai funky-soul di Something About You e What Kind Of Love. In mezzo a gemme di puro soul come il brano omonimo, Bryant rivisita la sua fragile, eccelsa confessione di It Was Jealousy, già registrata, in separate occasioni, dalla moglie Ann Peebles e da Otis Clay e I Got To Know, vecchio successo doo-wop dei 5 Royales. Esempio eccellente di compiuta sintesi tra fervente gospel, blues e soul nonché vetta del disco è la tormentata, dubbiosa How Do I Get There, sottolineata, in tutto il suo svolgimento, dai toni compiutamente churchy dell’organo di Charles Hodges. Ad accompagnare Bryant, oltre a Hodges stesso, altri veterani di casa Hi come Howard Grimes, Archie “Hubbie” Turner più Scott Bomar, già bassista dei Bo-Keys e, qui, autore del pregevole One Ain’t Enough. G.R.


ROBERT CRAY

"Robert Cray & Hi Rhythm"

Jay Vee Rec. (Usa) - 2017

The same love that made me laugh/You must believe in yourself/I don't care/Aspen, Colorado/Just how low/You had my heart/I'm with you Pt.1/Honey bad/The way we are/Don't steal my love/I'm with you Pt.2


È ferma, chiara e antica idea (ad ogni uscita, sempre più confermata) di chi scrive, che Robert Cray sia, oggi, il solo autentico grande ‘bluesman’ vivente. Scomparsi, ormai, tutti quanti hanno fatto scuola e storia nel campo del blues e del soul, Cray resta l’ultimo tra gli uomini in campo, a incarnare quell’idea di grandezza che oggi è, ahimè, custodita soltanto nelle tombe e tra le pieghe dei ricordi. Come nessun altro ai giorni nostri, grazie a uno strumento vocale plastico e al suo talento di indiscutibile e riconoscibile stilista della chitarra, Cray, recuperando e mettendo a frutto la lezione di Bobby Bland, ha saputo amalgamare e sviluppare, in un’unica entità autenticamente moderna ma mai dimentica della propria genesi, i linguaggi del blues e del soul, riproponendonene grazia e veemenza.
Non stupisce, dunque, che in questo suo ultimo disco, abbia ingaggiato i rimasugli della gloriosa Hi Rhythm Section e si sia dedicato a una rivisitazione di quel peculiare sound direttamente tra le mura della propria casa natale: a Memphis, nei Royal Studios, e con la produzione, non indedita per Cray, di Steve Jordan. Stupisce, invece, conoscendo le sue, pure ottime, doti di autore che lo abbia fatto concentrandosi, pur se ben scelti, principalmente su brani altrui. Tanto che il compito di declinare al meglio le atmosfere dell’opera spetta al Bill Withers di The Same Love That Made Me Laugh, habitat naturalmente favolevole al nostro Cray che, puntuale, rende suadente e arricchisce il brano con, in coda, distintive sottolineature chitarristiche. Omaggia O.V. Wright con un tipico brano Hi come You Must Believe In Yourself e insuffla e mantiene la sua tipica, naturale, delicata eleganza soulful nei due originali You Had My Heart e nella romantica ballata The Way We Are fecondata, sul finire, dalle sparse, essenziali note della chitarra.
Non tutto qui è direttamente riconducibile a Memphis e al sound della Hi Records. Due, per esempio, sono i brani ripescati dal repertorio di Tony Joe White che, ospite in studio, si unisce con la sua armonica: la melodica, delicata Aspen, Colorado e l’ipnotica Don’t Steal My Love. Completano il quadro un terzo originale, Just How Low, dai toni sommessamente politici e sociali e, diviso in due parti, il doo-wop I’m With You, tratto dal repertorio dei 5 Royales e del suo leader Lowman Pauling. G.R.


CHICKENBONE SLIM

"The big beat"

Lo-Fi Mob Rec. (USA) - 2017

The big beat/Long way down/Hemi dodge/Vodka and Vicodin/Long legged sweet thing/Do you like it?/Me and Johnny Lee/Man down/Break me off a piece




Chickenbone Slim, ovvero Larry Teves. La sua storia comincia come bassista in San Diego ma, nel 2011, si reinventa chitarrista-cantante prima coi Boogiemen e poi coi Jinxking. Oggi, invece, si presenta trasformato in Chickenbone Slim & the Biscuits e propone un disco la cui genesi si può ben definire fortuita. C’erano le canzoni, ma non era ancora matura l’intenzione di registrarle così come non lo erano gli arrangiamenti. Trovatosi dalle parti di San Francisco con nulla da fare tra un concerto e l’altro, si presenta ai Greaseland Studios di quel discolo di Kid Andersen, all’epoca, fortunatamente libero da impegni ‘on the road’ e con lo studio a piena disposizione. Giusto il tempo di far su Big Jon Atkinson come ospite, arrangiare i brani e si registra The Big Beat.
Il titolo parla chiaro: il suono è spesso, grasso con una forte connotazione boogie, percussiva e, in questo, Kid Andersen è stato l’uomo chiave. Le ascendenze sonore dominanti sono quelle della California con pieghe coinvolgentemente rockeggianti come in Long Way Down o più tradizionali come in Do You Like It? e Break Me Off A Piece. Si ritrovano echi di Lazy Lester in Me And Johnny Lee mentre il ritmo si fa dispari e vagamente psichedelico in Long Legged Sweet Thing, brano che non sfigurerebbe tra il repertorio più blueseggiante dei Doors. Ci sono un paio di episodi che si discostano dai più tradizionali riferimenti blues come il country & western Hemi Dodge e la successiva, folky Vodka And Vicodin, sagace esaltazione del mix di alchool e chimica farmaceutica come sollievo ai problemi personali “...get myself some chemical motivation, because sometimes reality sucks/I wouldn’t tell you how to live your life/Everyone does what they think is right/I medicate my blues away...”. E, pensare a questo testo rileggendo le note di copertina che dedicano il disco ai reduci militari americani, fetta di società dove il tasso di suicidi pare essere del 50% superiore al resto della popolazione, ne rende ancora più evidente il senso.
Innegabile il fondamentale apporto ritmico di Marty Dodson alla batteria così come il talento di autore di Larry Teves che traspare da quest’opera, tra le più fresche soprese del 2017. G.R.  


DEE DEE BRIDGEWATER

"Memphis...Yes, I'm ready"

OKeh Rec. (Usa) - 2017


Yes, I'm ready/Giving up/I can't get next to you/Going down slow/Why (am I treated so bad)/B.A.B.Y./The thrill is gone/The sweeter he is/I can't stand the rain/Don't be cruel/Hound dog/Try a little tenderness/(Take my hand) Precious Lord


Emersa dalla palestra vocale delle orchestre di Thad Jones e Mel Lewis, nei decenni, Dee Dee Bridgewater ha esplorato estensivamente le varie sfaccettature del canto jazz, finanche con divagazioni etno. Oggi, come lascia intendere l’autoesplicativa foto di copertina con ritratto infantile dell’artista, torna a “casa” licenziando un sorprendente disco nel quale rivisita alcune ben note pagine di blues e soul.
Titolo e copertina, non sono casuali. Memphis è stata la città nella quale è cresciuta, esposta ai suoni più tipici della tradizione locale. Così, proprio nei Royal Studios della città e con la complice coproduzione di Lawrence ‘Boo’ Mitchell, figlio di tanto Willie e attuale proprietario di quegli studi, Dee Dee restituisce lustro a molta musica nata tra quelle mura. Il suo strumento, sempre in agile oscillazione tra dense profondità emotive e gaia spensieratezza, ha dimostrato in passato, occasionali forzature di registro; ma in Memphis, I’m Ready si rivela, invece, compiutamente governato e messo a fuoco, libero da orpelli e ornamenti che talvolta toglievano spessore all’interpretazione. Tramite una meritoria opera di sottrazione del superfluo e rafforzamento degli aspetti peculiari del registro attraversa, con matura sicurezza, il giardino segreto di un repertorio che è stato esperienza costante d’ascolto durante la sua adolescenza, ma mai interpretato prima. Il soul più schietto emerge, senza grosse sorprese e ottimamente interpretato, in Yes, I’m Ready, B.A.B.Y., The Sweeter He Is e Try A Little Tenderness. Le sorprese arrivano, invece, quando la Bridgewater si immerge nella rilettura personale di una serie di classici. La confessione di Givin’ Up, che fu di Donny Hathaway, viene limata dell’originale cupa drammaticità e acquista lievi, corali accenti sacri; trasforma radicalmente l’Elvis di Don’t Be Cruel e Hound Dog estraendo dal loro centro, sulla base di un groove funk nel primo e su un raggae sincopato nel secondo, le rispettive e più schiette anime R&B; opera, poi, una ulteriore, inattesa seduta di maquillage al sempiterno B.B. King di The Thrill Is Gone che trasfigura, nelle mani di Dee Dee, in un fumoso, insinuante, notturno funk. Una lenta, palpabile tensione erotica permea, con convincente efficacia, l’Al Green di I Can’t Get Next To You. Maestosamente glorioso il finale gospel con Precious Lord.
Ad accompagnarla, trionfante tra queste mura, non potevano mancare alcuni nomi storici come Charles Hodges, James ‘Bishop’ Sexton e Lennie McMillan. G.R.
 
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