Dischi 2 - Macallè Blues

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Recensioni: dischi...

LUCIANO FEDERIGHI

"By the lonely lights of the blues"

Appaloosa Rec. (I) - 2015

I shot my lady/I'm coming back to you/On the banks of the old Choctaw/I spend my lonely days with the blues/In sweet Eudora's arms/Trapped in a city haunted by the blues/I should have been wise/A humble hero/Moanin' the blues to the ghosts/You got me wrong/Who's gonna last/Coast to coast medley/She's got designs on me/An alternate take of a life/A meek man on the loose/By The Lonely Lights Of The Blues

C’è un’idea di incombente minaccia nei pesanti cieli di piombo e nel bianco e nero diffuso di questo By The Lonely Lights Of The Blues, opera settima – se ho fatto ben di conto - di Luciano Federighi, critico musicale, saggista, scrittore in primis e, parallelamente, autore, musicista, cantante.
La svaporata, ma carica gradazione del cd come quella della copertina e del booklet rimandano a un racconto talvolta sospeso, incompiuto, al sentimento di straniamento o al senso segreto del viaggio di un'umanità raminga, variamente sofferta, ripiegata in un intimo avvitamento tra il sentore di sovrastante abbandono e precarietà, lato ‘B’ di un 'American Dream' tutto luci e dollar bills.
Come e forse anche più che in precedenti suoi lavori, qui trionfano il lirismo e il dotto, immaginifico bozzetto. I riferimenti stilistici spaziano dalle atmosfere di Nat King Cole e Charles Brown, alla sommessa ironia di Mose Allison o di un Dave Frishberg, alla raffinatezza di Randy Newman fino al primo Tom Waits, quello magari un po’ più sommessamente crepuscolare. Tutti – mi accorgo ora – pianisti. Di quest'ultimo ritornano, non certo gli aspetti dannati, i fumosi night o le bettole di periferia, quanto i toni più squisitamente narrativi, alla Closing Time, per dire. Non c’è la sua voce torbata di catrame e whisky, ma un baritono bruno, nasale, dalla più rassicurante, paterna tonalità. Il racconto non è quasi mai immediato e di pronta fruizione, ma più frutto di una ricerca della parola, della frase, del gioco verbale, dell’affabulazione.
Così, sospinto dal mesto andamento dell’armonica cromatica di Dave Moretti e della chitarra di Tiziano Montaresi, il protagonista dell'iniziale ‘dark ballad’ I Shot My Lady confessa il suo crimine con cupo, fragile candore mentre con rabbioso sarcasmo assicura alla vittima oscuri fiori a ogni Natale. Sulle rive del fiume Choctaw, invece, accadono cose quasi a tempo di swing, tra il gioco squillante dei tasti del piano di Andrea Garibaldi, i pistoni della tromba in sordina e, a tratti, slabbrata di Alessio Bianchi e il divertito scat finale dello stesso Federighi (in altri episodi, anche armonicista, sotto le mentite spoglie dell’alter ego Lou Faithlines). Mentre, condotti da chitarra e tromba, è possibile, in Sweet Eudora’s Arms, perderci tutto per poi ritrovarlo, tra le braccia di questa donna, finalmente trasfigurato in forma di consolante e anche un po’ ingenua felicità. Ma è in I Spend My Lonely Days With The Blues e Moanin’ The Blues To The Ghosts che l’intima, tormentata, liricità del testo trova il suo pieno, raccolto compimento così come, beffa e umorismo si ritrovano, invece, in I Should Have Been Wise o She’s Got Designs On Me, degne prove di lieve, garbata arguzia.
Anche in quest’ultima opera, la cifra espressiva, lontana dalla carnalità e dall’immediatezza dei più schietti interpreti della tradizione blues, è caratterizzata da un eloquio colto e ricercato che, tuttavia, non pecca mai di elitaria, astratta cerebralità. In duetto con la deliziosa voce di Michela Lombardi, come in I’m Coming Back To You o You Got Me Wrong o in piena formazione, prevalentemente acustica e priva di batteria, non manca, a questo disco, il senso globale della finitezza e della piena godibilità. G.R.


BIG HARP GEORGE

"Chromaticism"

Blues Mountain Rec. (Usa) - 2014

Smack dab in the middle/Crazy about you baby/Left so soon/My baby is now on my mind/Chromaticism/Hard way/Cellphone hater/Strolling down on Bliss Street/Cocktail hour/Someday/Hey Jaleh!/Drum boogie


Personaggio davvero singolare questo Big Harp George nonché, di fatto, avulso dal più osservante, ortodosso, mondo del blues a tempo pieno. Al secolo George Bisharat, lo conobbi musicalmente per tramite di Otis Grand e del suo disco Hipster Blues, nel quale George compariva quale anonimo e, allora almeno a me, sconosciuto interprete di un brano lì presente, Every Girl I See. Da allora, anno 2008, pur incuriosito, mi scordai di lui fino a quando non mi ritrovai in mano questo suo primo disco solista, inciso sotto l'attuale e ben più artistico pseudonimo. Antropologo, storico, avvocato e professore emerito di Legge all'Università della California oltre che brillante politologo, commentatore e conferenziere, qui si presenta – e chi mai l'avrebbe detto date le premesse curricolari - nella sua veste di sorprendente armonicista e pregevole cantante blues. La reale professione del personaggio, dunque, non vi induca a pensare che sia un bluesman della domenica o un musicista mancato desideroso di levarsi il bizzarro sfizio di incidere un disco. Tutt'altro!
Prevalentemente dedito all'uso dell'armonica cromatica come alcuni suoi ben più popolari predecessori di riferimento quali, soprattutto, Paul de Lay a cui è esplicitamente dedicato lo slow Left So Soon, George “Harmonica” Smith e William Clarke, tanto per dare un'idea, lo stile primario a cui si richiama è il jump californiano, elegantemente addizionato con note di jazz e swing. Tanto per chiarire ulteriormente l'indirizzo stilistico del disco, casomai ce ne fosse bisogno, sia detto che ad accompagnare Big Harp troviamo qui alcuni dei principali musicisti della zona, tra i quali Little Charlie Baty, Chris “The Kid” Andersen e Rusty Zinn. In questo suo esordio solista, parallelamente al ruolo di armonicista e cantante, Bisharat si ritaglia anche quello di altrettanto competente autore; tolte le strumentali Chromaticism e Cocktail Hour, esaltazioni musicali del suo strumento, altri quattro brani portano la sua diretta firma. Tra questi, mi piace citare Cellphone Hater, sommesso sfogo contro la moderna nevrosi da cellulare, intriso di quel pizzico di ironia che proprio il compianto mentore Paul de Lay era solito instillare nei suoi pezzi anche se in ben più alte e argute dosi. Gli amanti degli armonicisti citati sanno, dunque, cosa attendersi da questo esordio di Big Harp George e non resteranno delusi. E noi, invece, ci aspettiamo un suo pronto ritorno in studio, professione principale permettendo, per una seconda, matura, prova discografica. G.R.


JOHNNY HOY & THE BLUEFISH

"The dance"

Disco Autoprodotto (Usa) - 2014

Don't start crying now/Daddy right/Dancing Danny O/The dance/Rolled and tumbled/Bring it back/I've got a secret/She belongs to me/Everything you said/Greasy rooster/What's the story with time/Cold


Sebbene sia uscito lo scorso anno, mi piace l'idea, ancorché tardiva, di poter parlare di questo ultimo lavoro di Johnny Hoy & the Bluefish. E mi piace perché The Dance rappresenta il riassunto organico e naturale, maturo sbocco creativo di quanto da loro prodotto in precedenza. La band proviene da una zona non tanto famosa per il blues, Martha's Vineyard, quanto più per motivi di cronaca, di spettacolo o di costume: accadimenti legati alla famiglia Kennedy o, prima ancora, al set del film “Lo squalo” di Steven Spielberg. A guardar bene, però, si trovano pure legami indirretti col blues essendo stato seppellito, nel locale cimitero, il blues brother John Belushi.
Musicalmente, la band si colloca in un settore mediano che mescola sapientemente blues, boogie, country e canzone d'autore. La ricetta prevede la voce roca, carismatica di Johnny Hoy (anche ottimo armonicista), la concisa, tagliente chitarra di Buck Shank, il piano honky tonk di Jeremy Berlin e il solido drummin' di Chris Anzalone. Altra caratteristica del gruppo è quella di aver optato, ormai da anni, per una formazione “bassless”, senza basso. Lo strumento, infatti, è pienamente vicariato dall’agile e impeccabile mano sinistra di Jeremy Berlin e tanto basta. Con sei album incisi, i primi tre per la prestigiosa etichetta Tone-Cool e dopo il precedente, sbalorditivo, Film Noir Angel, questo ultimo The Dance rappresenta la piena maturità del gruppo. Sebbene, in taluni episodi, meno ruspante e immediato del suo predecessore, ne mantiene sostanzialmente la formula stilistica che, pur mescolando sapientemente diversi generi, conferisce un’identità ben precisa alla proposta musicale della band. Può sembrare una contraddizione, ma così non è: il richiamo al blues e alle radici, intese nell’accezione sonora di “roots”, rappresentano sempre e comunque quel comun denominatore omogeneizzante. E si ascolti l’intero disco d’un fiato per capire cosa s’intende: blues, shuffle, rock & roll, country e ballate sapientemente mescolate in un’amalgama esperta e ben riuscita. La maggior parte dei brani proposti sono autografi, alcuni dal taglio ironico (es. Bring It Back), ma la più piacevole delle sorprese arriva, almeno per me, con I’ve Got a Secret, splendida ballad, in origine intitolata Shake Sugaree dalla propria autrice Elizabeth Cotten: la loro versione, fa a gara con quella resa in più occasioni da Willy DeVille ma questa, forte della vibrante voce di Johnny Hoy e di un andamento maggiormente sommesso, risuona su corde forse ancora più profonde. A mezza via tra una roots e una party band, Johnny Hoy & the Bluesfish meritano di essere definitivamente scoperti e, partire dal precedente o dal presente disco, è solo cosa buona e giusta. G.R.  


THE CALIFORNIA HONEYDROPS

"A river's invitation"

Tubtone Rec. (Usa) - 2015


A river's invitation/When it was wrong/Brokedown - parts 1 and 2/Cry baby blues/Jolie/Crazy girls/On a rainy day/This time/Lead me home/Rockaway/Long way

Muove da una breve, spettrale introduzione di fanfara il cupo, immaginifico invito di Percy Mayfield in A River’s Invitation, unica cover di questo pregevole, omonimo dischetto, opera quarta dei The California Honeydrops, band multietnica fresca di gioventù e di idee. Muove da un andamento sinistro, ma evolve ben presto verso un pigro e quasi giocoso compimento. Pur ben lontano dall’eloquio di Mayfield, il cantante e multi strumentista, Lech Wierzynski, sulle punte di una voce fine e vibrante, restituisce l'invito sirenoide del fiume ("...if you can't find your baby, come and make your home with me...") con tono di indolente rassegnazione, sottolineato da una chitarra liquida e un sax graffiante, entrambi efficacemente minimali e concisi. Come detto, brano singolare e unica cover di un disco che prosegue con composizioni tutte originali che risentono delle influenze più variegate. Si parte dal Marvin Gaye prima maniera della successiva, fresca When It Was Wrong per giungere alla carnalità e alla veemenza churchy, sapientemente incastonate nell'originale controcanto dei fiati più che nella pur insinuante interpretazione del cantante, del soul-blues di Cry Baby Blues. Oltre le influenze neorleansiane e Motown, nel disco spuntano anche un paio di spumeggianti episodi reggae. Al netto del lento strumentale Lead Me Home che forse ben altra sorte avrebbe potuto avere che non quella di probabile riempitivo se fosse stato benedetto dalla presenza di Wierzynski e della sua ugola, tutto il resto suona scorrevole e organico nell’insieme.
Tromboni, chitarre, conga, coriste ampliano il quintetto base in diverse occasioni. Tra gli strumentisti aggiuntivi, Nick Otis, nipote del più celebre Johnny (Otis, s’intende), alla batteria. G.R.

 
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