Dischi 3 - Macallè Blues

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Recensioni: dischi...

CASSANDRA WILSON

"Coming forth by day"

Legacy Rec. (USA) - 2015

Don't explain/Billie's blues/Crazy he calls me/You go to my head/All of me/The way you look tonight/Good morning heartache/What a little moonlight can do/These foolish things/Strange fruit/I'll be seeing you/Last song (for Lester)

Creatura androgina, dal fascino ambiguo e ombroso, la splendida cantante mississippiana Cassandra Wilson ci riprova. In questo disco, interamente dedicato a Billie Holiday - Lady Day - in occasione del centenario della sua nascita, le atmosfere dominanti sono quelle crepuscolari, notturne, a tratti un po’ inquietanti, già ampiamente sperimentate nel suo precedente capolavoro del ‘93 Blue Light ‘Till Dawn e subito replicate con l’immediatamente successivo e sempre ottimo, anche se meno sorprendente, New Moon Daughter del ’95.
Con Coming Fourth By Day la Wilson si immerge, anima e corpo, tra le pagine più schiette ed esplorate del songbook della Holiday, restituendone una lettura molto personale, anche  discutibile, certamente lontana dai registri espressivi tipici di Lady Day, ma sincera, intensa e partecipata. La scura, bruna levigatezza del suo contralto profondo, dalla timbrica più direttamente riferibile a una Abbey Lincoln piuttosto che alla stessa Holiday, unitamente a sonorità e arrangiamenti che sono figli legittimi di musicisti e produttore di dichiarata estrazione gothic-rock (il produttore, Nick Launay, è stato il produttore di Nick Cave & the Bad Seeds) conferiscono al disco, più che la fragile, ferita drammaticità degli originali, atmosfere più misteriose e, talvolta, stranianti. Tanto che, nell’ascoltare questo Coming Fourth By Day,  par di stare in una camera con vista sulla Holiday più che immersi nel suo denso universo emozionale. Una vista dall’orizzonte più rarefatto, solo a tratti benedetta dalla chiara luce di un giorno di sole, dove il sentimento dominante è quello della vertigine, indotta dalle distanze e dagli indefiniti, talvolta irriconoscibili, contorni. E’ la lenta  discesa in un maelström sonoro che reinterpreta e, forse più, riscrive l’opera stessa che vorrebbe omaggiare.
Esistono dei precedenti analoghi: il pianista Dr. John e il suo Ske-Dat-De-Dat: The Spirit of Satch, per esempio. Anche lì, l’artista ripercorreva in modo altamente personale alcune pagine del repertorio, nel caso specifico, di Louis Armstrong, di fatto, trasfigurandole attraverso la grana filtrante della sensibilità e della scrittura a lui proprie. Similmente qui, la Wilson ripercorre la strada della Holiday ridisegnandone il percorso. You Go To My Head, per dire, assume contorni quasi da Philly sound grazie agli archi arrangiati da Van Dyke Parks così come All Of Me perde il suo originale, brillante swing a favore di un’atmosfera ben più colloquiale e rarefatta.               
Ai brani più famosi del repertorio di Lady Day la Wilson, aggiunge, in conclusione, l’unico brano originale di tutta la raccolta, Last Song (For Lester), immaginario, drammatico monologo che fantastica attorno ai sentimenti della Holiday in occasione della morte del suo grande amico e accompagnatore, il sassofonista Lester Young.  
Se affrontata, di fatto, la riproposizione di grandi classici non può essere solo riproposizione fedele e fine a se stessa, ma sfida che sa affrontare il grande mare abbandonando le rotte tracciate dalle carte nautiche; e chi meglio della Wilson e dei suoi qui presenti compagni avrebbe potuto intraprenderla con conoscenza, sensibilità e, di fatto, buona riuscita nel rivelarci nuovi approdi. G.R.


RONNIE EARL & THE BROADCASTERS

"Father's day"

Stony Plain Rec. (Usa) - 2015

It takes time/Higher love/Right place, wrong time/What have I done wrong/Givin' up/Every night about this time/Father's day/I need you so bad/I'll take care of you/Follow your heart/Moanin'/All your love/Precious Lord


Ronnie Earl ha ridotto la sua attività concertistica in terra natia al rango di pregiata rarità mentre quella nella vecchia Europa è, da tempo, inesistente. Per contro, ci ha abituati a uscite discografiche pressoché annuali e costanti. Rispetta la regola anche quest'ultimo Father's Day che, a distanza di un anno o poco di più dal precedente Good News, ci dà lo spunto per poter parlare nuovamente di lui. Dire che da Ronnie Earl si sa sempre cosa attendersi è un po' un'ovvietà; ma c'è chi lo afferma con lo spirito del detrattore e chi, invece, con l'affetto e la passione che gli sono dovuti. E noi, data l’innegabile statura artistica del personaggio, ci leghiamo, saldi nella nostra convinzione, alla seconda schiera. Di certo, da lui, ci si attende sempre qualcosa di buono tanto che potremmo estrarre, bendati, dalla sua discografia un disco a caso e sceglieremmo comunque bene. E quest'ultima fatica non fa assolutamente eccezione.
Indiscusso maestro di tono, fraseggio e intensità, la sua chitarra sa essere tanto tagliente, profonda quanto vellutata e liquida. Durante tutta la sua carriera, Earl si è sempre concentrato interamente sullo strumento lasciando il canto, a volte anche solo sporadico, data la vocazione prettamente strumentale di molti suoi dischi, a terzi. In questo suo ultimo lavoro, invece, le parti cantate dominano in quantità e sono equamente ripartite tra gli ottimi Michael Ledbetter, pietroso, muscolare cantante dall’emissione lirica e diaframma impostato, già voce solista nella band del chitarrista Nick Moss e Diane Blue, passionale cantante e brillante armonicista dai trascorsi, anche discografici, solisti, prima donna a far parte dei Broadcasters. Dai precedenti lavori di Earl, quest'ultimo Father's Day marca la differenza, dunque, per spirito, stile e rinnovato interesse per il blues quale forma canzone. Dedicato al padre Akos recentemente scomparso (da qui, il titolo), spariscono quasi completamente le incursioni nei territori latini alla Santana e del jazz mentre ritorna protagonista prepotente e assoluto il blues, quello intenso, di matrice chicagoana come la vibrante versione di Right Place, Wrong Time seconda solo all'originale di Otis Rush o gli ottimi, molteplici tributi a Magic Sam o il soul-blues con la cupa ballad in minore I'll Take Care of You o, ancora, l'inatteso Givin' Up, brani rispettivamente divenuti “classici” sulle ugole di Bobby “Blue” Bland e Donny Hathaway. Con Moanin' Earl si ritaglia un piccolo spazio per le vecchie abitudini strumentali e, in chiusura, l'ultima sorpresa, che ci accompagna al saluto, è quella sacra di Precious Lord, riconciliante preghiera laica, metaforico accostamento tra le figure del padre secolare, scomparso, e del “prezioso” padre celeste. Nel disco, l'Hammond dal timbro chiaramente "churcy" è quello di Dave Limina, mentre la batteria è quella precisa e vigorosa di Lorn Entress; a completare l'organico, oltre al fedele basso di Jim Mouradian, il ritorno, tra i Broadcasters, di una sezione fiati, qui incarnata da un robusto duo di sax con protagonisti Mario Perrett al tenore e il talentuoso Scott Shetler al baritono a rendere più rocciosa la parete sonora. G.R.


BAD NEWS BARNES & THE BRETHREN OF BLUES BAND

"90 proof truth"

Flaming Saddies Rec. (Usa) - 2015

CD: America needs a queen/Salt, sugar & fat/Post op transgender/Hungry and horny/Westboro Baptist blues/90 proof truth/CIA/Lawyer riding shotgun/Going down/Boom boom (out goes the lights)/Raise your hand/My ding-a-ling
DVD: America needs a queen/Westboro Baptist blues/Going down/90 proof truth/Someday baby


Niente DOC, DOCG o IGP, ma l’affermazione riportata sul fondo della copertina ne certifica piuttosto il contenuto come CHB, ovvero “Contemporary Hokum Blues…”. Col termine “hokum blues”, ci ricordano autorevoli fonti accademiche, si vuole intendere quel blues, talvolta improvvisato, anche un po’ sempliciotto e scanzonato, imbottito di doppi sensi a prevalente carattere sessuale, mutuato di fatto dai minstrel shows e dal vaudeville, diffusosi nei primi decenni del ‘900 per bocca di artisti come Tampa Red, Gus Cannon e Casey Bill Weldon, per dirne alcuni, e rivolto a un pubblico magari ingenuo al fine di strappargli, con modico sforzo, una grassa risata. Stando alla definizione, se quello di Bad News Barnes è hokum blues, di certo non parrebbe rivolto alle menti semplici; o, forse, sarà mica quel “contemporary” a voler sottintendere un’evoluzione del genere e, dunque, del pubblico? Tutto può essere! Fatto è che ciò che propone Bad News (al secolo, Chris) Barnes è arguta satira sociopolitica in forma di blues; musica per riflettere e, certamente, per ridere giacché – penserà Barnes – chi non ride, non può essere una persona seria.
La carriera di Barnes è sempre stata in equilibrio instabile tra teatro, televisione e musica e, dopo aver partecipato a diversi, celebri programmi televisivi americani, è tornata a sbilanciarsi sul blues con questa doppia uscita: cd, of course, e un dvd contenete quattro video di brani già in scaletta in versione audio più un bonus, Someday Baby, con Felicia Collins. Se anni fa i veneziani Pitura Freska auspicavano un papa nero in Vaticano, beh, Barnes esordisce spingendosi oltre inneggiando, con l’introduttiva America Needs a Queen, a un presidente ben più che femminile. Parte, poi, la lunga raffica di dissacranti parodie di brani celebri: Shake, Rattle & Roll diventa Salt, Sugar & Fat, Come On di Earl King diventa Hungry And Horny e, siccome anche la chiesa sta sulla linea di fuoco di Chris Barnes, Ode To Billy Joe di Bobbie Gentry diventa arguto dileggio del perbenismo e dell’ipocrisia chiesaiola in Westboro Baptist Blues, cantata in compagnia di Dana Fuchs e Felicia Collins. A completare il quadro la comica, divertentissima Post Op Transgender e alcune cover tra le quali spiccano Going Down di Don Nix e la conclusiva My Ding-A-Ling di Dave Bartholomew. Musicisti stellari ad accompagnarlo e una robusta sezione fiati formata, mi piace ricordare, da Tom “Bones” Malone al trombone, “Blue” Lou Marini al sax tenore e, da ultimo, il leggendario e recentemente scomparso Lew Soloff alla tromba, già con Blod Sweat & Tears, Lou Reed, Aretha Franklin ed Elvis Costello.
In conclusione, scomodando ancora l’enologia, Bad News Barnes è come dovrebbe essere lo spesso sottovalutato Lambrusco: mosso e brusco. G.R.  


CHARLIE MUSSELWHITE

"I ain't lyin'..."

Henrietta Rec. (Usa) - 2015


Good blues tonight/Done somebody wrong/Long lean lanky mama/Always been your friend/If I should have bad luck/My kinda gal/Blues, why do you worry me?/300 miles to go/Long leg woman/Christo redemptor/Good blues tonight (unedited)

I Ain’t Lyin’…”: il titolo è anche la gergale affermazione ripetuta da Musselwhite, quale insistita interiezione, nello svolgersi del disco, ma è altresì metafora di autenticità e schiettezza, qualità che ben si applicano alla storia di questo vecchio ragazzo del Mississippi, in arte armonicista e cantante. Registrato dal vivo in due occasioni distinte, rispettivamente al Valley of The Moon Vintage Festival in California e al Clarksdale Soundstage in Mississippi sul finire del 2014, il disco ci restituisce un Musselwhite in piena forma, supportato dal suo attuale trio di competenti giovanotti, formato dal talentuoso Mattew Stubbs alla chitarra, Steve Froberg al basso e June Core alla batteria. Il programma qui presentato include quasi interamente brani autografi ad eccezione della celebre Done Somebody Wrong di Elmore James e del Christo Redemptor di Duke Pearson (inciso, in origine, dal trombettista jazz Donald Byrd nel meraviglioso album Blue Note A New Perspective) che Musselwhite già interpretò nel suo primo, leggendario disco Stand Back; correva l’anno 1967.
Anche con questa nuova uscita, Musselwhite conferma il suo status di gran maestro dell’armonica. Abbandonate ormai le divagazioni etniche che, occasionalmente in passato, l’hanno condotto a mescolare la sua musica con suoni altri, caraibici o latini, pare definitivamente tornato all’ovile, nel cuore di quel Delta, origine di tutto, qui lievemente trasfigurato nei tratti dal personale percorso dell’artista. L’atmosfera che domina l’opera è, sì, quella del juke joint, ma la capacità di Musselwhite di scoprire e farsi accompagnare da nuovi talenti unitamente al suo personale percorso artistico, marcano la differenza nel suono e nell’effetto finale. Memoria e novità, si potrebbe dire: l’esuberante, affilata chitarra del giovane Stubbs e la secca, potente ritmica del duo Froberg-June infondono modernità al rigore della tradizione. Ormai formazione rodata e affiatata, costituisce il contraltare ideale al protagonista che, lungo le tracce del disco appare divertito e scanzonato come in Long Lean Lanky Mama e 300 Miles To Go quanto più introspettivo e partecipe in Always Been Your Friend, My Kinda Gal o Blues Why Do You Worry Me?.      
Si dice che gli artisti si allontanino dal mondo e al mondo, poi, ritornino per mezzo di quella metafora che è l’opera stessa. Per mediare da questo detto una definizione che aderisca a Musselwhite si potrebbe dire che il suo percorso artistico ha preso la forma della spirale: ritorna sulla stessa linea del punto di partenza marcandone, però, uno scarto. Quello scarto che è il risultato delle esperienze, delle collaborazioni, delle contaminazioni, della mescolanza con giovani energie e delle influenze reciproche, ben riassunte in questa sua ultima incarnazione, compendio di un lungo viaggio di ritorno alle rinnovate origini. G.R.

 
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