Dischi 8 - Macallè Blues

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Recensioni: dischi...

MITCH KASHMAR


"West Coast toast"

Delta Groove Rec. (Usa) - 2016

East of 82nd Street/Too many cooks/Young girl/The petroleum blues/Mood Indica/Don't stay out all night/My lil' stumptown shack/Makin' bacon/Alcohol blues/Love grows cold/Canoodlin'



Intorno a quanta e quale sia stata l’influenza che quel diavolaccio di George “Harmonica” Smith ha esercitato su tutti gli sbarbatelli cresciuti sotto il sole sbarazzino della California e che, sul fare degli anni ‘70, si avvicinavano al blues si potrebbe scrivere così tanto da asciugare interi calamai. Ma, ahimé, l’epoca dei calamai è, da tempo, finita e la mia voglia di fare della retrospettiva retorica, forse, non è mai cominciata. Resta il fatto, oggettivo e provato, su come il carismatico Smith abbia mietuto molte vittime sulla via della West Coast e che, dunque, questo geografico, metaforico 'toast' vada rivolto, forse e soprattutto, a lui.
Al pari di altri colleghi di più o meno lungo corso come Rod Piazza, Gary Smith, Mark Hummel o William Clarke, Mitch Kashmar da Santa Barbara - CA nasce artisticamente negli anni ‘80, e nasce come leader dei Pontiax. Da solista, la sua discografia è stata un po’ sparsa e frammentata, ma sempre di ottimo livello. Talento, ancorché parsimonioso nello scrivere, ma assai generoso nel suonare, per questa sua ultima uscita arruola i migliori esponenti del blues californiano e torna in pista a sei anni di distanza dal suo precedente disco. Gli arruolati attuali sono davvero le punte di diamante del jump californiano: il già membro onorario di Rod Piazza e dei suoi Mighty Flyers, Junior Watson alla chitarra; direttamente dalla Hollywood Fats Band, Fred Kaplan al piano e, a dirigere il traffico (di note), ancora dai Mighty Flyers, Bill Stuve al basso e, direttamente dalla band di Mark Hummel, Marty Dodson alla batteria.
Kashmar, come il proprio legittimo mentore, George Smith, ama imbracciare l’armonica cromatica di cui è un autentico maestro in quanto a tecnica, fraseggio e fantasia. Gli strumentali sono proprio il terreno migliore sul quale esercitare queste doti e, non sarà un caso, dunque, se il disco si regge per metà su brani strumentali e se si apre proprio con uno di questi, giusto per scaldare le labbra a Mitch e le dita a Junior. Durante l’uptempo East of 82nd Street, Fred Kaplan si scaldava a bordo campo, ma già nella rilettura del classico di Willie Dixon Too Many Cooks entra in gioco a gamba tesa e, con un uso sapiente, magistrale della dissonanza regala, con tocco latino, un memorabile e originale assolo di piano. La già citata parsimonia nello scrivere di Mitch Kashmar si manifesta qui nell’unico testo originale del disco, l’arguto e mestamente ironico The Petroleum Blues. Per il resto, il menù prevede brani presi a prestito da Sonny Boy Williamson, Billy Boy Arnold e Lowell Fulson.
Se pensiamo che questo disco è stato tutto registrato in presa diretta, one-take, durante quella che aveva tutta l’aria di essere una semplice, informale reunion tra vecchi amici, giù il cappello per Kashmar e compagni!! G.R.


TERESA JAMES

"Bonafide"

Jesi-Lu Rec. (Usa) - 2016

I like it like that/Bonafide/Spit it out/The power of need/Hollywood way/My God is better than yours/You always pick me up/What happens in Vegas/Too big to fail/Funny like that/No regrets/You want it when you want it/Have a little faith in me



E' un disco corale questo Bonafide, un disco distante miglia dall’ipertrofia di certi ego solistici, qui ridotti al minimo delle loro manifeste dimensioni e dove, invece, quasi tutto è indirizzato a sostenere la figura centrale della cantante.
Troppo facilmente ritenuta un’epigona di Bonnie Raitt, Teresa James trova invece un suo corrispettivo ben più azzeccato nella figura, pur maschile, di Delbert McClinton; accomunata, a quest’ultimo, oltre che dalle condivise origini texane, anche dalle scelte stilistiche e dal peculiare, abrasivo timbro vocale. Patrimonio di entrambi, il riuscito mix di blues, R&B, country e R&R così come, al di là delle ovvie differenze di registro, i riflessi passionali e quel graffio tipico di chi, con le unghie, s’aggrappa talvolta allo specchio dell’anima e, scivolando, lo graffia.
Da Houston, la James e la sua band hanno stabilito la propria dimora nell’area di Los Angeles tanto che, per questo suo nono disco, oltre ai soliti musicisti che le gravitano abitualmente attorno, anche altri noti californiani e session men di razza come il batterista Tony Braunagel e il fine pianista Mike Finnigan sono della partita.
Le sole cover concesse in questo Bonafide, sono le due che, rispettivamente, aprono e chiudono il disco: I Like It Like That, brano scritto nel 1954 da Lowman Pawling e, all'epoca, inciso da The 5 Royals e quel Have A Little Faith In Me, in tempi ben più recenti, uscito dal pugno di quell'ottimo autore che è John Hiatt. Nel primo, in forma di boogie, la James che - non lo si dimentichi -  è anche valente pianista, si produce in una delle poche, concise occasioni solistiche con un efficacissimo, pertinente solo di piano; nell'ultima, soul ballad interpretata in passato - ma guarda un po' - proprio da Delbert McClinton, ritroviamo la James al piano che, sul filo di una voce tesa rilegge, con fedeltà e passione, il brano. Tra questi due estremi, ci sono una manciata di riuscitissime canzoni, tutte frutto maturo della penna di Terry Wilson, suo bassista e compagno, che spaziano tra le sinuosità ammiccanti e swampy dell'omonima Bonafide, le venature bluesy di Spit It Out e The Power Of Need, entrambe impreziosite da un tappeto di fiati sapientemente arrangiato, ora da Darrell Leonard, ora da Mark Pender, il laico, paludoso proto-gospel di My God Is Better Than Yours, fino a quel monito deliziosamente ironico che è What Happens In Vegas. Basato su quello stuzzicante mantra da marketing (What happens in Vegas stays in Vegas!) che fa leva sugli aspetti meno edificanti della natura umana e invita a visitare Las Vegas incoraggiando, mentre ovviamente si spende, a far di ogni e in segreto perché, lì, tutto è concesso, il racconto trasfigura, sulle lascive cadenze neorleansiane del piano di Mike Finnigan, in un sagace ammonimento riassunto nel sintetico slogan "....better watch out 'cause you're gonna lose your honey along with your money...".
La James, però, è strumento agile e svettante che raggiunge le sue più ricche profondità quando il ritmo rallenta e le atmosfere si aprono al soul più schietto. Così, se You Always Pick Me Up restituisce echi di Aretha Franklin, quella moderna soul ballad che è No Regrets rappresenta, forse, l'apice di questo disco che, nell'insieme, non fatico a considerare il suo più rappresentativo. G.R.


HOLLY HYATT & JON BURDEN

"Shufflin' the blues"

Flood Plane Rec. (Can) - 2016

Blow wind blow/Mother earth blues/Let's boogie/Lowdown blues/Come on in my kitchen/Get your own man/Left handed soul/Black crow/Slushy blues





Con la loro interpretazione, zigzagante con equilibrio tra classici e originali, il blues assume qui una forma ben più colloquiale, quasi da colto, raffinato entertainment, dove la voce grossa la fanno il tono pastoso e il sommesso swing della chitarra di Jon Burden e il cristallino, versatile timbro di Holly Hyatt, cantante e bassista.
Per questa terza prova discografica e dopo due esperienze interamente acustiche, il duo canadese Holly Hyatt (basso e voce) & Jon Burden (chitarre e voce) attacca la spina e ingaggia Marvin Walker alle percussioni. E lo fa di fronte al pubblico, raccolto e attento, della Silverton Gallery di Silverton, appunto, British Columbia. Si comincia con due classici come Blow Wind Blow di Muddy Waters e Mother Earth Blues di Memphis Slim. Se il primo viene ben riproposto sotto le iniziali, ingannevoli sembianze melodico-ritmiche di Back To The Chicken Snack, del quale pure mantiene la spumeggiante verve e il festoso andamento, il paragone del secondo con l'originale risulta, invero, un po’ impietoso. Mother Earth perde, nell'attuale lettura del duo (ben differente, per esempio, rispetto a quella, decisamente magistrale, proposta da Ken Saydak nel suo primo, splendido esordio solista su Delmark, Foolish Man), quel suo tipico, cupo incedere e tutta la sua carica di sinistro monito, per trasformarsi in un più dialogante, innocuo, quasi amicale ammonimento.
Il resto del programma si snoda tra una convincente evocazione di Robert Johnson col suo Come On In My Kitchen, alcuni originali animati da uno spirito più cantautorale come il misterioso Black Crow o il ricordo di quel misconosciuto talento che è stato Nick Gravenites (Nick The Greek) qui compiutamente omaggiato col suo arguto slow Left Handed Soul....”....I feel cold, so cold, livin’ in a right-handed world with my left-handed soul...”. G.R.  


WILL PORTER feat. DR. JOHN

"Tick tock tick"

Gramofono Sound Rec. (Usa) - 2016


Tick tock tick (I thought the change would do you good)/Why do we get blue?/When the battle is over/Make you feel my love/I'm blue (shoo be doo)/This California sun/I can do bad by myself/Don't go to strangers/Treadin' water/Tear it up/Everything's gonna be alright


La storia di questo disco è la storia di una trinità. In principio fu Wardell Quezergue, compositore, arrangiatore e produttore. Masterchef dell’impiattamento contrappuntistico, padrone di un alfabeto melodico-timbrico quasi visionario, meglio conosciuto come il Beethoven creolo, fu interprete di una lunga stagione artistica che, a partire dagli anni ‘60 lo vide protagonista in più vesti con Fats Domino, Earl King, Clarence Brown, Stevie Wonder, Neville Brothers e innumerevoli altri artisti soul e R&B.
Venne, poi, Dr. John che, ben prima di diventare il principale erede della tradizione pianistica di New Orleans così come oggi è conosciuto e riconosciuto figurò, ancora teenager, nella band di Quezergue, proprio in qualità di pianista.
Da ultimo, venne Will Porter. Proveniente dalla Bay-Area, dopo aver legato per decenni il suo nome ad artisti come Billy Preston e Mary Wells, qualche anno fa, decise di scommettere sulle sue doti solistiche e, con una manciata di musicisti stellari, alcuni dei quali ritroviamo anche qui, volò proprio a New Orleans per registrare Happy, il suo primo lavoro solista. A produrre quel disco, fu proprio Quezergue.
Fatta l’utile premessa, veniamo all’oggi. Le registrazioni che compongono quest’opera risalgono al 2011, anno in cui Quezergue scomparve, e fanno parte di un ultimo, imponente progetto che, proprio nelle intenzioni di Quezergue, suo ideatore, avrebbero avuto la finalità di gettare una luce nuova sulla personalità artistica di Dr. John, lasciando, finalmente, emergere le sue meno esplorate doti di sagace autore, piuttosto che quelle, già ben note, di performer. Quezergue avrebbe desiderato che, a interpretare quelle canzoni, fosse proprio Will Porter. Di tutto quel progetto embrionale, solo una minima parte dei brani vide la luce: l’omonimo, inedito Tick Tock Tick e When The Battle Is Over, qui presenti. In entrambi i brani (il secondo, di ben netta atmosfera neworleansiana) la lieve, flessuosa legnosità dello strumento vocale di Porter ben contrasta con i riflessi nasali, gigioneschi del controcanto di Dr. John, qui ospite. La natura confidenziale, il crooning della voce emergono, invece, nelle ballads: la deliziosa Why Do We Get Blue? dove le risonanze profonde e i riflessi pastosamente ramati rivelano tracce di Terry Callier e Lou Rawls, la romantica This California Sun o la celeberrima Don’t Go To Strangers. In quest’ultima, se contrapposta al resto del programma, l’interpretazione di Porter pare perdere un po’ in resa, lucidità e nitore tanto che, la sua versione, risulta meno riuscita se paragonata a quelle 'definitive' di questo brano rese prima da Etta Jones e successivamente, per esempio, da Johnny Adams. C’è spazio, poi, per il lento blues minore I Can Do Bad By Myself sottolineato, con drammatica eloquenza, dalla chitarra di Leo Nocentelli, per il giocoso I’m Blue (Shoo Be Do) di Ike Turner, per il funk di Tear It Up come per il conclusivo gospel di Everything’s Gonna Be Alright. L’asso viene calato, però, con la magistrale, improbabile lettura di Make You Feel My Love, estratta dal ricco songbook dylaniano e interpretata da Porter con l’intenso, aspro contributo di Bettye Lavette. Solo il talento di Quezergue avrebbe potuto arricchire questo spartito con gli archi della Louisiana Philarmonic Strings e un oboe senza suonare trito o stucchevole.
Fanno parte della partita, Jimmy Haslip, bassista degli Yellowjackets, i fiati dei Tower Of Power e il duo vocale The Womack Brothers un tempo noti, per iniziativa di Sam Cooke, come The Valentinos, che riconducono alcune tracce sulle vie della chiesa e ricordano gli impasti vocali di altri “brothers”, The Holmes Brothers.       

Tick Tock Tick rappresenta, in forma ibrida, il trionfo postumo di Quezergue quale straordinario arrangiatore e la consacrazione di un singolare cantante il cui rotondo, risonante baritono media qui, da una ricca, variegata tavolozza cromatica, tutte le cangianti declinazioni del suo canto. G.R.

 
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