La magmatica, avvolgente pastosità baritonale di Eddie Shaw, storico sassofonista e bandleader del Lupo Ululante di Chicago dilata, come in un’immaginaria caduta nella melassa dello spazio-tempo, il perimetro dell’iniziale The Wolf Will Howl Again, duettando col granuloso e sorprendentemente soulful strumento vocale di Derrick Procell.
Tutto fuorché artista esordiente o, meno che mai, musicista della domenica, in questo suo debutto nel genere Procell ci spiega, con chiara eloquenza, ‘perché ha scelto di cantare il blues’: “...since it hit me, it’s been with me/it’s something you can’t lose/it can’t escape me this thing that shape me/it’s why I choose to sing the blues…). E, per farlo, si aggrega al luminoso talento d’autore del già Grammy Award Winner Terry Abrahamson e licenzia un dischetto che costituisce la più piacevole tra le sorprese concesse agli occupanti di questa terra sul finire del 2016.
Due sono, quindi, i protagonisti di questo disco: quello ufficiale, raffigurato sulla copertina, Procell, e quello che, pur con tutto il suo volume di importanza, resta tra le quinte, Abrahamson. Il primo, nel suo personale percorso musicale e pur conservando sempre vivo il primigenio amore per il blues, ha intrapreso strade che, spesso, lo hanno costretto a deviare verso generi adiacenti come rock, country, roots e, da ultimo, a interpretare colonne sonore di jingles o famosi serial TV come Criminal Minds. Il secondo, come detto, è ben noto, immaginifico e stagionato autore di talento le cui canzoni sono state interpretate dai più nobili esponenti del genere; ricordiamo, una su tutte, la sua Bus Driver, presente in Hard Again, anno 1978, disco della definitiva resurrezione di Muddy Waters. Oggi, la grande esperienza di Abrahamson e il talento sfaccettato di Procell si sono felicemente incontrati a un ben preciso crocicchio, dando vita a quello che è, di quest’ultimo, il primo disco interamente blues.
Qui, in realtà, le forme stilistiche vengono spesso costrette ben oltre il banale confine delle dodici battute. In Trouble Me No More, per esempio, ci si sposta qualche miglio più a sud, proprio là, dove Gregg Allman e la sua band esercitavano, con indiscussa autorità, il loro sommo magistero. Spingendosi ancora oltre, nella medesima direzione, si arriva alla successiva The Eyes Of Mississippi con l’evocativa, paludosa slide di Bob Margolin a sottolineare i più reconditi misteri di due occhi vigili da country boy, risaliti oltre la Mason Dixon Line, che “...there ain’t nothing they don’t tell...”. Come richiamato dalla fune elastica in un bungee jumping, con le successive, Why I Choose To Sing The Blues e Broke The Mold si torna rapidi verso le terre battute dagli Allman e, tra l’arguto shuffle di They All Find Out e la cinica Sorry?, si arriva dritti a Who Will Tell Lucille, commovente omaggio alla chitarra di B.B. King, qui umanizzata, come già fu nel nome di battesimo attribuitole, e assurta al ruolo di regina inconsolabile dopo la morte del suo Re. Qui, anche la chitarra di Alex Smith, di King mantiene, come in un estremo, ultimo omaggio, il chiaro feel. L’armonica di Billy Branch illumina Back In The Game, uno dei tre brani scritti da Procell così come il conclusivo Too Much ripescato, nella macchina del tempo, direttamente dal suo repretorio anni ‘90. Ma prima del finale, ancora una sopresa ci viene offerta dal duo Abrahamson-Procell: Don’t Wast A Wish On Me dove un testo sardonico, che invita a non giocarsi desideri sull’uomo sbagliato, si abbina sagacemente a un piano che ben ricorda un Randy Newman nel suo aggirarsi guardingo dalle parti di New Orleans.
Oltre che cantante dal timbro mordace, molto debitore al già citato Gregg Allman e un po’ a Delbert McClinton, Procell è ottimo polistrumentista comparendo anche in veste di pianista, armonicista e bassista.
Lo spirito di Howlin’ Wolf non è stato evocato invano: il Lupo, chiamato, si è presentato puntuale. Ed è, di certo, ancora lì che ascolta; con simpatia! G.R.