Dischi 11 - Macallè Blues

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Recensioni: dischi...

RONNIE BAKER BROOKS


"Times have changed"

Provogue Rec. (Usa) - 2017

Show me (feat. Steve Cropper)/Doin' too much (feat. "Big Head" Todd Mohr)/Twine time (feat. Lonnie Brooks)/Times have changed (feat. Al Kapone)/Long story short/Give me your love (feat. Angie Stone)/Give the baby anything the baby wants (feat. "Big Head" Todd Mohr & Eddie Willis)/Old Love (feat. Bobby "Blue" Bland)/Come on up (feat. Felix Cavalliere & Lee Roy Parnell)/Wham bam thank you Sam/When I was we (feat. Archie "Hubby" Turner)


E' un compendio di musica nera questo improvviso, quanto felicissimo, ritorno alle scene di Ronnie Baker Brooks. Al netto dei tanti ospiti che, ben lungi dal riempire vuoti, sottolineano con opportune presenze, lo spirito di ben precisi brani, con questo Times Have Changed, l'ancor giovane Brooks ci ricorda non solo del suo chiaro talento di chitarrista, qui ben bilanciato e opportunamente addomesticato da una sapiente produzione (opera di Steve Jordan), ma ci sorprende con un registro vocale profondamente soulful e ben calato in un contesto moderno.
Spesso coadiuvato da chi ha fatto la storia di Memphis e delle sue sale di incisione (i fratelli Hodges tutti, Lannie McMillan, Michael Toles, Lester Snell), dopo aver aperto questa sua opera del gran ritorno con Show Me A Man, omaggio al Joe Tex del periodo Atlantic (ospite, la chitarra di casa Stax di Steve Cropper), Brooks prosegue con Doin' Too Much, brano che ben figurerebbe tra il più recente repertorio folk-funk dell'arguto Bobby Rush, dove la sparsa, incisiva chitarra del giovane Brooks duetta col canto lievemente ossidato di Big Head Todd Mohr. Nel prosieguo, le due generazioni, quella del padre, Lonnie Brooks, più riflessivo e mellifluo e quella del figlio Ronnie, vivace e nervoso, si confrontano nello strumentale Twine Time. Con la nostalgica Times Have Changed, la chitarra e le atmosfere arrichite da ben arrangiati archi ricordano, con originalità, alcuni lavori anni '70 di B.B. King, Bobby Bland o Little Milton, e l'aggiunta del moderno rapper Al Rapone non fa altro che figurare quale opportuna, manifesta giustificazione dei tempi che cambiano. Pure il moderno funky blues di Long Story Short, benedetto da alcuni pungenti accenti di chitarra che ricordano, come improvvisi lampi di memoria, l'Iceman Collins fu Albert, piacerebbe assai all'ultimo Bobby Rush. Angie Stone compare, prima sommessamente ospite poi sempre più padrona della scena nella lunga, percussiva, sinuosa suite Give Me Your Love, degna del miglior Isahac Hayes.
E, dopo tanto proemio, giungiamo, ora, alla commozione. Il verso iniziale di Old Love, quel “...I can feel your body when I'm lyin' in bed...”, porto con affaticata mestizia dalla voce crepata di Bobby Bland, ormai malinconicamente avviato al tramonto, ma ancora capace di inattese, quanto, brevi e profonde zampate emotive, conferisce un fascino inedito al brano di Eric Clapton, divenuto, qui, inestimabile gemma se si pensa che questa costituisce l'ultima registrazione ufficiale, illuminata dalla drammatica, pensosa chitarra di Brooks, dell'inarrivabile “Blue” Bland. Felix Cavalliere e Lee Roy Parnell contribuiscono a tirare su il ritmo con la scanzonata Come On Up. Wham, Bam, Thank You Sam, delizioso racconto di una spiccia, modernissima donna in carriera (“...she's a hard working woman, with a lot goin' on and when she knows what she wants sure come on strong...”) che, con disappunto maschile (“....she hurt my feelings when we got through, she said don't call me, I'll call you....”), non desidera intralci amorosi a frapporsi tra i suoi edonistici progetti esistenziali. La nostalgia per i tempi andati evocata dal titolo del disco ritorna in chiusura, questa volta declinata in chiave non sociale, ma intima, con una splendida soul ballad dal titolo autoesplicativo, When I Was We. G.R.


THORNETTA DAVIS

"Hones woman"

Sweet Mama Music Rec. (Usa) - 2016

When my sister sings the blues (feat. Felicia Davis)/I gotta sang the blues/That don't appease me/Set me free/Am I just a shadow/I need a whole lotta lovin' to satisfy me/I'd rather be alone/I believe (everything gonna be alright)/Sister friends indeed/Get up and dance away your blues/Can we do that again/Honest woman/Feels like religion



Riemerge dalle sabbie mobili del tempo, con vigore e determinazione, anche Thornetta Davis, corposa interprete e, qui soprattutto, autrice da Detroit, Michigan, terra di crocevia idiomatici che, tra rock, blues, gospel e il sound della Motown hanno caratterizzato le partiture più significative concepite in questa che fu, e un po’ ancora resta, la città dei motori. Con un passato speso tra Bob Seger e il black rock degli esordi, oggi ritorna con un disco che si manifesta, fin dalle prime note, come un personale elogio delle radici, tessuto in chiave assai moderna.
C’è molto blues: il recitativo iniziale, interpretato dalla sorella Felicia sostenuta dal suono della slide guitar di Brian White, il boogie di That Don't Appease Me e di I Believe o quello che, grazie a Larry McCray e alla sua band che la accompagnano in Set Me Free, riesce più vigoroso e funkeggiante o ancora il lento talkin' blues, orgogliosamente femminista, di I'd Rather Be Alone. E quello un po’ più tradizionale come I Gotta Sang The Blues, dove Kim Wilson gioca il ruolo dell'ospite al canto e all’armonica.
Anche New Orleans e i suoi festosi ritmi da second line fanno mostra di sé in I Need A Whole Lotta Lovin' To Satisfy Me.
E c’è molto soul: Am I Just A Shadow, gioiellino del disco, ne è un moderno, ottimo esempio così come l'omonimo Honest Woman che, nelle venature lievemente country, ricorda alcuni episodi di Denise Lasalle nel suo periodo Malaco. Ma ciò che si avverte davvero forte è l’influsso della chiesa e del gospel e la conclusiva, giubilante Feels Like Religion ne è il principale, fiero emblema.
Su tutto, svetta orgoglioso il contralto, levigato e cristallino della Davis, mentre le voci vibranti delle sorelle Roseann e Rosemere Matthews illuminano buona parte del disco donando un sapore domenicale e sanctified a un lavoro che, quasi paradossalmente, trova nella sacralità del gospel il proprio denominatore comune anche laddove i toni sono marcatamente e formalmente profani.
A sostenere Thornetta Davis in questo suo ritorno, trionfante e riuscitissimo, la presenza di Brett Lucas, chitarrista e coautore di Bettye Lavette. G.R.


LISA BIALES

"The beat of my heart"

Big Song Music Rec. (USA) - 2017

Disgusted/What a man/I don't wanna hear it/Be my husband/Messin' around with the blues/Said I wasn't gonna tell nobody/Crying over you/Wild stage of life/Don't let nobody drag your spirit down/Romance in the dark/I should've known better/Brotherly love



L’efebico, cristallino soprano di Lisa Biales è calato qui in un repertorio e in uno stile non sempre allineati con le sue peculiari caratteristiche vocali. Ma, la nascita di questo disco, ha una sua storia particolare; e, questa storia, ha un suo fascino dal lessico affettivo, famigliare. La sua genesi risiede, infatti, nel ritrovamento di un vecchio 78 giri, inciso, nel 1947, da Alberta Roberts, madre della Biales: il brano in questione, scritto da Alberta stessa, si intitolava Crying Over You ed era la chiara raffigurazione di una fiorente ragazza di ventiquattro anni con l’intera vita davanti a sé e, al proprio fianco, ancora intatti, tutti i giovanili sogni. La Biales sentì per la prima volta sua madre cantare quella canzone mentre lavava i piatti e ricorda come quella donna le sembrasse così malinconicamente persa nella canzone tanto da apparire trasportata nel tempo e nello spazio. Quando, poi, ritrovò quel 78 giri Lisa Biales capì, ben oltre l’emozione della riscoperta, come la madre, cantando quel brano nello svogliato esercizio delle faccende di casa, si fosse sentita proiettata verso un tempo in cui tristezza, frustrazioni e sogni infranti erano ancora là da venire. Malgrado il disco originale fosse decisamente rovinato, l’operazione di restauro cui è stato sottoposto ha comunque permesso un’altra magia: concedere alle due donne, con un nuovo viaggio dimensionale nel tempo, di cantare insieme. Nel brano omonimo qui presente, infatti, il primo verso che si ascolta è proprio estratto dal disco originale e cantato da Alberta Adams stessa che, dal secondo verso, lascia spazio alla figlia.
Prodotta dal prolifico, lungimirante Tony Braunagel, la Biales, che in questo disco rinuncia alle sue doti di autrice per mostrarsi solo nel ruolo di pura interprete, è accompagnata da musicisti di prim’ordine (tra gli altri, Jim Pugh, Larry Taylor, Joe Sublett oltre che Braunagel stesso) impegnati a creare, col supporto di una sezione fiati, un sound ricco e corposo. Se, nei primi brani, padrone incontrastato è il ritmo è pur vero che, le caratteristiche migliori della sua voce emergono, più cristalline, quando il ritmo rallenta e l’atmosfera si fa più pensosa e lirica. Così, in Messin’ Around With The Blues, Romance In The Dark, Wild Stage Of Life o la stessa Crying Over You, la cantante si concede a quelle dinamiche e a quegli abbellimenti che meglio ne evidenziano le proprietà vocali e la calano nel contesto a lei decisamente più affine. Ma non è solo la torch-song a dominare la scena: c’è il funky di What A Man, la rilettura di Eric Bibb per mezzo del suo moderno spiritual Don’t Let Nobody Drag Your Spirit Down e il sorprendente, trascinante gospel Said I Wasn’t Gonna Tell Nobody. Meno convincente, invece, la riproposizione di Be My Husband di Nina Simone: il percussivo sciamanico senso di preghiera ancestrale, di intima, vulnerabile confessione dell’originale viene, qui, in buona parte smarrito. G.R.  


BIG HARP GEORGE

"Wash my horse in Champagne"

Blues Mountain Rec. (Usa) - 2016


Home stretch/Road kill/Wash my horse in Champagne/Cool mistake/My bright future/I ain't the judge of you/I wasn't ready/If only/Light from darkness/Mojo waltz/What's big/Size matters/Justice in my time



Il suono più tradizionale e jump di quella California armonicistica che guarda con un occhio a George “Harmonica” Smith e con l'altro alla giocosa mobilità sassofonistica di Louis Jordan rivive in questa seconda opera di Big Harp George. Dopo Chromaticism, il pregevole debutto solista uscito nel 2014 (e, su questo website, già recensito), Big Harp George, al secolo George Bisharat, torna in studio di registrazione e rincara la dose. E lo fa, chiamando nuovamente in forze il singolare talento di ingegnere del suono, oltre che di attivo polistrumentista, di Chris “The Kid” Andersen (il disco è stato, infatti, registrato presso i suoi ormai mitici Greaseland Studios di San Jose, California) e di altri noti musicisti dell’area come Little Charlie Baty, il sassofonista Michael Peloquin e il bassista Kedar Roy.
In un contesto formalmente schematico e ben definito come quello del blues, più o meno jump, è oggi difficile aggiungere originalità o inventare qualcosa di nuovo e Big Harp, di nuovo, non inventa nulla. Ma se, in senso strettamente formale, gli stili elettivi di riferimento sono quelli ben acquisiti e menzionati all’inizio, la cifra di originalità, che pur c’è e che Big Harp George mette generosamente in gioco, va ricercata nei testi e nel personale approccio allo strumento. Tutti i brani che fanno parte di quest’opera sono autografi e, a loro modo, si rifanno in più occasioni a quello stile arguto, tipico dei migliori autori blues. Penso, soprattutto, all’iniziale Home Stretch, a Road Kill, a Cool Mistake o, ancora, allo shuffle di I Ain’t The Judge Of You. Mentre le ombre brune, notturne di Charles Brown vengono evocate in My Bright Future e If Only si destreggia tra godibili cadenze e vibrazioni neorleansiane, la title track viene sorprendentemente benedetta da un ritmo latino nel quale la chitarra di Little Charlie Baty troneggia spavalda. Ci sono poi due immancabili strumentali come Mojo Waltz e Size Matters a evidenziare, se ancora servisse, il singolare approccio strumentale di cui si parlava prima. L’armonicista Big Harp George, senza inutili virtuosismi, fa veleggiare con estro e gusto lo strumento attorno alla voce e, ignorata la diatonica, si dedica esclusivamente all’armonica cromatica suonata, senza amplificazione e trucchi, in versione unplugged direttamente al microfono, conferendo a ogni singolo brano, un godibilissimo feel jazzato. G.R.
 
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