Sonny & Brownie's last train
Recensioni
Il disco raccontato da...
Guy Davis e Fabrizio Poggi
GUY DAVIS & FABRIZIO POGGI
"Sonny & Brownie's last train"
M.C. Rec. (USA) - 2017
Sonny & Brownie's last train/Louise, Louise/Hooray, hooray these women are killing me/Shortin' bread/Baby please don't go to New Orleans/Take this hammer/Goin' down slow/Freight train/Evil hearted me/Step it up and go/Walk on/Midnight Special
Guy Davis e Fabrizio Poggi (foto: Angelina Megassini)
Il chitarrista e cantante americano Guy Davis, protagonista tra i principali della recente rinascita del blues acustico e il nostro Fabrizio Poggi, instancabile armonicista, cantante, autore e divulgatore, non sono nuovi a collaborazioni. Dopo l'uscita, nel 2013, del loro acclamato Juba Dance, ecco i due ritornare insieme sulle tracce di Sonny Terry e Brownie McGhee, al cui mitico duo dedicano, evitando inutili tentativi di emulazione e dopo aver scavato nel loro vasto repertorio, questo sentito e personale omaggio che, come dicono loro stessi, vuole essere una lettera d'amore all'arte di Terry e McGhee.
Macallè Blues li ha incontrati per parlare proprio di questo loro ultimo disco...
Macallè Blues: sebbene tu e Guy Davis non siate nuovi a collaborazioni musicali (avevate già inciso il precedente Juba Dance insieme), sorprende sempre un po’ trovare un artista americano e uno italiano che si uniscono per incidere un disco. In generale, non è certo la prima volta che capita ma, riflettendoci, per una sorta di stortura mentale nostra, non siamo molto abituati a pensare che, dall’America, ci sia qualcuno che possa guardare a questa parte dell’oceano per instaurare un rapporto di collaborazione artistica nell’ambito del blues. Come sono nati il vostro sodalizio e l’idea di incidere insieme?
Guy Davis: io e Fabrizio ci siamo incontrati la prima volta una dozzina di anni fa. Credo fosse in Italia, ma Fabrizio invece sostiene che fosse a un festival nella Svizzera italiana. Lui era là con la sua band, i Chicken Mambo, mentre non ricordo se io ero da solo o col mio trio. In ogni caso, mi pare che, a un certo punto, mi invitò sul palco con lui. Dopo quel primo incontro, io, Fabrizio e sua moglie Angelina ci siamo reincontrati, di tanto in tanto, in Europa e, ogni qual volta ci si ritrovava, c'è sempre stata l'occasione per suonare insieme, io con lui e lui con me. Poi, alcuni anni fa, Fabrizio mi disse che avrebbe voluto produrre un mio lavoro. Così, siamo entrati in studio di registrazione e ne siamo usciti con Juba Dance. Siamo stati anche accompagnati, in un pezzo, da The Blind Boys of Alabama. Insieme siamo apparsi su cinque disci, due dei quali a nome di Fabrizio.
Fabrizio Poggi: per ciò che concerne la domanda vera e propria, credo che ti abbia esaurientemente risposto Guy. Da parte mia, in qualità di italiano ed europeo a commento della tua intelligente riflessione, credo che dalle nostre parti si soffra un po’, in special modo tra i sedicenti esperti di blues, di quello che un giornalista americano ha definito “razzismo al contrario”. Negli States sono proprio gli afroamericani quelli che si fanno meno problemi. Hanno meno preconcetti, meno strutture, insomma meno gabbie mentali. L’importante, per loro, è la chimica che si crea quando si suona; il feeling, la sincerità delle proposte, insomma essere sé stessi e donarsi completamente alla musica. Sotto ogni aspetto. D’altronde, dall’altra parte dell’oceano non esistono trucchi, segreti o scorciatoie. Basta essere sé stessi e lavorare sodo e prima o poi le cose succedono. Lavorare con passione, onestà e determinazione. Tutto ciò che ho ottenuto, l’ho ottenuto grazie alla mia armonica e suonando ogni sera come fosse l’ultima. Con tanti sacrifici, lacrime e sangue (delle mie labbra). Guy ed io senza troppi problemi abbiamo scoperto una fratellanza che trascende colore della pelle, lingua che si parla, e luogo dove si è nati. Dopo tutto, questo è il villaggio globale nella più positiva delle accezioni. E poi, il blues è o no diventato un linguaggio universale? Racconto spesso un episodio che mi è accaduto e che ritengo particolarmente significativo. Anche Jimmy Carter, il leader e più anziano componente dei Blind Boys of Alabama un giorno mi ha rivelato di considerarmi un fratello. Un fratello musicale. Sono privilegi questi che toccano il cuore ovviamente. Quando ho confidato al mio amico Jimmy Carter che ancora oggi vengo assalito da dubbi e paure di non essere all’altezza, di venire considerato in maniera diversa, per il solo fatto di essere nato e cresciuto in un paese che ha una cultura musicale totalmente differente, Jimmy mi ha detto: “Sai Fabrizio, io sono cieco dalla nascita. Sì, me l’hanno spiegato e quindi mi sono fatto un’idea, ma i concetti di nero, bianco, italiano, americano non significano molto per me. Non riesco a comprenderli fino in fondo. So solo che quando ti sento suonare la tua armonica, ti considero uno di noi. Non sento nessuna differenza tra me e te. E’ come se parlassimo la stessa lingua. Ti considero uno di famiglia, uno che appartiene alla mia stessa famiglia musicale”. Questa è una lezione di vita che invita a profonde riflessioni sulla “provincia” che alberga in ognuno di noi. E non sempre per colpa nostra.
MB: perchè proprio un disco dedicato al duo Terry/McGhee?
GD: è stata tutta un'idea di Fabrizio. Le registrazioni di Sonny Terry e Brownie McGee sono veri capolavori. Non ho mai pensato che avessero bisogno di essere rifatti da qualcuno, ma lui mi ha convinto. Entrambi siamo appassionati dello stile armonicistico di Sonny Terry (whooping style) e io non ho altro che la più alta considerazione per lo stile chitarristico, talvolta sottovalutato ma sempre eccellente, di Brownie McGhee.
FP: Credo che ce ne fosse bisogno perchè Sonny e Brownie oggi sembrano essere stati un po’ dimenticati. Specialmente in America. E non è giusto. Il 12 aprile 1980 - lo ricordo come se fosse ieri - vidi Sonny e Brownie a Mortara (PV), in un piccolo cinema perso tra la nebbia e le risaie della Lomellina pavese, durante quello che credo fosse l’unico tour italiano che il duo abbia mai fatto. Per me, fu una grande esperienza. All’epoca non suonavo ancora l’armonica. Avrei voluto avvicinarli solamente per stringere loro la mano e ringraziarli per ciò che avevano dato alla musica, ma ero troppo giovane e timido per farlo. E poi all’epoca conoscevo cinque o sei parole in inglese. Il destino che, come non mi stancherò mai di dire, mi ha riservato una carriera al di sopra di ogni più rosea aspettativa, ha voluto che incontrassi, in Guy Davis, la persona giusta per “ringraziare” ora e finalmente dopo quasi quarant’anni Sonny & Brownie per ciò che hanno fatto per il blues e la musica in generale, in un momento in cui il blues acustico è stato un po’ messo da parte. Parlo del blues acustico vero, non di quelle cose “alla moda” (occhiali scuri, dobro e cappello calato sugli occhi) in cui ogni tanto ho la sventura di imbattermi. La mia compagna Angelina, che è sempre stata parte fondamentale di tutti i miei percorsi, aveva notato che quando ero on the road con Guy parlavamo spesso di questi due giganti del passato e di quanto sia io che Guy fossimo stati profondamente influenzati da loro. Angelina ci ha detto che era nostro “dovere” fare un disco per ricordarli e così abbiamo fatto. L’anno scorso ci siamo chiusi due giorni in uno studio a Milano e suonando dal vivo, ma soprattutto improvvisando sul momento canzoni che non avevamo mai suonato, è venuto fuori questo album in cui spero che lo spirito di Sonny e Brownie venga fuori con la debita riconoscenza che tutto il mondo del blues deve loro.
MB: Sonny & Brownie’s Last Train pare avere una doppia anima: è, sì, un tributo a Sonny Terry & Brownie McGhee, ma sembra anche nato per svolgere una certa funzione didattica. Quella di passare il testimone della loro musica a una nuova generazione. Dunque, intrattenere e anche un po’ educare può essere una chiave di lettura corretta?
GD: il disco è la nostra lettera d'amore a questo duo. Se ha una funzione educativa, questa risiede nell'offrire al pubblico un'occasione in più per conoscere Sonny & Brownie. Spero che la gente, ascoltando il nostro disco, trovi la strada a ritroso verso la loro musica.
FP: non ho nulla da aggiungere a ciò che ha detto Guy e credo che la tua chiave di lettura sia assolutamente corretta. La sopravvivenza di questa musica è affidata al contagio ovvero a quanto riusciamo a trasmettere la passione che ci divora per questo genere di musica alle nuove generazioni. E’ tutto lì. E’ un dovere. Niente di meno e niente di più.
MB: forse anche portare testimonianza di come il talento possa essere un mezzo per vincere le avversità della vita. Ricordiamo che, tanto Sonny Terry quanto Brownie McGhee erano fisicamente menomati: il primo, cieco e il secondo, zoppo. Se non fosse stato per la musica, probabilmente sarebbero stati destinati a condurre una vita marginale...
GD: questo cd non è stato concepito per evidenziare le loro disabilità quanto far luce sul loro genio.
FP: sono fermamente convinto che il blues sia stato di grande aiuto per tutto il popolo americano nel suo duro, durissimo cammino dalla schiavitù alla libertà. Il mondo in cui vivevano era un mondo veramente crudele. Una volta un giornalista chiese a Guy cosa avrebbe chiesto al diavolo se si fosse trovato al crossroad. Che tipo di patto avrebbe fatto con lui. Guy, molto candidamente ma anche in maniera assolutamente graffiante, rispose che fino al 1965 ogni nero che era nato in America, ogni giorno quando si alzava, doveva fare un patto col diavolo. Era l’unico modo per essere sicuri di arrivare a sera ancora vivi. Questo la dice lunga su quello che ancora oggi rappresenta il blues per gli afroamericani. Non può essere relegato a mero intrattenimento. Dietro c’è una storia. E che storia.
MB: il disco si apre con l’unico brano originale, 'Sonny & Brownie's last train' scritto da voi due, una sorta di proemio che punta i riflettori sulla natura del duo Terry/McGhee e anticipa, con un piccolo recitativo e un dialogo incalzante tra chitarra e armonica, il tema fondamentale su cui l’opera verte…
GD: Sonny and Brownie's Last Train doveva suonare, nelle intenzioni, un po' come Traveling Blues di Blind Willie McTell, brano che raccota la storia di un uomo sulle rotaie. Quello che ho creato, per, è più uno scenario ce una storia.
FP: quello che Guy non dice nella sua risposta, per colpa della sua innata umiltà, è che ha scritto un capolavoro partendo da una mia idea che però era solo un soggetto ancora assolutamente grezzo. L’ha improvvisata in studio. Pronti, via, buona la prima! Ed era già perfetta e bellissima così. Non occorreva farne un'altra versione. Tutto quello che serviva era già lì. Credo che questa sia una delle più belle canzoni di Guy (e Guy di canzoni belle ne ha scritte tante). La nipote di Sonny Terry, che ha ascoltato la canzone in anteprima, mi ha detto che Sonny si sarebbe commosso se avesse avuto la possibilità di ascoltarla. Credo che tu abbia colto benissimo il tema su cui l’opera verte e che questo brano in qualche modo anticipa. E’ una specie di trailer emotivo del disco.
MB: in questo disco non si avverte il tentativo di riprodurre, sui vostri rispettivi strumenti, gli stili di Terry e McGhee quanto, a mio avviso, quello di rileggere, col vostro stile individuale, lo spirito di quel duo, reinterpretandone alcune pagine...
GD: giusto, è così.
FP: non avrebbe avuto alcun senso emulare, nota per nota, la musica registrata da questi due grandi (ma anche Guy è un grande, io sono solo fortunato perchè suono al suo fianco e non è difficile fare scintille quando si suona al fianco di un personaggio di quel calibro – detto per inciso se Guy fosse vissuto cent’anni fa sarebbe stato compagno di viaggio di John Lee Hooker e di Robert Johnson, ma questo è un altro mondo, e poi la storia non si fa né coi se né coi ma). Un giorno, quando io ero ancora agli inizi, un vecchio bluesman in Mississippi mi disse: “Stole from everybody and make it your own” e io ho sempre cercato di seguire questa regola d’oro. D’altronde così facevano anche Sonny e Brownie interpretando, a loro modo, brani già incisi da Leadbelly o da Big Bill Broonzy, tanto per fare qualche nome.
MB: ciò che avete riprodotto con successo, però, è la stessa energia, la stessa emotività tipiche del duo originario…
GD: non so se siamo davvero riusciti a riprodurre la stessa energia del duo, ma spero almeno che ci siamo andati vicini.
FP: nulla da aggiungere a ciò che ha detto Guy se non che ti ringrazio tantissimo per le tue parole.
MB: il repertorio di Sonny Terry & Brownie McGhee è sempre stato vario. In parte, formato da brani originali, in parte, forse anche in buona parte, da canzoni scritte da altri e da loro reinterpretate quando non addirittura canzoni della tradizione. Stilisticamente, sono stati certo legati al blues, ma anche al folk, allo spiritual, alle work songs. Insomma, più genericamente, ai canti della tradizione popolare americana. Sono stati una sorta di moderni trovatori: itineranti (difficile non pensare alla simbologia del 'freight train' o a quella dell’hobo pensando a loro), popolari nei contenuti e aristocratici in quanto a tecnica strumentale e capacità espressive….
GD: <ridendo> mi pare che tu abbia fatto i compiti a casa! Vero, comunque.
FP: cosa aggiungere a ciò che magistralmente hai già sintetizzato nella tua domanda se non che Sonny e Brownie forse già suonavano roots music o Americana prima che qualcuno coniasse questi termini.
MB: il tipico repertorio a largo spettro della coppia è sempre stato vasto ed è, qui, ben rappresentato: c’è il blues (Louise Louise, Goin’ Down Slow, Baby Please Don’t Go, etc.), il folk (Midnight Special, Freight train, Take This Hammer) e ci sono alcuni brani tratti dal songbook autografo del duo (Hooray Hooray, These Women Are Killing Me e Walk On). In un repertorio che è sempre stato così esteso oltre che vario, quale criterio vi ha guidato nella scelta dei brani?
GD: non faccio mai una selezione scientifica del materiale. Mi limito a scegliere le canzoni che mi piacciono e sulle quali credo si possa fare un buon lavoro.
FP: é stata dura. Siamo partiti da 100 canzoni. Ma abbiamo scelto, come dice Guy, semplicemente seguendo il nostro istinto. Come recitava il titolo di un libro di successo di qualche anno fa siamo “andati dove ci ha portato il cuore”. E l’anima. Abbiamo, a malincuore, lasciato fuori brani che suoniamo dal vivo durante le presentazioni del disco. Canzoni come John Henry, Pick a bale of cotton o Key to the highway tanto per citarne qualcuna.
MB: ultima particolarità: se non sbaglio, il disco è uscito anche in versione vinile e include i testi di tutte le canzoni...
GD: sì, il disco è disponibile anche in vinile, con i testi e la medesima grafica.
FP: Thom Wolke, il manager di Guy, voleva in qualche modo ricreare la grafica dei vecchi dischi della Folkways e credo che abbia fatto un ottimo lavoro. Credo che, poi, la foto scattata da un fotografo belga durante un concerto e sapientemente elaborata da Angelina, la mia compagna, abbia fatto il resto. A beneficiarne credo sia stata la versione in vinile, vero e proprio oggetto da collezione (e lo dico da appassionato compratore di dischi)! Non che la versione in cd sia male, anzi… (è solo più piccola)….