2014
I dischi in evidenza...2014
Questo disco - il diciottesimo per Fabrizio Poggi - fin dal titolo, racconta una storia; una storia ben poco nota anche ai più informati sul genere e dai contorni leggendari: quella dei Delta Italians. Contadini per lo più originari di Marche, Emilia, Veneto e Lombardia che, al passaggio tra ottocento e novecento, abbandonarono l’Italia per stabilirsi nelle piantagioni di cotone del Delta del Mississippi. Con l’abolizione della schiavitù e il conseguente, progressivo, abbandono di quelle piantagioni da parte della manodopera afroamericana, furono proprio gli “italians” a rimpiazzare, in parte, la forza lavoro mancante per la raccolta del cotone.
E come per i Delta Italians allora, per Fabrizio, oggi, questo nuovo disco rappresenta una sorta di rivoluzione. Dopo le varie peregrinazioni artistiche e stilistiche tra Italia e Stati Uniti e un sodalizio “unplugged” ormai consolidato con Guy Davis, Poggi infonde nuova linfa ai Chicken Mambo rimaneggiando la formazione che, attualmente, include il talentuoso Enrico Polverari alla chitarra oltre che Tino Cappelletti (per anni e anni con Fabio Treves) al basso e Gino Carravieri alla batteria. Le sonorità, ora, virano un po’ più sul rockeggiante, ma il repertorio guarda molto al Mississippi con ampie citazioni di autori sacri come Sonny Boy Williamson secondo (Rice Miller), dal cui songbook si estrapolano l’iniziale Bye Bye Bird e Checkin’ Upon My Baby e poi, Slim Harpo la cui King Bee è impreziosita dalla slide guitar di un vulcanico, ispirato, Sonny Landreth, Blind Lemon Jefferson con la sua One Kind Favor e Big Joe Williams con la celeberrima e conclusiva Baby Please Don’t Go. Poi ci sono le rivisitazioni di brani noti e altri ospiti americani a far capolino nel prosieguo dell’ascolto: a The Blues Is Alright, del pure mississippiano Little Milton, viene reinventato il testo e aggiunta la chitarra di un monumentale Ronnie Earl; mentre in Mojo, rilettura del ben celebre Mojo Workin’, compare – ma guarda un po'! – proprio la chitarra di Bob Margolin, che fu per anni chitarrista di quel Muddy Waters, originale autore del pezzo. Da non dimenticare, poi, i brani a firma di Fabrizio come l’evocativo Devil At The Crossroad, originale contraltare al Tom Waits di Way Down In The Hole, pure presente nel disco, o I Want My Baby a cui viene aggiunta l’equilibrata ed elegante slide di Claudio Bazzari. A ricordare, poi, le sonorità della vicina Louisiana, pur sempre cara a Fabrizio, ecco qua e là l’accordion di Claudio Noseda.
Non sappiamo se e quanto, i Delta Italians, abbiano mai contribuito allo sviluppo del blues; probabilmente per nulla e la loro citazione è soltanto un pretesto per tracciare una linea idealmente parallela a quella degli afroamericani. Ma questo lavoro, che pare provenire direttamente da oltreoceano è, altrettanto idealmente, dedicato a loro e al loro ipotetico juke joint inevitabilmente chiamato Spaghetti. G.R.
Di chitarristi, del blues, è pieno il mondo. Pure i pianisti non mancano ma, ahimè, a parte qualche luminoso esempio, si notano assai meno. Sarà che, anche nel blues, la chitarra ha sempre ricoperto un ruolo solistico magistrale e, per sua natura, ha contribuito a far assumere all’ego di tanti maghi del manico forme abbondantemente ipertrofiche tali da surclassare altri, pur nobili, strumenti; sarà che la sinuosa forma della chitarra, già di per sé, evoca sensuali fantasie che il nero, austero, legno di un piano rimuove, ma quando la classe c’è, non servono gli occhi per vederla.
Talentuoso pianista ligure, Enrico “Henry” Carpaneto è candidato di diritto a diventare il rappresentate del piano blues made in Italy all’estero. Ma andiamo per ordine. Enrico, soprannominato Cool Henry Blues da Bryan Lee, produttore del presente dischetto, è ragazzo che ha fatto i compiti a casa e si sente. Tanto blues & boogie, terapie d’urto di Pinetop Perkins e Jay McShan, pillole di Professor Longhair e Dr. John oltre a tanto mestiere e gusto. Già tastierista nella band di Guitar Ray & the Gamblers, con loro ha accompagnato anche tanti artisti americani come Jerry Portnoy, Big Pete Pearson, Otis Grand, Paul Reddick e, da ultimo, proprio il neworleansiano Bryan Lee. La genesi di questo disco trae origine proprio da quest’ultima collaborazione. Enrico viene invitato a New Orleans proprio da Lee il quale, avendone da tempo riconosciuto il talento, decide di far da padrino al suo primo volo solista, regalandogli la sala di registrazione, una manciata di brani originali, la propria partecipazione al disco quale cantante e chitarrista e, a ingolosire il mix, la presenza di due assi pigliatutto come Otis Grand e Tony Coleman quali ospiti. La band, pur assemblata in varie registrazioni, raggiunge ragguardevoli livelli di omogeneità, riconoscendo a ogni musicista il proprio giusto ruolo e mirando più all’esito finale che non all’emergere della singola individualità, Enrico compreso. Otis Grand che, in Caledonia, pare, sputato, il compianto B.B. King e, negli altri brani dove compare, ci mette il T-Bone Walker rivisitato che serve inietta una dose extra di energia; anche il drumming dell’ex batterista di B.B. King, Tony Coleman, dove compare conferisce un differente, ma sempre funzionale drive. Il risultato? Un riuscito, compiuto, esempio di traditional rollin’n’jumpin’ blues. E ora, che aspettarsi da Cool Henry? Beh, se l’ascoltatore ha pazienza e non si arrende alle apparenze, la ghost track presente nel disco lo rivela proprio sul finale. Ci aspettiamo un trionfo solistico! Un secondo disco col piano del nostro ben, ben in evidenza e con tutto il gusto di cui ha dimostrato essere capace. G.R.