2016 - Macallè Blues

Macallé Blues
....ask me nothing but about the blues....
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2016

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I dischi in evidenza...2016


I dischi in evidenza: in questa sezione del sito, troverete le recensioni delle più interessanti (a mio personalissimo avviso!) novità discografiche, suddivise per anno di pubblicazione!

THORNETTA DAVIS

"Hones woman"

Sweet Mama Music Rec. (Usa) - 2016

When my sister sings the blues (feat. Felicia Davis)/I gotta sang the blues/That don't appease me/Set me free/Am I just a shadow/I need a whole lotta lovin' to satisfy me/I'd rather be alone/I believe (everything gonna be alright)/Sister friends indeed/Get up and dance away your blues/Can we do that again/Honest woman/Feels like religion


Riemerge dalle sabbie mobili del tempo, con vigore e determinazione, anche Thornetta Davis, corposa interprete e, qui soprattutto, autrice da Detroit, Michigan, terra di crocevia idiomatici che, tra rock, blues, gospel e il sound della Motown hanno caratterizzato le partiture più significative concepite in questa che fu, e un po’ ancora resta, la città dei motori. Con un passato speso tra Bob Seger e il black rock degli esordi, oggi ritorna con un disco che si manifesta, fin dalle prime note, come un personale elogio delle radici, tessuto in chiave assai moderna.
C’è molto blues: il recitativo iniziale, interpretato dalla sorella Felicia sostenuta dal suono della slide guitar di Brian White, il boogie di That Don't Appease Me e di I Believe o quello che, grazie a Larry McCray e alla sua band che la accompagnano in Set Me Free, riesce più vigoroso e funkeggiante o ancora il lento talkin' blues, orgogliosamente femminista, di I'd Rather Be Alone. E quello un po’ più tradizionale come I Gotta Sang The Blues, dove Kim Wilson gioca il ruolo dell'ospite al canto e all’armonica.
Anche New Orleans e i suoi festosi ritmi da second line fanno mostra di sé in I Need A Whole Lotta Lovin' To Satisfy Me.
E c’è molto soul: Am I Just A Shadow, gioiellino del disco, ne è un moderno, ottimo esempio così come l'omonimo Honest Woman che, nelle venature lievemente country, ricorda alcuni episodi di Denise Lasalle nel suo periodo Malaco. Ma ciò che si avverte davvero forte è l’influsso della chiesa e del gospel e la conclusiva, giubilante Feels Like Religion ne è il principale, fiero emblema.
Su tutto, svetta orgoglioso il contralto, levigato e cristallino della Davis, mentre le voci vibranti delle sorelle Roseann e Rosemere Matthews illuminano buona parte del disco donando un sapore domenicale e sanctified a un lavoro che, quasi paradossalmente, trova nella sacralità del gospel il proprio denominatore comune anche laddove i toni sono marcatamente e formalmente profani.
A sostenere Thornetta Davis in questo suo ritorno, trionfante e riuscitissimo, la presenza di Brett Lucas, chitarrista e coautore di Bettye Lavette. G.R.


BIG HARP GEORGE

"Wash my horse in Champagne"

Blues Mountain Rec. (Usa) - 2016


Home stretch/Road kill/Wash my horse in Champagne/Cool mistake/My bright future/I ain't the judge of you/I wasn't ready/If only/Light from darkness/Mojo waltz/What's big/Size matters/Justice in my time


Il suono più tradizionale e jump di quella California armonicistica che guarda con un occhio a George “Harmonica” Smith e con l'altro alla giocosa mobilità sassofonistica di Louis Jordan rivive in questa seconda opera di Big Harp George. Dopo Chromaticism, il pregevole debutto solista uscito nel 2014 (e, su questo website, già recensito), Big Harp George, al secolo George Bisharat, torna in studio di registrazione e rincara la dose. E lo fa, chiamando nuovamente in forze il singolare talento di ingegnere del suono, oltre che di attivo polistrumentista, di Chris “The Kid” Andersen (il disco è stato, infatti, registrato presso i suoi ormai mitici Greaseland Studios di San Jose, California) e di altri noti musicisti dell’area come Little Charlie Baty, il sassofonista Michael Peloquin e il bassista Kedar Roy.
In un contesto formalmente schematico e ben definito come quello del blues, più o meno jump, è oggi difficile aggiungere originalità o inventare qualcosa di nuovo e Big Harp, di nuovo, non inventa nulla. Ma se, in senso strettamente formale, gli stili elettivi di riferimento sono quelli ben acquisiti e menzionati all’inizio, la cifra di originalità, che pur c’è e che Big Harp George mette generosamente in gioco, va ricercata nei testi e nel personale approccio allo strumento. Tutti i brani che fanno parte di quest’opera sono autografi e, a loro modo, si rifanno in più occasioni a quello stile arguto, tipico dei migliori autori blues. Penso, soprattutto, all’iniziale Home Stretch, a Road Kill, a Cool Mistake o, ancora, allo shuffle di I Ain’t The Judge Of You. Mentre le ombre brune, notturne di Charles Brown vengono evocate in My Bright Future e If Only si destreggia tra godibili cadenze e vibrazioni neorleansiane, la title track viene sorprendentemente benedetta da un ritmo latino nel quale la chitarra di Little Charlie Baty troneggia spavalda. Ci sono poi due immancabili strumentali come Mojo Waltz e Size Matters a evidenziare, se ancora servisse, il singolare approccio strumentale di cui si parlava prima. L’armonicista Big Harp George, senza inutili virtuosismi, fa veleggiare con estro e gusto lo strumento attorno alla voce e, ignorata la diatonica, si dedica esclusivamente all’armonica cromatica suonata, senza amplificazione e trucchi, in versione unplugged direttamente al microfono, conferendo a ogni singolo brano, un godibilissimo feel jazzato. G.R.

DERRICK PROCELL


"Why I choose to sing the blues"

Here And Now Rec. (Usa) - 2016

The Wolf will howl again (feat. Eddie Shaw)/Trouble me no more/The eyes of Mississippi (feat. Bob Margolin)/Why I choose to sing the blues/They all find out/Broke the mold/Ain't nuthin' more about it, sorry/Who will tell Lucille/Back in the game (feat. Billy Branch)/Don't waste a wish on me/Too much (bonus track)

La magmatica, avvolgente pastosità baritonale di Eddie Shaw, storico sassofonista e bandleader del Lupo Ululante di Chicago dilata, come in un’immaginaria caduta nella melassa dello spazio-tempo, il perimetro dell’iniziale The Wolf Will Howl Again, duettando col granuloso e sorprendentemente soulful strumento vocale di Derrick Procell.
Tutto fuorché artista esordiente o, meno che mai, musicista della domenica, in questo suo debutto nel genere Procell ci spiega, con chiara eloquenza, ‘perché ha scelto di cantare il blues’: “...since it hit me, it’s been with me/it’s something you can’t lose/it can’t escape me this thing that shape me/it’s why I choose to sing the blues…). E, per farlo, si aggrega al luminoso talento d’autore del già Grammy Award Winner Terry Abrahamson e licenzia un dischetto che costituisce la più piacevole tra le sorprese concesse agli occupanti di questa terra sul finire del 2016.
Due sono, quindi, i protagonisti di questo disco: quello ufficiale, raffigurato sulla copertina, Procell, e quello che, pur con tutto il suo volume di importanza, resta tra le quinte, Abrahamson. Il primo, nel suo personale percorso musicale e pur conservando sempre vivo il primigenio amore per il blues, ha intrapreso strade che, spesso, lo hanno costretto a deviare verso generi adiacenti come rock, country, roots e, da ultimo, a interpretare colonne sonore di jingles o famosi serial TV come Criminal Minds. Il secondo, come detto, è ben noto, immaginifico e stagionato autore di talento le cui canzoni sono state interpretate dai più nobili esponenti del genere; ricordiamo, una su tutte, la sua Bus Driver, presente in Hard Again, anno 1978, disco della definitiva resurrezione di Muddy Waters. Oggi, la grande esperienza di Abrahamson e il talento sfaccettato di Procell si sono felicemente incontrati a un ben preciso crocicchio, dando vita a quello che è, di quest’ultimo, il primo disco interamente blues.
Qui, in realtà, le forme stilistiche vengono spesso costrette ben oltre il banale confine delle dodici battute. In Trouble Me No More, per esempio, ci si sposta qualche miglio più a sud, proprio là, dove Gregg Allman e la sua band esercitavano, con indiscussa autorità, il loro sommo magistero. Spingendosi ancora oltre, nella medesima direzione, si arriva alla successiva The Eyes Of Mississippi con l’evocativa, paludosa slide di Bob Margolin a sottolineare i più reconditi misteri di due occhi vigili da country boy, risaliti oltre la Mason Dixon Line, che “...there ain’t nothing they don’t tell...”. Come richiamato dalla fune elastica in un bungee jumping, con le successive, Why I Choose To Sing The Blues e Broke The Mold si torna rapidi verso le terre battute dagli Allman e, tra l’arguto shuffle di They All Find Out e la cinica Sorry?, si arriva dritti a Who Will Tell Lucille, commovente omaggio alla chitarra di B.B. King, qui umanizzata, come già fu nel nome di battesimo attribuitole, e assurta al ruolo di regina inconsolabile dopo la morte del suo Re. Qui, anche la chitarra di Alex Smith, di King mantiene, come in un estremo, ultimo omaggio, il chiaro feel. L’armonica di Billy Branch illumina Back In The Game, uno dei tre brani scritti da Procell così come il conclusivo Too Much ripescato, nella macchina del tempo, direttamente dal suo repretorio anni ‘90. Ma prima del finale, ancora una sopresa ci viene offerta dal duo Abrahamson-Procell: Don’t Wast A Wish On Me dove un testo sardonico, che invita a non giocarsi desideri sull’uomo sbagliato, si abbina sagacemente a un piano che ben ricorda un Randy Newman nel suo aggirarsi guardingo dalle parti di New Orleans.
Oltre che cantante dal timbro mordace, molto debitore al già citato Gregg Allman e un po’ a Delbert McClinton, Procell è ottimo polistrumentista comparendo anche in veste di pianista, armonicista e bassista.
Lo spirito di Howlin’ Wolf non è stato evocato invano: il Lupo, chiamato, si è presentato puntuale. Ed è, di certo, ancora lì che ascolta; con simpatia! G.R.


RANDY McALLISTER

"Fistful of gumption"

Reaction Rec. (Usa) - 2016

C'mon brothers and sisters/Time for the sun to rise/Ride to get right (tribute to Otis Redding and Earl King)/Roll with the flow/My stride/Background singer/The oppressor/Leave a few wrong notes/Band with the beautiful bus/East Texas scrapper


Possiede la rara, sorprendente bellezza di un diamante grezzo; il luccichio della pietra autentica filtrata attraverso una patina granosa di argilla e fango. Questo è McAllister. E, come lui, la sua opera rimanda alle medesime qualità qui, come forse mai prima, ben formate dalla mano abile ed esperta del vasaio.
Questo East Texas bluesman, come lui ama definirsi, è autore prolifico e talentuoso, polistrumentista giunto ora alla tredicesima prova discografica, ben matura e feconda di idee. Pur non essendolo in modo formalmente compiuto, si è sempre distinto per essere animato dallo spirito del one-man-band. Batterista secco e preciso, armonicista essenziale ed efficace oltre che washboardista ha sempre mostrato una grande devozione per il vigore del blues texano al quale, fin dagli esordi, ha abbinato la sua acuta penna d’autore.
Registrato in compagnia della sua attuale band, con ironia e ragione battezzata The Scrappiest Band In The Motherland, Fistful Of Gumption riprende, in parte, le atmosfere dei suoi dischi più recenti ma, da questo punto, si spinge un po’ al largo giungendo a nuovi approdi. La presenza, ormai consolidata, di Maya Van Nuys al violino conferisce un vago sentore country all’intero mix. E il forte braccio di McAllister si regge, per le parti solistiche, proprio sul violino e sulla chitarra acidula e pungente di Rob Dewan.
Le danze cominciano col ritmo brusco e i frequenti cambi di tempo di C’mon Brothers And Sisters che conducono all’unica cover presente, Time For The Sun To Rise. Scritta da Earl King, è qui rivisitata con un peculiare mood surreale, cogitabondo e arricchita proprio da una toccante parte di violino. Sebbene nelle intenzioni e come testimoniato dal sottotitolo voglia essere un tributo a Otis Redding e Earl King, Ride To Get Right è un magistrale gumbo dove violino e chitarra, schiettamente country, ricamano virtuosismi su una trama compiutamente zydeco e un coro finale con ascendenze gospel. Grazie ad altri sapienti cambi di tempo, macina southern rock e gospel a corrente alternata, Background Singer, intelligente metafora esistenziale sui destini di chi è voce in un coro ma, pur inascoltato, lotta per conquistare la propria dimensione "solistica". Gli stessi cambi di tempo che illuminano The Oppressor, uno dei brani più affascinanti, duri e drammatici dell’intero disco, con violino e chitarra a distillare ogni oncia di urgente espressività.
Il Texas più schietto rivive nello shuffle di Band With A Beaufitul Bus, ironico, godibile bozzetto di vita vera da musicista on the road. Mentre la conclusiva East Texas Scrapper potrebbe essere, invece, il peculiare biglietto da visita di questo artista dalla voce aspra come quella di un Bob Seger, ma senza inutili romanticherie da ballate. “...I’m an Est Texas scrapper, shake my hand!” G.R.


MAT WALKLATE & PAOLO FUSCHI

"Kicking up the dust"

Autoprodotto (UK) - 2016

Ain't no big deal on you/Goin' down slow/As long as I have you/Nothin' but love/Trouble no more/Fat man/Don't you know me/Black cat bone/Oh babe (sick and tired)/Man in the street/Money


Irlanda Italia. Non è il titolo di un match calcistico, ma le nazionalità rispettivamente di Mat Walklate, armonicista cantante e di Paolo Fuschi, chitarrista e, pure, cantante sebbene occasionale. Il duo, di recente formazione, ha avuto i suoi natali e vive la sua esistenza artistica in Inghilterra. In questo senso, Fuschi ne ha fatta di strada considerate le sue origini siciliane. Ennesimo esempio di musicista che, dal nostro patrio suolo, emigra all’estero in un esodo che ingloba cervelli in fuga, non solo più scientifici, ma ormai appartenenti a ogni talentuosa risma. A differenza dei tanti altri che lo hanno preceduto, però, non emigra in America, ma oltremanica, in quella terra che, negli hanni ‘60, ebbe un ruolo fondamentale nel far scoprire il blues agli europei.
In questo Kicking Up The Dust, dunque, Fuschi gioca, in modo egregio ed efficace, il suo ruolo principale di chitarrista ritmico, instancabile creatore di un tappeto sonoro sul quale Mat Walklate affronta i compiti di armonicista (prevalentemente cromatico) e cantante: entrambi si propongono qui in versione amplificata. Il programma del disco comprende quasi esclusivamente cover. Si parte dalla sferzante Ain’t No Big Deal On You e si prosegue con una rilettura insolitamente funkeggiante di Goin’ Down Slow. As Long As I Have You di Willie Dixon assume un andamento drammatico, un aleggiante tono funereo. New Orleans fa capolino con Fat Man e il meddley Oh Babe/Man In The Street e, a metà disco, nell’unico brano originale presente, Don’t You Know Me, il canto dalle tonalità castane e profondamente paterne di Walklate lascia spazio a quello più efebico, acerbo di Fuschi così come l’agile armonica del primo, fa un po’ di posto alla chitarra del secondo che gode qui, di un suo momento di rilievo. G.R.  


THE DOGTOWN BLUES BAND feat. BARBARA MORRISON

"Everyday"

RVL Music Rec. (Usa) - 2016


Everyday I have the blues/Shrimp walk/Easy baby/Boxcar 4468/Doc's boogie/Variation II/Ain't nobody's business/All the way down/Same old blues/County line


Parafrasando Totò, potremmo dire che non è sempre la somma a fare il totale; o, quanto meno, a fare la differenza.
La losangelena Dogtown Blues Band raduna, attorno alla veterana figura del chitarrista Richard Lubovitch, un drappello di davvero valenti musicisti. Ma, nel caso specifico, così come in generale, la pur indubbia e, qui, aggregata bravura dei singoli, è condizione, sì, necessaria ma non sempre sufficiente a sostenere, da sola, l’onere artistico di un’omogeneità d’intenti e di risultati. Nemmeno quando, a dare una mano, interviene, in qualità di cantante ospite, la sempre californiana Barbara Morrison.
Questo Everyday si rivela, quindi, opera perennemente in bilico tra una tradizione, talvolta rivisitata negli arrangiamenti, più marcatamente orchestrali e jazzistici, come nel classico Everyday I Have The Blues, e uno sforzo compositivo che si materializza in una serie di brani strumentali (cinque in totale) più indirizzati a mettere sotto il riflettore le individuali abilità solistiche dei membri della band. In questo senso, spicca di netto il virtuoso armonicista Bill Barrett che, impugnata la cromatica swinga con la testa persa in Toots Thilemans su Variation II. Con la diatonica, invece, illumina Shrimp Walk, strumentale dal feel latino, appoggiandosi al gustoso organo funk di Wayne Peet. Sempre Barrett dà un tocco downhome a un altro strumentale, All The Way Down; mentre, nella rilettura del Doc Pomus di Dog’s Boogie, abbandona l’armonica per darsi al canto e liberare la sua voce di sapido, scattante tenore.
C’è, poi, la veterana Barbara Morrison che, come detto, interviene da ospite nei brani più marcatamente blues del disco. Cantante di estrazione prettamente jazzistica tanto che la sua voce, nella quale si possono apprezzare sottili nasalità alla Esther Philips o timide, disperse asprezze alla Bettye Lavette, meglio si colloca nell’iniziale Everyday I Have The Blues o, meglio ancora, nel classico Ain’t Nobody’s Business che non immersa, come in Easy Baby o Same Old Blues, in, per lei, innaturali atmosfere da Tin Pan Alley che richiamerebbero una presenza vocale ben più torrida e carnale. G.R.

MITCH KASHMAR


"West Coast toast"

Delta Groove Rec. (Usa) - 2016

East of 82nd Street/Too many cooks/Young girl/The petroleum blues/Mood Indica/Don't stay out all night/My lil' stumptown shack/Makin' bacon/Alcohol blues/Love grows cold/Canoodlin'

Intorno a quanta e quale sia stata l’influenza che quel diavolaccio di George “Harmonica” Smith ha esercitato su tutti gli sbarbatelli cresciuti sotto il sole sbarazzino della California e che, sul fare degli anni ‘70, si avvicinavano al blues si potrebbe scrivere così tanto da asciugare interi calamai. Ma, ahimé, l’epoca dei calamai è, da tempo, finita e la mia voglia di fare della retrospettiva retorica, forse, non è mai cominciata. Resta il fatto, oggettivo e provato, su come il carismatico Smith abbia mietuto molte vittime sulla via della West Coast e che, dunque, questo geografico, metaforico 'toast' vada rivolto, forse e soprattutto, a lui.
Al pari di altri colleghi di più o meno lungo corso come Rod Piazza, Gary Smith, Mark Hummel o William Clarke, Mitch Kashmar da Santa Barbara - CA nasce artisticamente negli anni ‘80, e nasce come leader dei Pontiax. Da solista, la sua discografia è stata un po’ sparsa e frammentata, ma sempre di ottimo livello. Talento, ancorché parsimonioso nello scrivere, ma assai generoso nel suonare, per questa sua ultima uscita arruola i migliori esponenti del blues californiano e torna in pista a sei anni di distanza dal suo precedente disco. Gli arruolati attuali sono davvero le punte di diamante del jump californiano: il già membro onorario di Rod Piazza e dei suoi Mighty Flyers, Junior Watson alla chitarra; direttamente dalla Hollywood Fats Band, Fred Kaplan al piano e, a dirigere il traffico (di note), ancora dai Mighty Flyers, Bill Stuve al basso e, direttamente dalla band di Mark Hummel, Marty Dodson alla batteria.
Kashmar, come il proprio legittimo mentore, George Smith, ama imbracciare l’armonica cromatica di cui è un autentico maestro in quanto a tecnica, fraseggio e fantasia. Gli strumentali sono proprio il terreno migliore sul quale esercitare queste doti e, non sarà un caso, dunque, se il disco si regge per metà su brani strumentali e se si apre proprio con uno di questi, giusto per scaldare le labbra a Mitch e le dita a Junior. Durante l’uptempo East of 82nd Street, Fred Kaplan si scaldava a bordo campo, ma già nella rilettura del classico di Willie Dixon Too Many Cooks entra in gioco a gamba tesa e, con un uso sapiente, magistrale della dissonanza regala, con tocco latino, un memorabile e originale assolo di piano. La già citata parsimonia nello scrivere di Mitch Kashmar si manifesta qui nell’unico testo originale del disco, l’arguto e mestamente ironico The Petroleum Blues. Per il resto, il menù prevede brani presi a prestito da Sonny Boy Williamson, Billy Boy Arnold e Lowell Fulson.
Se pensiamo che questo disco è stato tutto registrato in presa diretta, one-take, durante quella che aveva tutta l’aria di essere una semplice, informale reunion tra vecchi amici, giù il cappello per Kashmar e compagni!! G.R.


TERESA JAMES

"Bonafide"

Jesi-Lu Rec. (Usa) - 2016

I like it like that/Bonafide/Spit it out/The power of need/Hollywood way/My God is better than yours/You always pick me up/What happens in Vegas/Too big to fail/Funny like that/No regrets/You want it when you want it/Have a little faith in me


E' un disco corale questo Bonafide, un disco distante miglia dall’ipertrofia di certi ego solistici, qui ridotti al minimo delle loro manifeste dimensioni e dove, invece, quasi tutto è indirizzato a sostenere la figura centrale della cantante.
Troppo facilmente ritenuta un’epigona di Bonnie Raitt, Teresa James trova invece un suo corrispettivo ben più azzeccato nella figura, pur maschile, di Delbert McClinton; accomunata, a quest’ultimo, oltre che dalle condivise origini texane, anche dalle scelte stilistiche e dal peculiare, abrasivo timbro vocale. Patrimonio di entrambi, il riuscito mix di blues, R&B, country e R&R così come, al di là delle ovvie differenze di registro, i riflessi passionali e quel graffio tipico di chi, con le unghie, s’aggrappa talvolta allo specchio dell’anima e, scivolando, lo graffia.
Da Houston, la James e la sua band hanno stabilito la propria dimora nell’area di Los Angeles tanto che, per questo suo nono disco, oltre ai soliti musicisti che le gravitano abitualmente attorno, anche altri noti californiani e session men di razza come il batterista Tony Braunagel e il fine pianista Mike Finnigan sono della partita.
Le sole cover concesse in questo Bonafide, sono le due che, rispettivamente, aprono e chiudono il disco: I Like It Like That, brano scritto nel 1954 da Lowman Pawling e, all'epoca, inciso da The 5 Royals e quel Have A Little Faith In Me, in tempi ben più recenti, uscito dal pugno di quell'ottimo autore che è John Hiatt. Nel primo, in forma di boogie, la James che - non lo si dimentichi -  è anche valente pianista, si produce in una delle poche, concise occasioni solistiche con un efficacissimo, pertinente solo di piano; nell'ultima, soul ballad interpretata in passato - ma guarda un po' - proprio da Delbert McClinton, ritroviamo la James al piano che, sul filo di una voce tesa rilegge, con fedeltà e passione, il brano. Tra questi due estremi, ci sono una manciata di riuscitissime canzoni, tutte frutto maturo della penna di Terry Wilson, suo bassista e compagno, che spaziano tra le sinuosità ammiccanti e swampy dell'omonima Bonafide, le venature bluesy di Spit It Out e The Power Of Need, entrambe impreziosite da un tappeto di fiati sapientemente arrangiato, ora da Darrell Leonard, ora da Mark Pender, il laico, paludoso proto-gospel di My God Is Better Than Yours, fino a quel monito deliziosamente ironico che è What Happens In Vegas. Basato su quello stuzzicante mantra da marketing (What happens in Vegas stays in Vegas!) che fa leva sugli aspetti meno edificanti della natura umana e invita a visitare Las Vegas incoraggiando, mentre ovviamente si spende, a far di ogni e in segreto perché, lì, tutto è concesso, il racconto trasfigura, sulle lascive cadenze neorleansiane del piano di Mike Finnigan, in un sagace ammonimento riassunto nel sintetico slogan "....better watch out 'cause you're gonna lose your honey along with your money...".
La James, però, è strumento agile e svettante che raggiunge le sue più ricche profondità quando il ritmo rallenta e le atmosfere si aprono al soul più schietto. Così, se You Always Pick Me Up restituisce echi di Aretha Franklin, quella moderna soul ballad che è No Regrets rappresenta, forse, l'apice di questo disco che, nell'insieme, non fatico a considerare il suo più rappresentativo. G.R.


HOLLY HYATT & JON BURDEN

"Shufflin' the blues"

Flood Plane Rec. (Can) - 2016

Blow wind blow/Mother earth blues/Let's boogie/Lowdown blues/Come on in my kitchen/Get your own man/Left handed soul/Black crow/Slushy blues


Con la loro interpretazione, zigzagante con equilibrio tra classici e originali, il blues assume qui una forma ben più colloquiale, quasi da colto, raffinato entertainment, dove la voce grossa la fanno il tono pastoso e il sommesso swing della chitarra di Jon Burden e il cristallino, versatile timbro di Holly Hyatt, cantante e bassista.
Per questa terza prova discografica e dopo due esperienze interamente acustiche, il duo canadese Holly Hyatt (basso e voce) & Jon Burden (chitarre e voce) attacca la spina e ingaggia Marvin Walker alle percussioni. E lo fa di fronte al pubblico, raccolto e attento, della Silverton Gallery di Silverton, appunto, British Columbia. Si comincia con due classici come Blow Wind Blow di Muddy Waters e Mother Earth Blues di Memphis Slim. Se il primo viene ben riproposto sotto le iniziali, ingannevoli sembianze melodico-ritmiche di Back To The Chicken Snack, del quale pure mantiene la spumeggiante verve e il festoso andamento, il paragone del secondo con l'originale risulta, invero, un po’ impietoso. Mother Earth perde, nell'attuale lettura del duo (ben differente, per esempio, rispetto a quella, decisamente magistrale, proposta da Ken Saydak nel suo primo, splendido esordio solista su Delmark, Foolish Man), quel suo tipico, cupo incedere e tutta la sua carica di sinistro monito, per trasformarsi in un più dialogante, innocuo, quasi amicale ammonimento.
Il resto del programma si snoda tra una convincente evocazione di Robert Johnson col suo Come On In My Kitchen, alcuni originali animati da uno spirito più cantautorale come il misterioso Black Crow o il ricordo di quel misconosciuto talento che è stato Nick Gravenites (Nick The Greek) qui compiutamente omaggiato col suo arguto slow Left Handed Soul....”....I feel cold, so cold, livin’ in a right-handed world with my left-handed soul...”. G.R.  


WILL PORTER feat. DR. JOHN

"Tick tock tick"

Gramofono Sound Rec. (Usa) - 2016


Tick tock tick (I thought the change would do you good)/Why do we get blue?/When the battle is over/Make you feel my love/I'm blue (shoo be doo)/This California sun/I can do bad by myself/Don't go to strangers/Treadin' water/Tear it up/Everything's gonna be alright


La storia di questo disco è la storia di una trinità. In principio fu Wardell Quezergue, compositore, arrangiatore e produttore. Masterchef dell’impiattamento contrappuntistico, padrone di un alfabeto melodico-timbrico quasi visionario, meglio conosciuto come il Beethoven creolo, fu interprete di una lunga stagione artistica che, a partire dagli anni ‘60 lo vide protagonista in più vesti con Fats Domino, Earl King, Clarence Brown, Stevie Wonder, Neville Brothers e innumerevoli altri artisti soul e R&B.
Venne, poi, Dr. John che, ben prima di diventare il principale erede della tradizione pianistica di New Orleans così come oggi è conosciuto e riconosciuto figurò, ancora teenager, nella band di Quezergue, proprio in qualità di pianista.
Da ultimo, venne Will Porter. Proveniente dalla Bay-Area, dopo aver legato per decenni il suo nome ad artisti come Billy Preston e Mary Wells, qualche anno fa, decise di scommettere sulle sue doti solistiche e, con una manciata di musicisti stellari, alcuni dei quali ritroviamo anche qui, volò proprio a New Orleans per registrare Happy, il suo primo lavoro solista. A produrre quel disco, fu proprio Quezergue.
Fatta l’utile premessa, veniamo all’oggi. Le registrazioni che compongono quest’opera risalgono al 2011, anno in cui Quezergue scomparve, e fanno parte di un ultimo, imponente progetto che, proprio nelle intenzioni di Quezergue, suo ideatore, avrebbero avuto la finalità di gettare una luce nuova sulla personalità artistica di Dr. John, lasciando, finalmente, emergere le sue meno esplorate doti di sagace autore, piuttosto che quelle, già ben note, di performer. Quezergue avrebbe desiderato che, a interpretare quelle canzoni, fosse proprio Will Porter. Di tutto quel progetto embrionale, solo una minima parte dei brani vide la luce: l’omonimo, inedito Tick Tock Tick e When The Battle Is Over, qui presenti. In entrambi i brani (il secondo, di ben netta atmosfera neworleansiana) la lieve, flessuosa legnosità dello strumento vocale di Porter ben contrasta con i riflessi nasali, gigioneschi del controcanto di Dr. John, qui ospite. La natura confidenziale, il crooning della voce emergono, invece, nelle ballads: la deliziosa Why Do We Get Blue? dove le risonanze profonde e i riflessi pastosamente ramati rivelano tracce di Terry Callier e Lou Rawls, la romantica This California Sun o la celeberrima Don’t Go To Strangers. In quest’ultima, se contrapposta al resto del programma, l’interpretazione di Porter pare perdere un po’ in resa, lucidità e nitore tanto che, la sua versione, risulta meno riuscita se paragonata a quelle 'definitive' di questo brano rese prima da Etta Jones e successivamente, per esempio, da Johnny Adams. C’è spazio, poi, per il lento blues minore I Can Do Bad By Myself sottolineato, con drammatica eloquenza, dalla chitarra di Leo Nocentelli, per il giocoso I’m Blue (Shoo Be Do) di Ike Turner, per il funk di Tear It Up come per il conclusivo gospel di Everything’s Gonna Be Alright. L’asso viene calato, però, con la magistrale, improbabile lettura di Make You Feel My Love, estratta dal ricco songbook dylaniano e interpretata da Porter con l’intenso, aspro contributo di Bettye Lavette. Solo il talento di Quezergue avrebbe potuto arricchire questo spartito con gli archi della Louisiana Philarmonic Strings e un oboe senza suonare trito o stucchevole.
Fanno parte della partita, Jimmy Haslip, bassista degli Yellowjackets, i fiati dei Tower Of Power e il duo vocale The Womack Brothers un tempo noti, per iniziativa di Sam Cooke, come The Valentinos, che riconducono alcune tracce sulle vie della chiesa e ricordano gli impasti vocali di altri “brothers”, The Holmes Brothers.       

Tick Tock Tick rappresenta, in forma ibrida, il trionfo postumo di Quezergue quale straordinario arrangiatore e la consacrazione di un singolare cantante il cui rotondo, risonante baritono media qui, da una ricca, variegata tavolozza cromatica, tutte le cangianti declinazioni del suo canto. G.R.

FABRIZIO POGGI


"Texas blues voices"

Appaloosa Rec. (I) - 2016

Nobody's fault but mine/Walk on/Forty days and forty nights/Rough edges/Mississippi, my home/Neighbor neighbor/Many in body/Welcome home/Wishin' well/Run on

Ci si potrebbe anche arrestare all’iniziale Nobody’s Fault But Mine e alla giubilante, passionale, melismatica lettura che, di questo classico di Blind Willie Johnson, ci restituisce Carolyn Wonderland per capire che questo disco è, probabilmente, un capolavoro; anzi, il capolavoro di Fabrizio Poggi. Si ascolta questo brano e, giunti alla fine, si ha come la sensazione che la Wonderland ci sbatta in faccia un fiero “that’s it!”. E tu prova ad aggiungere altro se ti riesce! Ciò che viene dopo, stile a parte, si erge trionfante sull’alta vetta delineata già limpidamente da questo episodio iniziale. Stile a parte perché, in questo disco c’è, sì, tanto blues, ma aleggia anche chiaro e ben definito uno spirito sanctified che si rivela, a partire proprio dalla prima traccia e si estende per una buona metà del disco.
Per questo Texas Blues Voices, che è il ventesimo capitolo della sua avventura discografica, Poggi ha chiamato a raccolta un nutrito numero di compartecipanti, selezionato una bella manciata di brani e messo in piedi una band solida e compatta, formata in parte da amici di lunga data come il bassista Donny Price e il chitarrista Joe Forlini, completati dal tastierista Cole El-Saleh, membro della band di Carolyn Wonderland e dal leggendario batterista Dony Wynn. Su questa formazione base, si aggiungono, di volta in volta, i vari ospiti. Oltre alla già citata Wonderland compaiono, nell’ordine: Ruthie Foster, interprete di una gioiosa e corale Walk On di Brownie McGhee, il ruvido, profondo Mike Zito cui è affidato il classico di Muddy Waters Forty Days And Forty Nights, W.C. Clark, 'the godfather of Austin blues', che reinterpreta la sua Rough Edges fino all’ultraottantenne miss Lavelle White e all’amarognola nostalgia della sua Mississippi, My Home e a Bobby Mack, cui è affidato l’ossessivo bozzetto dipinto da Jimmy Huges in Neighbor Neighbor. Concludono il quadro la voce di Mike Cross, impasto di chiesa e polverosi crocicchi, un’angelica Shelley King fino al perfetto compimento offerto da quell’enorme talento che è Guy Forsyth e dalla sua interpretazione acustica del classico spiritual Run On.
E Fabrizio Poggi? Lui, questa volta, si è messo un po’ da parte comparendo solo in qualità di armonicista, prestando dunque il suo strumento alla buona causa della celebrazione di uno Stato che tanto ha dato a lui e alla storia del blues. Anzi, come dice Poggi stesso nell’intervista concessa a Macallè Blues, questo disco vuole essere il gesto di un innamorato nei confronti di questa terra. E lui, tramite materiale di quest’atto d’amore, seppur celato tra le ance delle sue inseparabili armoniche è, invero, soffio vitale, motivo conduttore e autentico traino dell’intero disco. G.R.


DOUG MACLEOD

"Live in Europe"

Under The Radar Rec. (Usa) - 2016

I want you/Bad magic/Ain't the blues evil/The new Panama ltd./Home cookin'/Cold rain/Long time road/Turkey leg woman/Masters plan


Un vero marinaio non prega per il vento buono: impara a navigare! Nella quotidianità, capita di trovarsi in ambasce o anche solo nel bel mezzo di piccoli imprevisti, situazioni sufficientemente spiacevoli da trasformarsi in indesiderati ostacoli posti sulla linea del nostro più o meno tranquillo tran tran. La sera in cui, nel 2006 durante un tour europeo, fu registrato questo live, Doug MacLeod era un marinaio colto, poco prima, da un improvviso vento di Libeccio e si trovava a dover attraversare acque divenute mosse. Quella sera, Doug MacLeod, non stava in buona salute; era febbricitante, indebolito e parzialmente rauco. Affrontò ugualmente il pubblico ma, quando gli proposero di pubblicare le registrazioni fatte in quell’occasione, fu inizialmente e fermamente contrario. E’ allora merito dell’olandese Jan Mittendorp, a quel tempo suo manager europeo se, dopo un secondo ascolto, Doug si convinse della bontà e del valore di quelle registrazioni, tanto da acconsentire alla loro pubblicazione e far sì che oggi ce le possiamo ritrovare in mano in forma ascoltabile.
Che MacLeod, da esperto lupo di mare, sapesse navigare in ogni condizione, lo si poteva immaginare, ma questo Live In Europe, ne è la dimostrazione tangibile. Quella sera, malgrado le difficoltà imposte dalla sua condizione, affrontò il pubblico intervenuto per ascoltarlo; esperienza, volontà e passione raddrizzarono, poi, la rotta tenendo saldo il timone. E dunque, oltre a Jan Mittendorp, dobbiamo ringraziare anche l’etichetta Under The Radar se, per la prima volta su disco, abbiamo la possibilità di ascoltare Doug MacLeod nello stesso modo in cui si può ascoltare ai suoi concerti. Ciò a dire, nella situazione più autentica e, forse, a lui più congeniale: in piena solitudine. Già, perché della sua corposa discografia, se escludiamo l’album inciso in compagnia di John “Juke” Logan, peraltro pubblicato a nome di quest’ultimo, questo è il suo primo disco live.
MacLeod è, da sempre, ottimo autore e sagace raconteur. Qui lo troviamo sul palco di un imprecisato locale a Wapen van Oudeschans, città olandese della quale Doug confessa, nell’introduzione a Bad Magic e con l’abituale ironia, di non saperne neppure pronunciare il nome. I brani scelti sono tratti interamente dal suo repertorio autografo, ad eccezione di una versione del classico di Bukka White Panama Ltd, appartenente alla famiglia dei dilatati talking blues che qui, riveduto e corretto, diventa The New Panama Ltd. Con il solo accompagnamento di Spook, la sua fidata National e il battito del piede, MacLeod ha saputo nuovamente trasformare una semplice esibizione in un happening dove affabulazione, arte chitarristica, racconto e maestria si mescolano lasciando emergere, con feeling ed energia intatti, l’uomo e i suoi blues. G.R.


ANNIKA CHAMBERS

"Wild & free"

Under The Radar Rec. (Usa) - 2016

Raggedy and dirty/City in the sky/Better things to do/Give up myself/Six nights and a day/Put the sugar to bed/Reality/Don't try and stop the rain/Why me/I prefer you/Piece by piece/Love God


Ha, indubbiamente, il cuore che batte per le grandi interpreti blues e soul del passato, Annika Chambers, ma percorre la medesima strada di più note, contemporanee colleghe come Shemekia Copeland, per esempio. E con la medesima grinta, determinazione e fiera consapevolezza che la portano ad essere interprete muscolare, ma non priva di raffinate inflessioni e inattese, quanto profonde, aperture intimiste.
Texana di Houston, allevata, come tante, nella protettiva e nutriente culla del gospel, incontra il blues quasi per caso, dopo aver imbracciato il fucile come militare operativo, sia in Kosovo che in Iraq. Dunque, strano destino il suo: scoperta come cantante durante la permanenza nell’esercito, rientrata in patria, una volta terminate le missioni all’estero, si dedica a tempo pieno alla musica e, nel 2012, partecipa all’International Blues Challenge dove viene notata da Larry Fulcher della Phantom Blues Band, lì presente in qualità di giudice. Con l’aiuto di Fulcher realizzerà un demo sulla base del quale prenderà forma il suo disco d’esordio, Making My Mark. Correva l’anno 2014. Wild & Free rappresenta la sua seconda prova discografica, sempre prodotta da Fulcher che, per l’occasione arruola l’intera Phantom Blues Band al netto dei fiati, aggiungendo al mix, il fine tastierista Mike Finnigan e, come ospite, quello straordinario pianista che è Jon Cleary.
Strumento carnoso e lucente, ben esteso e con improvvise discese in registri più scuri, incarna echi lontani di Aretha Franklin, occasionali pigli felini alla maniera della sua conterranea Trudy Lynn, così come sacre inflessioni alla Mavis Staples. Il retaggio gospel è qui ben chiaro ed evidente nella conclusiva, corale Love God, ma emerge pure tra le pieghe di altri episodi come l’autobiografica Why Me dove le crespe brune del suo canto trovano un contraltare nella risposta ora della chitarra, ora dell’organo e del coro, entrambi di netta derivazione churchy. Nell’intero disco c’è spazio solo per due brani autografi, proprio quest’ultimo Why Me e Reality, ma il repertorio restante, pur fatto di cover, è ben scelto e tale da mettere in ottima luce le prorompenti doti vocali della Chambers. Il primo terzo dell’opera, che si apre, pur egregiamente, con Raggedy And Dirty di Luther Allison concede molto alla facile presa del ritmo, ma il meglio comincia dopo, dalla sensuale e groovy Six Night And A Day e dall’originale ballata Reality, intensa, partecipata e coi numeri per diventare un potenziale hit. I Prefer You volge apertamente lo sguardo verso la vecchia regina Aretha, mentre la delicata, introspettiva Piece By Piece di Katie Melua acquista, qui, una lirica carnalità assente nella più evanescente e crepuscolare versione originale.
Questo è soltanto il suo secondo disco e, anche se pur qualcosa concede al pop, in quanto a timbro, modulazione e capacità di dar voce a un ampio spettro di emozioni, Annika Chambers è già matura quanto basta per tentare il colpaccio. Con la giusta rosa di canzoni, scommettendo anche sulla sua capacità, qui ancora poco esplorata ma già rimarchevole, di autrice. G.R.  


DONALD RAY JOHNSON & GAS BLUES BAND

"Bluesin' around"

Mar Vista Rec. (Usa) - 2016


Bad luck/Bluesifyin'/Ain't superstitious/Ninety proof/She's french/Big rear window/Distant/She's dressing trashy/Watching you/Should've been gone/You're the one for me


I riflessi schiettamente nasali, le ondosità morbide e sabbiose del canto di Donald Ray Johnson e il suo vibrato largo e ben modulato si ritrovano tutti nella felice amalgama risultante dall’incontro con due episodi tratti dal repertorio del texano Philip Walker che qui, viene ripreso ed efficacemente omaggiato in Big Rear Window e, soprattutto, Ninety Proof. In quest’ultima rivivono, in disarmante, efficace contrasto l’iniziale, millantata, vanagloriosa rivalsa verso l’abbandono amoroso (…I just called you baby to tell I’m gonna be alright/since you went away, my future’s looking so bright….) e un epilogo di rassegnata, fragile ammissione di resa di fronte all’evidente sconfitta (…you’ve been replaced baby, I don’t need you no more at all/I’ve got a new love right here beside me and her name is Alchool…). Nella rilettura di questo brano trovano ampia centralità la fantasiosa chitarra di Gaspard “Gas” Ossikian e la tromba di Nicolas Gardel che, qui, sottolinea con un lamento a tratti strozzato e implorante la tormentata, drammatica confessione finale.

La rivisitazione, tanto strumentale quanto cantata, un po’ infiacchita e svogliata, di Bluesifyin’, invece, estratta dal songbook del Joe Louis Walker anni ’90 perde, qui, parte della sua peculiarità: quell’aguzza, sferragliante e intensa slide presente nella versione originale, che sottolineava il compiaciuto, autocelebrativo racconto del testo. Il resto del programma si destreggia agilmente tra le luci di Beale Street dove la chitarra rievoca, spesso e apertamente, il sommo B.B. King o indulge in virate funky, frutto originale della penna di Johnson stesso, Janice Marie Johnson o Nat Dove.
Un tempo batterista per Lowell Fulson, Bobby Womack, Percy Mayfield, Teddy Pendergrass, protagonista, poi, di una parentesi disco con Taste Of Honey, Donald Ray Johnson è oggi solo più corpulento vocalist dalla tonalità lievemente acidula. Texano d’origine e canadese d’adozione, Johnson ha trovato, come molti altri artisti prima di lui, per questa sua quinta prova solista, buon supporto nella vecchia Europa e nella Gas Blues Band, quartetto francese formatosi cinque anni or sono e che in questo breve lasso di tempo ha saputo creare attorno al proprio nome, una solida reputazione. Per l’occasione, il quartetto base è, qui, sapientemente arricchito da una giusta, opportuna dose di fiati. G.R.


MIKE SPONZA

with Ian Siegal feat. Dana Gillespie

"Ergo sum"

Epops Music Rec. (USA) - 2016

Modus in rebus/Carpe diem/Penelope/The thin line/See how the man/Poor boy/Kiss me/Prisoner of jealousy

Nel corso degli anni, il blues italiano ci ha occasionalmente offerto qualche più o meno riuscito “esperimento”. Tra tutti, e a puro titolo di esempio, mi piace ricordare il blues cantato in italiano, prima con Fabio Treves, poi con Rudy Rotta, giusto per citarne un paio, e senza entrare nel merito. Col suo ultimo Ergo Sum, disco ben lontano dal poter essere trattato alla stregua di un semplice esperimento, Mike Sponza si spinge anche oltre, partendo – sorpresa...sorpresa! - addirittura dai classici latini, come già il titolo manifestamente dichiara. Per quale motivo scomodare sì tanta cultura e tradizione consolidate, ce lo spiega direttamente Sponza nelle note di copertina, con una formula precisa e azzeccata: human passions have no age! Davvero valori, principi, paure e sentimenti non hanno barriere spazio-temporali tanto da scoprire che c’è un sottile filo conduttore che unisce le liriche riflessioni e gli argomenti presenti in Catullo, Orazio, Marziale con quelli che ritroviamo nei blues di Muddy Water, Willie Dixon o Lightnin’ Hopkins? La risposta che qui dà Sponza è un sonoro sì! Cambiano lingua, metrica e forma, ma ciò che è universale, resta. Non sono certo aspetti secondari, questi tre, tanto da aver innegabilmente imposto un intenso e anche faticoso lavoro di cesello sui testi, nonché la scelta del giusto mood per ogni singolo brano; ma la sfida è stata pienamente raccolta è altrettanto pienamente vinta.
L’ascolto di questo disco, infatti, restituisce un immediato, raro senso di riuscita completezza. Tutto, qui, fila liscio come l’olio: testi, arrangiamenti, interpretazione, suono. Dall’accurata scelta e riscrittura dei primi, opera di Sponza stesso, all’attenzione meticolosa prestata ai secondi. Dall’interpretazione, talvolta affidata a due artisti inglesi, poco noti ma di assoluto spessore, come Ian Siegal e Dana Gillespie, al suono finale delle registrazioni, effettuate a Londra nei leggendari Abbey Road Studios, gli stessi di Beatles, Pink Floyd, Deep Purple, Police e di molti altri ancora. In questo Ergo Sum, non solo le passioni umane rivivono, ma davvero anche tutta la grazia, l’arguzia e la concreta filosofia dei bluesmen. Così, dalla lenta Penelope allo splendido funky di See How The Man, al più tradizionale shuffle di Poor Boy fino all’invitante Kiss Me, Sponza condivide le parti cantate con la voce ghiaiosa di Ian Siegal che impreziosisce alcuni brani anche con parsimoniosi, ma incisivi interventi di slide guitar. A narrarci, poi, della sottile linea che separa odio e amore, agonia ed estasi – Catullo docet – è la maestosa Dana Gillespie che, sconfinando trionfante verso più soffuse, raffinate atmosfere jazzistiche e su un flessuoso tappeto di fiati, illumina The Thin Line, l’unico brano a lei affidato, forse anche il più affascinante del disco, con un’interpretazione dall’insinuante, seducente sensualità. Ancora da Catullo e con un occhio rivolto a Memphis e l’altro alla Stax, conclude l’opera la ballata soul Prisoner Of Jelousy.
Ad ascolto concluso, ci è chiaro che Sponza ha visto giusto e che Ergo Sum va annoverato tra i migliori e più singolari dischi tra quelli concepiti da chi vede il blues osservandolo da questa parte dell’oceano. G.R.


HARPER AND MIDWEST KIND

"Show your love"

Blueharp Rec. (Usa) - 2016

Hell yeah/What's goin' down/Show your love/Drive brother, drive/I can't stand this/It's all in the game/It's time to go/We are in control/Let's move/Hey what you say/I look at life


Peter D. Harper, in arte, semplicemente Harper (nomen omen, considerato il suo essere anche armonicista) è una sintesi vivente di interessanti mescolanze, geografiche e musicali. Nasce inglese, cresce in Australia e, attualmente, vive negli States. Non in un posto qualsiasi, ma proprio in quel cosiddetto Midwest celebrato, direi non a caso, nel nome del gruppo. Per essere ancora più precisi, vive nel Michigan stato che, ci racconta la letteratura in materia, ricaverebbe il proprio nome dall'omonimo lago, che, a sua volta, parrebbe derivare il proprio nome dalla parola “meicigama” che, tratta dall'antica lingua degli Ojibway, nativi americani, starebbe a significare “grande acqua”. Perché questa iniziale digressione? Perché Harper ha qualcosa che lo accomuna proprio con le popolazioni native, indigene: vuoi nell'aspetto esteriore, un po’ selvaggio, vuoi per un certo approccio mistico alla vita che trova, poi, puntuale riscontro nei testi, vuoi per l'originale idea di introdurre nella sua musica alcune percussioni etniche e, ancorché in modica, misurata quantità, l'uso del didgeridoo, antico strumento derivante, appunto, dagli indigeni australiani. Per gli amanti delle etichette, dunque, potremmo riassumere la mescola musicale di Harper & the Midwest Kind, fondamentalmente come roots rock con intrecci di blues, funk, soul e world music.
Copertina e titolo già evidenziano l'approccio, per così dire, “spirituale” e l'invito alla fratellanza insito in molti dei brani qui inclusi, tutti firmati da Harper stesso. Alcune delle cose proposte in questo disco rievocano lievemente l’immagine del miglior John Popper e dei suoi Blues Travellers. Del resto Harper, come Popper, nasce armonicista e dell'armonica è pure un virtuoso interprete. La prima, concisa, elettrificata dimostrazione la offre in What's Going Down per poi proseguire, con un saggio di armonica acustica, nell'acustica, appunto, Drive Brother Drive. Harper è anche un buon, sebbene non fenomenale, cantante e, da questo punto di vista offre le sue più robuste, profonde, interpretazioni vocali nella lenta I Can't Stand, originale blues minore per band, voce e armonica o nell'ipnotica, primordiale It's All In The Game, tutta groove e didgeridoo. Conclude, questo interessante disco, sesto episodio della discografia harperiana, I Look At Life, ballata dal sapore esistenziale, lucido sguardo di un vecchio saggio sulla vita e i suoi ondosi andazzi. G.R.


ISAIAH B. BRUNT

"A moment in time"

I Brunt Rec. (Usa) - 2016

Still waiting/Singing the blues/That place on the road/Lost jacket blues/May I dance with you/Travel back in time/Party late at night/Same old road/A moment in time


Il suono e la tradizione di New Orleans riappaiono qui, rivisti attraverso un’originale lettura di Isaiah B. Brunt. Natali neo zelandesi, cresciuto in Australia, Brunt vanta un ventaglio di esperienze musicali davvero variopinte, almeno quanto le sue origini geografiche: ha lavorato con Randy Jackson, Keanu Reeves (sì, proprio lui…l’attore e anche musicista!!) e – udite…udite… - Julio Iglesias! Ma fondamentalmente ha un cuore che batte a ritmo di blues su e giù per Bourbon Street, come evidente dalle sue incisioni e dalla recente partecipazione all’International Blues Challenge. Chitarrista anche in versione lap-steel, cantante e autore, per A Moment In Time ha chiamato a raccolta alcuni tra i migliori musicisti della Crescent City: il leggendario bassista George Porter, il batterista Doug Belote che ricordiamo già in forze con un altro originale artista concittadino, Mem Shannon, e Mike Lemmler, piano e Hammond. Come ogni buon disco neorleansiano, completa il quadro di base una robusta sezione fiati guidata e arrangiata da quel Jeffrey T. Watkins, già direttore musicale della band di James Brown. Chiaro ora come Brunt, malgrado le origini, abbia trovato terra ferma e accoglienza nella fascinosa Big Easy. In questo A Moment In Time coabitano affiancati, con curioso contrasto cromatico, la tipica vivacità del sound di New Orleans con la pacata, pigra andatura della voce di Brunt. Il suo canto calmo, dal timbro rasserenante, fraterno ci accompagna lungo nove brani originali che, partendo dall’iniziale e schiettamente neorleansiana e un po’ alla Fats Domino Still Waiting, attraverso l’ironica Lost Jacket Blues e lo shuffle di Party Late All Night molto concedono alle atmosfere più gioiose, da ‘street parade’ tipiche della città, mentre gli aspetti più tenebrosi e magici emergono, evocati dalle note sinistre dell’armonica di Smoky Greenwell, tra le pieghe di That Place On The Road. Ci sono poi alcuni episodi più intimisti come la fantasiosa, visionaria Travel Back In Time che, coerente col titolo, grazie al sapiente impiego dello splendido clarinetto di James Evans e del sousaphone di Tuba Steve, omaggia musicalmente la New Orleans di inizio ‘900 e, ancora, la conclusiva A Moment In Time, riflessiva ballata magistralmente immalinconita dal flicorno di Ian E. Smith, dal mellotron di David Stocker e dalla splendida voce di Sarah E. Burke. G.R.  


LITTLE MIKE

"How long"

Elrob Rec. (Usa) - 2016


Cotton mouth/How long/Smokin'/When my baby left/Slam hammer/Whatcha gonna do?/Sam's blues/Bad boy/Not what mama planned/Tryna' to find my baby/Sittin' here baby

Si annusa uno schietto, diffuso odore di tradizione, misto a qualche lieve, timida virata stilistica verso i territori del jazz e del rock, in quest'ultimo lavoro di Little Mike; al secolo, Mike Markowitz da Queens, New York. Questo nuovo album solista, lontano dai suoi Tornadoes, è il riflesso perfetto di quanto Little Mike ama suonare di più: il blues elettrico della Chicago postbellica, principalmente, con quello stile genuino, da classe operaia, da blue-collar worker con addosso la tuta da lavoro, puntualmente benedetta dalla santa macchia d’un vino onesto e sincero.
La indossa da una vita quella tuta, da quando si è trovato impegnato ad accompagnare, con la sua band, grandi artisti del passato come Big Mama Thornton, Jimmy Rogers, Hubert Sumlin. Little Mike, lo sappiamo, è valente armonicista e cantante, ma qui lo ritroviamo anche impegnato nella veste, forse meno nota ai più, di ottimo pianista dallo stile tradizionale, evocante i grandi luminari dello strumento: Otis Spann, Pinetop Perkins e Henry Grey. Quest’ultimo How Long? si muove, con equilibrio, tra cover e brani originali. Tra le prime, spiccano sicuramente il J.B. Lenoir di quel How Long? che dà titolo all’album e, soprattutto, il tributo a Eddie “Playboy” Taylor con la rilettura della sua celebre Bad Boy. Tra le seconde, l’implicito, strumentale omaggio a James Cotton con l’iniziale Cotton Mouth, l’up-tempo di Smokin’, ironico elenco dei danni da fumo e confessione della propria incapacità di smettere col vizio e quella Tryna’ Find My Baby che, vista  da vicino, ricorda When I Lost My Baby di Ivory Joe Hunter. Ma ben più che gli episodi tradizionali, con riferimento alle virate stilistiche citate inizialmente, ci colpiscono la rockeggiante Whatcha’ Gonna Do? e l’originale Not What Mama Planned, universale, agrodolce riflessione sui progetti di mammà, puntualmente disattesi; si accenna, poi, a incursioni nei territori del jazz con la celeberrima Smokin’ di Bobby Timmons. Conclude l’album l’intimista, crepuscolare Sittin’ Here Baby, sommesso lamento sussurrato su un lieve tappeto di basso, chitarra e spazzole. E, lungo il disco, fa piacere ascoltare, qua e la, l’incisiva, tagliente chitarra di John Edelmann. G.R.


JOHN "BLUES" BOYD

"The real deal"

Little Village Foundation Rec. (USA) - 2016

I am the real deal/You will discover/I'm like a stranger to you/That's big!/The smoking pig/That certain day/Dona Mae/I'm so weak right now/When your eyes met mine/Screaming in the night/(Have you ever been to) Marvin Gardens/Be careful with your love/John, the blues is calling you

...if you're in the mood for something lowdown / you want some blues you can really feel / you don't have to look no further people / because I am the real deal...”.
Questa citazione ricavata dal ritornello dell'omonimo brano di apertura, uscito, come un paio d'altri qui contenuti, dall'arguta penna di Rick Estrin, insiste sul concetto autocelebrativo - e ricorrente nel blues - di real deal, concetto ampiamente rappresentativo, peraltro, di ciò che attende l'ascoltatore nel prosieguo della playlist. Qui, l'incedere lievemente drammatico, reso ancor più minaccioso dal tono minore e da un “basso ostinato” di pianoforte, contrasta deliziosamente con l'altrettanto lieve, compiaciuta ironia del testo.
Registrato dall'iperattivo e talentuoso Chris “The Kid” Andersen nei suoi sempre ben frequentati e affollati studios californiani, The Real Deal rappresenta l'opera prima di questo sconosciuto cantante, la cui scoperta merita, certo, qualche breve nota biografica. Originario del Mississippi, cugino del ben più noto pianista Eddie Boyd (quello della celebre Five Long Years per intenderci), come da cliché anche lui, prima, raccoglitore di cotone e, anche lui, poi emigrato al nord, in California, dove lavorerà come muratore. Da sempre cantante per diletto, diventa professionista solo nel 2014, da vedovo, pensionato e all'età di sessantanove anni. Sotto la tutela artistica di quel Jim Pugh, ex storico tastierista di Robert Cray, e della sua benemerita Little Village Foundation, incide questo favoloso dischetto che lo rivela prolifico autore (al netto dei tre ascrivibili al già citato Estrin, i restanti brani presenti sono opera sua) oltre che cantante.
Strumento pastoso, dal timbro paterno e colloquiale, dalle solo occasionali venature feline, a metà strada tra crooner e shouter, ben si crogiola tra gli arrangiamenti ampi e il suono imponente sprigionati da una band che, in più occasioni, somiglia a un vecchio “gregge” scappato dalla Kansas City dei tempi d'oro di Big Joe Turner e Pete Johnson. Lo spettro di Junior Parker aleggia beato tra le note di You Will Discover mentre quello di T-Bone Walker appare, in forma di shuffle, sullo sfondo di That Certain Day. C'è spazio anche per l'Albert King del periodo Stax, ben oltre le pieghe di I'm So Weak Right Now e di quell'altro King, B.B., nella danzante, romantica When Your Eyes Met Mine che ben contrasta col tono minore del successivo, tormentato slow Screaming In The Night, racconto di un ricorrente incubo premonitore. Torna T-Bone Walker e incontra Sonny Boy Williamson II in Marvin Gardens; poi l'opera si chiude proprio come si era aperta, sui toni autocelebrativi di John, The Blues Is Calling You, metafora del bluesman come incarnazione di una volontà e un richiamo superiori, il Blues appunto.
John “Blues” Boyd non ci rivela nulla di nuovo, ma ci offre qualcosa di gioiosamente bello e sorprendente. Gli ingredienti del piatto sono assai semplici e noti, ma i cuochi all'opera così di livello (ai già citati Rick Estrin, Jim Pugh e Chris “The Kid” Andersen aggiungiamo pure Big Jon Atkinson, Terry Hank, June Core per dirne alcuni) e la preparazione, la cottura e la presentazione così accurate da dimostrare quanto un semplice menù da trattoria possa diventar degno di un ristorante stellato. G.R.


JANIVA MAGNESS

"Love wins again"

Blue Elan Rec. (Usa) - 2016

Love wins again/Real slow/When you hold me/Say you will/Doorway/Moth to a flame/Your house is burnin'/Just another lesson/Rain down/Long as I can see the light/Who will come for me


Molto di ciò che oggi viene passato per soul o pseudo tale, di fatto, è spesso un ibrido che lambisce ben più facilmente i terreni del pop, più o meno radiofonico, che altro.
Ad un ascolto superficiale e frettoloso, alcuni dei brani presenti in questo disco potrebbero subire la sorte di finir confinati proprio in questa implicitamente screditata categoria. E ad un ascolto superficiale, non mi sentirei di biasimare tanto chi, eventualmente, li collocasse in questo limbo. Tuttavia, ciò che davvero Janiva Magness opera con Love Wins Again è una piccola, grande rivoluzione: discografica, personale, stilistica.
L'etichetta che lo pubblica non è più la colossale Alligator dei più recenti, ottimi, dischi che l'hanno definitivamente consacrata tra le voci migliori e tra le migliori interpreti del panorama contemporaneo e che, allo stesso tempo, la mantenevano ancorata a generi un po' più definiti e maggiormente affini a una certa tradizione, ma la giovane, vivace Blue Elan che ospita, nel suo catalogo, artisti di natura varia ed eventuale. C'è, poi, l'aspetto personale che, come già e ben più che in passato, ha influito su atmosfere e tematiche qui proposte. La Magness riemerge dalle acque tumultuose di pesanti vicende personali e affettive; questo disco, in tal senso, ripercorre il sentiero profondo già tracciato col precedente Original, che l'ha vista tagliare di netto il cordone ombelicale che la legava al prevalente ruolo di interprete, nascendo a nuova vita come autrice – dunque, interprete di sé stessa - di grande spessore, anche col sostegno efficace e ricorrente del produttore Dave Darling, ancora una volta presente. La rivoluzione stilistica, da ultimo, è un po' la naturale conseguenza di tutto ciò.
Dotata di uno strumento vocale non particolarmente esteso, ma estremamente espressivo e profondo, Janiva Magness gioca, in questo disco, in parte sul groove e in parte sulla riflessiva, intima introspezione. Sull'immagine di copertina, i guantoni da boxe sono significativamente e, forse, non a caso messi alle spalle quasi a simboleggiare la fine della lotta contro le avversità, pur lasciando aleggiare il dubbio che, invece, siano proprio lì nella posizione di chi, combattente, se li porta comunque sempre appresso. Sul viso è accennata la serenità di un sorriso: titolo e copertina rimandano a un ritrovato ottimismo. Così, invero, una parte del disco, a cominciare dalla facile title track. Si gioca più sul groove con la sinuosa, sensuale Real Slow, con Your House Is Burnin' dove, soprattutto grazie ai fiati, appare chiara l'aura di James Brown e con Moth To A Flame, unica occasione nella quale, grazie alla chitarra, si intravede un po' di blues. Ma è sui tempi lenti e riflessivi che la Magness cala tutti i suoi assi: da When You Hold Me, al moderno gospel di Say You Will, attraverso l'acustica, delicata Doorway e Rain Down, fino al magistrale racconto di una crisi in Just Another Lesson e alla conclusiva, solenne Who Will Come For Me. E lungo il tragitto c'è spazio anche per una eccellente incursione nel songbook di John Fogerty con la cover di Long As I Can See The Light.   
La Magness dice: “La voce è ciò che ci permette di comunicare ben oltre le limitazioni dell'emisfero sinistro; è lo strumento primario, principale e anche ben più di questo. La voce ha il potere di armonizzare le varie parti di noi stessi: il cervello, il cuore, lo spirito e l'anima. Ecco perchè la capacità di cantare è un dono.”. Vero che blues e soul, accademicamente intesi, di questo disco sono, sì, soltanto lontani parenti; ma le doti interpretative e cantautorali della Magness hanno qui raggiunto una piena, compiuta fioritura. Il dono, fa tutto il resto. G.R.


BIG JON ATKINSON & BOB CORRITORE

"House party at Big Jon's"

Delta Groove Rec. (Usa) - 2016

Goin' back to Tennessee/Here comes my baby/It wasn't easy/She's my crazy little baby/At the meeting/Mojo hand/Mojo in my bread/Mad about it/Empty bedroom/I'm gonna miss you like the devil/You want me to trust you/Mississippi plow/El centro/I'm a king bee/Somebody done changed the lock on my door/My feelings won't be hurt


Una schietta, fiera aria da juke joint permea l'intero disco del giovane e gigante Big Jon Atkinson. Giovane ma ferratissimo in materia, rievoca, del blues, gli antichi fasti, supportato da un piccolo combo nel quale spicca la presenza dell'armonicista Bob Corritore, cointestatario del disco e ciliegina su ogni torta dal gusto tradizionale di recente produzione.
Partiamo dal titolo che già spiega qualcosa. Questo disco si chiama come si chiama perchè a casa sua, Big Jon che, di mestiere, restaura e commercializza strumenti e amplificatori antichi, c'è uno studio di registrazione casalingo da lui allestito, nel quale, di tanto in tanto, si consumano jam sessions o, appunto, house parties proprio come quella che ha dato luce alle tracce incise qui. Atkinson, malgrado la ben giovane età (meno di trent'anni), è un appassionato del blues vecchia maniera che, con impressionante competenza, data sempre l'età, ben interpreta con la sua chitarra. Da qui e dagli strumenti utilizzati, deriva il suono vintage che permea in profondità l'intero disco. Altro aspetto sorprendente è l'età media dei musicisti coinvolti, età che Atkinson abbassa drasticamente entrando in partita a piedi giunti, ma che, al netto della sua presenza, si assesta inesorabilmente sui settant'anni. Molti, infatti sono gli ospiti presenti, due dei quali, Willie Buck e Tomcat Courtney ultra ottantenni. Completano la squadra Alabama Mike e Dave Riley.
Come detto, il suono è saturo e vintage; parliamo di atmosfere che richiamano la Chicago anni '40 e '50 e i relativi Muddy Waters, Sonny Boy Williamson II, Little Walter e – toh – ci metto pure “Booba” Barnes da Longwood, Mississippi. Insomma, c'è spazio per tutti quei grandi e meno grandi che rivivono sorridenti nel cuore e nel sound ricreato in questo allegro house party. La band di base si incentra sulla formazione a doppia chitarra, armonica, basso e batteria; attorno a questa e a Big Jon Atkinson, cantante oltre che chitarrista, si alternano, prevalentemente alla voce, tutti i già citati ospiti. La playlist è lunga e comprende tanto brani originali quanto vecchie, oscure cover (ad accezione delle note Mojo Hand di Lightinin' Hopkins e King Bee di Slim Harpo).
Questo disco che, per la medesima etichetta, fa il paio con la pure recente uscita di John Long, rappresenta un piccolo cambio di rotta per la Delta Groove che, in un mondo con troppi dischi costruiti in laboratorio, esce con una serie di proposte controcorrente, inequivocabilmente intitolata “Uncompromising blues, no apologize”, col compito di riproporre all'ascoltatore il blues suonato alla maniera di quando ce ne siamo probabilmente innamorati. Dunque, vecchio sound pienamente riesumato dove gli amanti del blues di “vecchia scuola” troveranno certo di che bearsi felici. G.R.  


GREGG MARTINEZ

"Soul of the bayou"

Louisiana Red Hot Rec. (Usa) - 2016


Who's loving you/I can't stand the rain/Remember you used to love me/I wish I'd never loved you at all/That old wind/Kiss tomorrow goodbye/If you want me to stay/If I had any pride left at all/Mac daddy/You've got to hurt before you heal

Con Soul Of The Bayou, Gregg Martinez realizza probabilmente il suo disco più compiuto e focalizzato. Prossimo degno candidato a essere inserito nel novero di tutte quelle voci maschili poste comodamente sull'intersezione tra soul e R&B, mostra qui tutta la sua versatilità di cantante e interprete. Tenore sinuoso e lucente, dall'ampio vibrato e dal melisma audace ed elegante, sa dare la giusta compattezza espressiva a una raccolta di brani che spaziano tra ballate e più facili, ritmati riempipista.
Per gli amanti delle definizioni Martinez è ritenuto essere esponente di ciò che viene chiamato Louisiana swamp pop, genere indigeno che trova dimora tra Louisiana e Texas, tra il New Orleans Rhythm & Blues, il country e le influenze francesi. In quest'ultimo disco, affronta un repertorio che si muove tra ben scelte cover e brani originali. Tra le prime, cominciamo subito con la celeberrima I Can't Stand The Rain, resa veracemente swampy dall'incisiva introduzione di chitarra slide per poi svaporare, grazie ai fiati, tra i ricordi di casa Stax più che a quelli della Hi, originaria casa discografica del brano interpretato, ai tempi, dalla voce di Ann Peebles. Per restare in ambito di cover danzerecce, troviamo la funkeggiante If You Want Me To Stay di Sly Stone, la divertente Mac Daddy o il doo-wop vecchio stile di Who's Loving You dove la voce di Martinez si spinge, con equilibrio e mestiere, fin sugli impervi sentieri del falsetto. Ma è quando il ritmo rallenta che il maturo, empatico crooning di Gregg Martinez trova la propria dimensione più convincente e autentica. E allora, I Wish I'd Never Loved You At All, originariamente incisa dal neorleansiano Johnny Adams, If I Had Any Pride Left At All e You've Got To Hurt Before You Heal vengono restituite tutte quante con empatia da una voce che possiede la rara capacità di far credere all'ascoltatore di essere lui stesso il protagonista della storia di volta in volta cantata. A impreziosire ulteriormente il disco, c'è spazio anche per il gigante della chitarra Sonny Landreth ospite nella più rockeggiante That Old Wind. G.R.


JOHNNY RAWLS

"Tiger in a cage"

Catfood Rec. (Usa) - 2016


Tiger in a cage/Born to the blues/Red Cadillac/Every woman needs a working man/Recless heart/Keep it loose/Having a party/Your love is lifting me (higher and higher)/Southern honey/Lucy/Beast of burden/I would be nothing

Forse è il caso di riassumere la storia di Johnny Rawls perché malgrado negli ultimi quindici anni almeno, la sua attività discografica sia stata particolarmente prolifica, il signor Rawls gode di un interessante passato che può, almeno in parte, spiegarci meglio il presente. Mississippiano di origine, dopo aver suonato con Joe Tex e Z.Z. Hill, a metà degli anni ‘70 diventa chitarrista e direttore musicale della band di O.V. Wright. Morto Wright, passa, con inalterata mansione, alla band di Little Johnny Taylor fino alla metà degli anni ’80 quando incide per l’etichetta Rooster, in duo col chitarrista e cantante L.C. Luckett, Can’t Sleep At Night, ottimo ma unico esemplare di moderno blues & soul edito da questa coppia, che scoppierà immediatamente dopo. Da lì e dal quel primo Here We Go inciso per l’inglese JSP, Johnny Rawls inizierà la sua carriera solista che, discograficamente parlando, negli ultimi vent’anni non ha conosciuto battute d’arresto.
Il suo più recente approdo discografico, risalente ormai al 2009, è stato quello con la Catfood Records, etichetta per la quale, anche il presente Tiger In A Cage è stato edito. Malgrado Rawls ricopra da sempre il ruolo di chitarrista, cantante, autore e arrangiatore, in quest’ultimo lavoro punta tutta la posta su quello di cantante, lasciando l’intero onere della chitarra a Johnny McGhee, già chitarrista dei Togetherness & Devotion. Rappresentante della più schietta tradizione soul blues, da lui rivisitata in chiave moderna, sebbene lontano dalle profondità interpretative dei più noti esponenti del genere, Rawls è comunque cantante dalla vocalità genuina ed efficace. Tenore lineare dai rauchi riflessi castani interpreta a tutto tondo un repertorio che propone prevalentemente brani originali, integrati con cover magistralmente scelte. Tra quest’ultime spiccano una gioiosa Having A Party di Sam Cooke e Your Love Is Lifting Me Higher. Tra le prime, invece, mi piace citare la title track Tiger In A Cage, pezzo dai risvolti sociali scritto dal bassista Bob Trenchard e, sempre frutto della stessa penna, la deliziosa Southern Honey, ballata dal sapore cajun in salsa della Louisiana, interpretata a due voci da Rawls e dall’ottima pianista Eden Brent, qui presente solo in veste di pur brillante cantante. Completano il programma la riproposizione di alcuni pezzi ripresi da precedenti dischi di Rawls come Red Cadillac o la conclusiva I Would Be Nothing. Come buona parte dei dischi pubblicati dalla Catfood Records, anche questa è un’opera che va letta in chiave corale. Fondamentale, nella resa finale, è infatti il lavoro dei The Rays, la house band e, non da ultimo, quello di un produttore di gran gusto ed esperienza come Jim Gaines. G.R.


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