2020 - Macallè Blues

Macallé Blues
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2020

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Shortcuts: i cd in breve...2020


Shortcuts: i cd in breve...: in questa sezione del sito, troverete le recensioni delle novità discografiche, ma in versione compressa!

GRÁINNE DUFFY

"Voodoo blues"

Autoprodotto (IRL) - 2020

Voodoo blues/Mercy/Blue skies/Shine it on me/Don't you cry for me/Roll it/Wreck it up/No matter what I do/Tick-tock/Hard rain
          
 
  
Conterranea del leggendario Rory Gallagher, la chitarrista, cantante e autrice Gráinne Duffy, ancorché giovane assai, gode già di uno status singolare nella nativa Irlanda. Per usare una analogia tutta americana, chi non avesse famigliarità con la Duffy, potrebbe pensare a lei come al fortunato incontro tra l’elegante vigore, genuinamente blues, di Bonnie Raitt e la rude schiettezza rockettara di Joe Walsh.
Se brani come Blue Skies e Shine It On Me segnano un convincente ritorno a un ben bilanciato crossover blues-roots-soul-rock dal sicuro appeal radiofonico e il basso in Roll It respira funk a pieni polmoni, Don’t You Cry For Me somiglia alla ballata rock dai lontani echi di un’era passata - quella dei primi ‘70! - e intrisa di soul, che avrebbe risuonato alla perfezione sull’ugola abrasa di Janis Joplin. E ben risuona ugualmente su quella di Gráinne Duffy che, ancorché più ingentilita, non manca in alcun modo di timbro, volume e pathos.
Al netto degli episodi di più facile, ma mai scontata presa, il disco sa tramutarsi in insidiosa sabbia mobile quando si tratta di risucchiare irrimediabilmente l’ascoltatore verso le radici più terragne e blues del cocktail stilistico che rappresenta: Voodoo Blues, Mercy, Hard Rain, apertura e chiusura del disco, come avvolgenti parentesi, ne sono l’esempio più chiaro. G.R.

FRED HOSTETLER

"Fred's blue chair blues"

Mukthiland Rec. (USA) - 2020

Bright lights, big city/Hey corporate vandals/Deep deep well/Taming the wolf/What's ahead and what's behind/Rain on my window pane/I'm a new man/There I go again/Salt tears          
 
 

Fred Hostetler è una perla rara tra le umane genti. Senza troppo clamore, ha attraversato l’epoca d’oro del blues, del folk e del rock. Ha lavorato con Jeff Beck, Graham Parker, Johnny Winter, Aerosmith. Per anni è stato chitarra ritmica dei Blue By Nature, popolare band californiana. Ha frequentato, con naturalezza, gli amplificatori e scelto i Watt come unità di misura. Ma, giunto a un certo punto della propria vita, ha optato per la ricerca e il ritiro. Diciassette anni di esilio volontario in India, l’hanno spinto al centro di se stesso. Al ritorno, il risultato materializzato in termini musicali, ha assunto una forma intimista, oggi assai ben rappresentata da questo Fred’s Blue Chair Blues. Non soltanto si tratta di un disco totalmente unplugged, ma di un lavoro che, seguendo perfettamente i dettami e le restrizioni sociali legate all’epoca Covid, è stato registrato, oltre che in perfetta solitudine, nel centro esatto del salotto di casa. Conseguenza di ciò, il risultato è tanto approssimativo, spoglio e viziato nella forma quanto autentico, immediato e genuino nel contenuto. Al modo dei vecchi bluesmen campagnoli che suonavano, la sera, sotto il portico, nel fienile o sul patio, Hostetler ci invita, paradossalmente a entrare dentro per accompagnarci fuori, e da seduti, in un viaggio verso il Delta. E anche se la voce, talvolta fatica a superare le pur minime distanze che la separano della capsula del microfono, la destinazione è presto e bene raggiunta. G.R.

THE McKEE BROTHERS

"A time like this"

Autoprodotto (USA) - 2020

How can I miss you baby?/Whistleblower blues/It is what it is/A time like this/Realize/The legend of Luther Stringfellow/Don't cha let it go to your head/Bluer than you/Miracle/A scene from sunday/Back to love/Think it over/Putt putt hustler/Dawg/The rain/Surreal love

          
 
L’estrema mescolanza di generi (musicali!) è ormai consolidata abitudine nell’ambito dell’odierna discografia, ivi compresa quella indipendente. E nessuno, più dei fratelli McKee, ne frequenta, con assiduità e convinzione - oltre che con evidente mestiere! - gli intimi anfratti.
Qui, però, non ci troviamo immersi in quel meticciato stilistico che, quando ben compiuto, affascina e rapisce; quanto piuttosto, in un caleidoscopio iridescente, in una cornucopia tracimante dove ogni cristallo del primo, come ogni elemento della seconda, rappresenta una distinta entità a sé, singola parte di un tutto assai eterogeneo.
Come per i due precedenti dischi, anche per A Time Like This il parterre di musicisti coinvolti è assai nutrito e variegato e spazia dal trombettista Lee Thornburg (Tower Of Power), al sassofonista Doug Webb (Stanley Clarke e Freddie Hubbard), al bassista Bobby Watson (Billy Preston, Michael Jackson), a Maxayn Lewis (Ike & Tina Turner) alla quale si affidano i cori; e, per un paio di brani, ritorna anche il chitarrista blues Larry McCray, già ospite nelle due precedenti uscite.
Nel bel mezzo di quella selva fatta di funk, soul, jazz, New Orleans, pop, rock, gospel e solo un pizzico di blues e ritmi latini, l’identità musicale di questo disco, sta nel non averne una. La qualità di musicisti, arrangiamenti (curatissimi!) e testi, principalmente affidati alla buona penna di Bobby West, trasformano però A Time Like This, in un piacevole ascolto. G.R.

JON STRAHL BAND

"Heartache and toil"

Autoprodotto (USA) - 2020

Hey hey, all right/How long/Heartache and toil/The right thing/Lose my mind/Can't look back/The weight I feel/Leave me alone/The only ones/Day after day/So real/Indiana moonshine
 

          
Formatasi nel 2011 in una delle città (Indianapolis) in cui la tradizione del blues non è mai stata così preminente, la giovane Jon Strahl Band conosce tanto questo genere quanto quelli a esso più prossimi e li interpreta con passione e anima veraci. Questo album che, non a caso, incorpora blues, rock and roll, garage, soul e fonde tutto assieme in una capiente terrina, disinvoltamente vita a una mescola, spesso elettrizzante, di melodie e ritmi vivi ed energici, serviti con sicuro mestiere.
La corposa formazione, i cui pilastri sono tanto la chitarra e la voce finemente ghiaiosa di Jon Strahl stesso (sugli scudi tra le note Day After Day) quanto un fiero e ben arrangiato tris di fiati, cala sul tavolo dodici canzoni originali. Tra queste, risaltano, per maggior spessore, The Right Thing coi suoi richiami neppure troppo velati ai vecchi Little Feat, Lose My Mind con un sempre contagioso, ancorché modificato, beat neorleansiano e Leave Me Alone che, nel suo mix di funk e Muscle Shoals vibra alle frequenze di Booker T e dei suoi MG’s. G.R.

KEVIN BURT

"Stone crazy"

Gulf Coast Rec. (USA) - 2020

I ain't got no problem with it/Purdy lil thang/Rain keeps coming down/Stone crazy/I'm busting out/Same old thing/You get what you see/Something special about you/Should have never left me alone/Better off dead
 

 
Voce di tutto interesse quella di Kevin Burt, ruspante creatura del Midwest, incarnatasi nei ruoli di chitarrista, armonicista inventivo e autore che, nell’ulteriore veste di suadente cantante, sfrutta il proprio peculiare colore di voce, mostrando tutta la straordinaria somiglianza cromatica di quest’ultimo con quello, ben più noto, di Bill Withers, al quale lo accomunano, oltre al timbro, le tonde, rilassate tonalità. Dunque, non è forse un caso se, tra le dieci canzoni inedite presenti qui, fa capolino, in chiusura, l’unica cover concessa, quel Better Off Dead, a firma proprio dello stesso Withers, restituita in una veste sinuosamente funk.
Prodotto da Mike Zito e registrato ai Marz Studios di Nederland (Texas), Stone Crazy è un album genuino e soulful che molto offre all’ascolto, nel suo vagare ondivago tra il blues più schietto e i suoi principali sottogeneri, ivi inclusi un paio di godibili sconfinamenti nel pop; sconfinamenti dove, più che altrove, affiorano, col canto, altri sentori, questa volta di Aaron Neville.
A dispetto dell’apparente semplicità, il disco richiede, forse, più di un ascolto per poterne apprezzare ogni singola stratificazione di suono dietro le, spesso semplici, melodie che, chitarristicamente parlando, in più di un’occasione, rimandano a certe liquide morbidezze che furono di B.B. King. G.R.

REVEREND JOHN WILKINS

"Trouble"

Goner Rec. (USA) - 2020

Trouble/Down home church/You can't hurry God/Grandma's hands/Wade in the water/Walk with me/God is able/Darkest hour/Found love/I've got something/Storm and rain
 

 
Quasi fosse un novello Pops Staples a capo del suo famigliare clan di figlie femmine (Tangela, Joyce e Tawana), John Wilkins figlio di quell’altro Wilkins, il reverendo Robert, prosegue la tradizione tracciata dall’asse ereditario che lo vorrebbe interprete musicale, a un tempo profano e sacro, temporale e spirituale.
Così come Wilkins padre, reso provvidenzialmente leggendario dalla riscoperta, a opera dei Rolling Stones e per via del suo divenuto celeberrimo Prodigal Son, anche Wilkins figlio risolve il proprio personale conflitto tra la tensione verso il blues e il richiamo del gospel, per mezzo di fragranti sonorità di sintesi, dallo spirito squisitamente down home, che trovano un proprio equilibrio intercettando gli umori del juke joint e quelli del pulpito; quest’ultimi tenuti qui sempre ben vivi, qualunque sia il contesto del brano, dall’organo del Rev. Charles Hodges e dal controcanto delle tre figlie di cui sopra.
Se del gospel più rurale e sudista, Trouble ci ricorda anche le radici country come nella versione, tutta al femminile, di Darkest Hour, del blues non tace gli occasionali rimandi al Mississippi Hill. E nemmanco passa sotto silenzio il fatto che questo disco, registrato ai Royal Studios di Memphis (città adottiva del mississippiano Wilkins), pure dei suoni di questi luoghi porta alcune evidenti tracce. Si ascolti, dunque, quel Found Love che parrebbe derivato da un qualche disco di un altro reverendo: Al Green. G.R.

MICK KOLASSA

"If you can't be good, be good at it!"

Endless Blues Rec. (USA) - 2020

I can't help myself/Lo and behold/If you can't be good/A good day for the blues/I've seen/We gotta/Sweet tea/Slow and easy love/Good night Irene/Who's been talking/She kept her head up
 
 

Abbiamo imparato a conoscere il Mick Kolassa pregevole autore (oltre che vicepresidente della Blues Foundation) in questi anni recenti, grazie alla sua reincarnazione discografica, sia in qualità di interprete - principalmente di se stesso - che di produttore.
Anche tra le undici canzoni che compongono questo suo ultimo disco, ce ne sono ben nove, frutto del proprio estro. Le atmosfere sono, talvolta, un po’ più intimiste che in passato, ma lo stile è quello universalista e inclusivo di sempre. Fedele a quel opportunamente battezzato free range blues, Kolassa non teme incursioni fino ai confini del soul e del gospel, ma si spinge anche a esplorare le profondità del songbook di James Taylor con una personale rilettura di Lo And Behold, nonché un classico come Who’s Been Talking, impreziosito dalla presenza di un ospite inatteso, a lungo rimasto lontano dai radar: quel Willie Hall, già batterista dei Blues Brothers.
Al netto delle varie direzioni che può prendere la sua musica, le radici blues sono sempre il punto di partenza ma, in due occasioni - forse anche le migliori - diventano invece quel punto di arrivo che conquista inequivocabilmente, con fare diretto e profondo, il centro del palco: lenti e in minore, A Good Day For The Blues e Slow And Easy Love colpiscono dritti in quel punto dove più si è sensibili. G.R.

GREG SOVER BAND

"The parade" - EP

Greg Sover & Grounded Soul Rec. (USA) - 2020

Wake up/Wake up interlude/Feelin' sumthin'/It's never too late/Politician/Never gonna stop               

 
 
Curioso come quell’innesto, attecchito in Inghilterra a cavallo tra gli anni ‘60 e ‘70 e denominato British Blues, i cui vasi attingevano avidamente alimenti da quel pozzo infinito del blues americano sia diventato, oggi, quell’oggetto del desiderio al quale, talvolta, taluni artisti americani ritornano, allacciandovi i propri vasi impervi, in un singolare andirivieni di fluidi nutritivi. È il caso della Greg Sover Band; e prova ne sono alcune antiche sonorità blues-rock che ritroviamo qui, come in Wake Up e, a maggior ragione, in quell’unica cover presente: Politician dei Cream, anche se riletta in chiave apertamente, e convintamente, hendrixiana.
Inutile dire che la chitarra di Sover interpreta, in questa rappresentazione scenica, la parte della padrona e che, tra le sue corde, anche l’influsso di Lenny Kravitz si fa sentire. Dunque, col comunque snello e apprezzabile EP The Parade, Greg Sover conferma il proprio perdurante stato di work in progress; di entità in divenire, ancora un po’ lontana dal poter essere considerata, in ambito musicale, una forma di vita compiutamente adulta e indipendente. G.R.

FANTASTIC NEGRITO

"Have you lost your mind yet?"

Cooking Vinyl Limited Rec. (USA) - 2020

Chocolate samurai/I'm so happy I cry (feat. Tank And The Bangas & Tarriona 'Tank' Ball)/How long/Shigamabu blues/Searching for Captain Save a Hoe (feat. E-40)/Your sex is overrated (feat. Masa Kohama)/These are my friends/All up in my space/Justice in America/King frustration/Platypus dipster              
 
 
 
Nessuno, nel panorama odierno della cosiddetta black music, può vantare la stessa, medesima geniale inclusività di generi con risultati altrettanto convincenti e in grado di confluire, così naturalmente, in un magico unicum come Fantastic Negrito.
Considerato, con l’uscita di The Last Days Of Oakland, alla stregua di un moderno, innovativo bluesman, da subito in odore di Grammy, Fantastic Negrito ha rapidamente completato la sua muta, trasformandosi in qualcosa di imprevedibile e di ben difficilmente catalogabile. Non meno affascinante della precedente uscita, Have You Lost Your Mind Yet mostra una visione musicale ben più eclettica e totalizzante che, senza troppa fatica, nel rifarsi filogeneticamente a Sly Stone, James Brown e Funkadelic si riallaccia, in più occasioni, pure a quella che fu di Prince, il cui falsetto avvertiamo riecheggiare in Your Sex Is Overrated.
Se in episodi, come How Long, non si fatica a rintracciare i tratti di un’anima psichedelica, altri brani riportano in vita tutta la stilistica stravaganza di un Captain Beefheart. Sorprendono, poi, i richiami gospel dell’iniziale Chocolate Samurai e tutta la melodica dolcezza di All Up In My Space, sinceramente ispirata a Stevie Wonder. G.R.

AA.VV.

"A Gulf Coast Christmas"

Gulf Coast Rec. (USA) - 2020

All I got for Christmas is the blues (Mike Zito)/Somebody stole my Christmas (Albert Castiglia)/Please, Mr. Santa Claus (Kevin Burt)/Christmas comes but once a year (Billy Price)/Blues Christmas (The Proven Ones)/Backdoor Santa (Jimmy Carpenter)/It ain't Christmas (Kat Riggins)/Santa Claus wants some lovin' (Tony Campanella)/Merry Christmas baby (John 'Blues' Boyd & Lisa Andersen)/Ring the bells (Diana Rein)/Bluest Christmas (Mark May & Miss Molly)/Wha da baby daddy (LeRoux)/Christmas is cancelled (Thomas Atlas)/Santa Claus is back in town (Odds Lane)/Please, come home for Christmas (Sayer & Joyce)/Run Rudolph run (Mike Zito)               
 
 

Detesto quasi tutto ciò che abbia a che fare col Natale e ogni altra manifestazione che gli faccia da patetico corollario; a cominciare dallo spreco di auguri e, via via scendendo, fino alla puramente ideale elevazione degli animi. Mi sento di fare eccezione soltanto per tre aspetti: la simbologia, il senso di convivialità che questa festa si porta appresso - libagioni annesse! - e...la musica. Anche se, devo dire, che pure questa, essendosi concessa, negli ultimi anni, sempre più frequenti uscite a tema, mi è venuta un po’ a noia.
Tutto ciò premesso, devo dire che la pubblicazione natalizia della Gulf Coast Records ha un pregio: nella sua semplicità senza pretese, concentra in un sol colpo, non soltanto gli artisti della “casa” stessa (che trovate ordinatamente citati accanto ai titoli dei brani), colti nella loro essenza più marcatamente blues, ma un’interessante e cospicua manciata di inediti natalizi (sette, per la precisione) tra i quali spiccano, oltre Christmas Comes But Once A Year di Billy Price e Backdoor Santa di Jimmy Carpenter, l’ironica Christmas Is Cancelled di Thomas Atlas e la felicemente dissacrante Who Da Baby Daddy magistralmente interpretata da LeRoux. Nel bel mezzo di apertura e chiusura affidate a un Mike Zito in palese chiave Chuck Berry, il classico Merry Christmas Baby in bocca alla coppia John ‘Blues’ Boyd e Lisa Andersen. G.R.

BOBBY RUSH

"Rawer than Raw"

Deep Rush Rec. (USA) - 2020

Down in Mississippi/Hard times/Let me in your house/Smokestack lightning/Shake it for me/Sometimes I wonder/Don't start me talkin'/Let's make love again/Honey bee, sail on/Garbage man/Dust my broom
      
    
 
Tutta la abituale, sagace ironia di Bobby Rush si manifesta fin dal titolo di questo suo ultimo disco che, con un artigianale ma elegante intreccio di parole, autentico anche nel suo significato effettivo giustifica, con quella “erre” maiuscola, la natura della nuova uscita, davvero più “cruda” di Raw! E il riferimento è al precedente disco - Raw appunto! -  del 2007, per mezzo del quale, e per la prima volta, Rush si manifestava in un solitario, sorprendente contesto acustico e squisitamente downhome.
Interprete e autore il cui pruriginoso humour ha, di regola, pervaso le sue canzoni, con questo nuovo disco si ripresenta, con un ritorno all’essenza, in versione solitaria e acustica: chitarra, voce e armonica. Ad ascoltarlo, Bobby Rush non tradisce neppure tutte le sue ottantasei primavere: voce e verve strumentale non hanno accusato per nulla gli anni trascorsi a girovagare nei sotterranei del chitlin’ circuit, né la sua quasi soprannaturale sopravvivenza al contagio del Covid-19. Ma, se il virus, talvolta concede scampo, l’anagrafica no. E sembra quasi che, ormai indirizzato al crepuscolo della propria esistenza, Bobby Rush abbia optato per un ritorno in placenta: alle origini, se non propriamente mississippiane, quantomeno del sud. E lo ha fatto rendendo un tributo ai padri del blues che, qui, rivivono nelle personali riletture di alcune pagine di Skip James, Howlin’ Wolf, Muddy Waters, Sonny Boy II ed Elmore James. Senza, però, dimenticarsi, sebbene soltanto in un brano, della sua natura di verace autore che incontriamo nell’introspettiva, Sometimes I Wonder. G.R.

WHITNEY SHAY

"Stand up!"

Ruf Rec. (D) - 2020

Stand up!/Someone you never got to know/Equal ground/P.S. It's not about you/I thought we were through/Far apart (still close)/You won't put out this flame/Tell the truth/Boy, sit down/I never meant to love him/Getting in my way/Change with the times
      
    
 
Qui, la musica - molto rhythm con un pizzico di soul - è terribilmente fresca e frizzante; gli arrangiamenti, moderni e anche inventivi, ma il giovane, scuro e naturalmente estroverso contralto di Whitney Shay, venuto alla ribalta un paio d’anni or sono con A Woman Rules The World, sebbene anche in questa occasione si trovi ben spalleggiato da ottimi musicisti, pare ancora un pizzico refrattario a mostrarsi in tutta la sua piena potenzialità.
Come il precedente disco, uscito per l’americana Little Village Foundation (vivace etichetta i cui fondatori hanno occhi e orecchi sempre ben aperti su quanto di interessante si muova nei dintorni del blues), anche questo Stand Up!, edito per la tedesca Ruf, beneficia del luminoso accompagnamento di riconosciuti maestri come Laura Chavez, Red Young, Kaz Kazanoff e dei suoi Texas Horns; e di Marcia Ball e Guy Forsyth quali preziosi, quanto occasionali, ospiti.
Registrato ai Wire Studios di Austin e prodotto da Kazanoff stesso, a differenza dell’altro disco che ci presentava una Shay prevalentemente interprete, intenta soprattutto a misurarsi con brani altrui pescati dai libri di “storia”, in questo nuovo lavoro la troviamo totalmente concentrata sul suo ruolo di autrice e, per la prima volta, esclusiva interprete di se stessa. Il talento, non manca; idee e musicianship neppure: la piena maturazione, che già si intravede, non tarderà ad arrivare! G.R.

KURT ALLEN

"Whiskey, women & trouble"

Autoprodotto (USA) - 2020

Graveyard blues/Watch your step/How long/Whiskey, women & trouble/Funkalicious/Count on me/Roadrunner/Cry mercy/Voodoo queen/Sweet T

  
    
In questo Whiskey, Women and Trouble, c’è n’è proprio per tutti i gusti! Chitarrista, cantante e autore, di base a Kansas City, con la sua voce affumicata e le decise rasoiate chitarristiche Kurt Allen offre un’escursione, a tutto campo, nel variopinto mondo del blues e dei suoi dintorni, con l’apporto di una solida band, occasionalmente estesa a una sezione fiati.
Muovendo dal rock-blues dell’introduttiva Graveyard Blues, che tanto pulsa al ritmo degli Allman Brothers, durante l’ascolto si possono attraversare diversi altri e variopinti terreni: quello del funk, con Funkalicious, quello del soul, con Count On Me, le atmosfere neorleansiane con Voodoo Queen, lo slow blues più tradizionale con How Long, i cui echi antichi rimandano a suoni di Led Zeppeliniana memoria, così come Roadrunner rimanda, nemmeno troppo velatamente al vecchio Bo Diddley. G.R.

FRIENDS & LEGENDS OF LOUISIANA

"Friends & legends of Louisiana"

L&M Rec. (USA) - 2020

Beale Street blues/While you're still mine/Belly of the beast/Want it to be/I believe/Southern side of life/Red tail lights on a blues highway/The two of us/Living in a fantasy/Memories

  
    
Progettato e ideato da Lucas Spinoza, produttore, autore, pianista e leader di quella band chiamata Southern Stars da Baton Rouge (Louisiana), Friends & Legends Of Louisiana  - appunto! - è una raccolta di dieci inediti che rimbalza, con agile disinvoltura, tra swamp blues, New Orleans rock, rock’n’roll, swing, pop e soul. Nato per celebrare la tradizione musicale del paludoso stato del sud, questo disco consegna ogni brano a un diverso interprete, ovviamente locale e - nota di merito - non necessariamente conosciuto.
Così, tolti Southern Side Of Life concessa alla voce a all’armonica di Kenny Neal e la ballad The Two Of Us affidata a Gregg Martinez, i brani restanti offrono uno spaccato di voci meno note, ma ugualmente caratteristiche, che vanno da Jason Parfait (in più episodi, anche sassofonista, fantasioso e lancinante), alle tre ottave di estensione dello strumento di Parker James, all’ugola cajun di Wayne Toups fino a Don Rich, Ryan Foret, Bryan Romano e Chris LeBlanc, un tempo compare di quell’altra leggenda del posto che fu Bobby Charles. Tra i brani ritroviamo, per un isolato cameo, anche Sonny Landreth e la sua chitarra slide: da Lafaiette, Louisiana. G.R.

THE JAMES HUNTER SIX

"Nick of time"

Daptone Rec. (USA) - 2020

I can change your mind/Who's fooling who/'Till I hear it from you/Never/Missing in action/Nick of time/Brother or other/Ain't goin' up in one of those things/Take it as you find it/Can't help myself/How 'bout now/Paradise for one/He's your could've been          
 

  
Interprete ormai tra i più conosciuti e apprezzati, autore di brani che suonano spesso come materiale maldestramente sfuggito di mano a un Jackie Wilson degli anni ‘60, le umide asprezze di quel legno di botte che è l’abrasivo e nasale tenore di James Hunter si muovono, in questo ultimo Nick Of Time, ottavo disco solista, su un terreno musicale sommariamente omogeneo dove, come sempre, oltre ai testi efficaci, è l’intarsio contrappuntistico dei fiati a caratterizzarne l’ambiente. Terreno fatto di un lieve, compassato groove, dall’onda lenta e suadente, dal quale si smarcano alcuni episodi appena più ritmati: l’omonima title track, ‘Till I Hear It From You, Brother Or Other e Ain’t Goin’ Up In One Of Those Things. Non stupisce, dunque, che in un contesto, in prima approssimazione, così stilisticamente definito, il brano più accattivante risulti proprio, sul finire del disco, l’unico che, da quella rotta principale, un po’ a sorpresa più si discosta.
Porto, con swing, in una cornice unplugged per chitarra acustica, pianoforte e voce, Paradise For One, elogio della solitudine in stile Nat King Cole, è lo snello, immaginifico e compiaciuto bozzetto nel quale Hunter sfoga tutto quanto il suo seducente crooning. G.R.

KIM WILSON

"Take me back! - The Bigtone sessions"

MC Rec. (USA) - 2020

You've been goofin'/Wingin' it/Fine little woman/Slow down/No place to go/Strange things happening/Play me/If it ain't me/Strollin'/The last time/Money, marbles and chalk/Take me back/Rumblin'/I'm sorry/Goin' away baby/Out of the flyin' pan           
 
 
 
Rivolto allo stile e alle sonorità del passato, pervaso da un’atmosfera da immediato dopoguerra, a chiudere gli occhi, talvolta, non sembra di essere nel 2020 e aver infilato nel lettore un cd, piuttosto nel 1945 o giù di lì, e aver sintonizzato la radio sulle frequenze della KFFA di Helena, Arkansas, in orario per il King Busquit Time, nell’istante esatto in cui Sonny Boy II piazzava la sua armonica dinnanzi al microfono e comiciava il suo show.
Registrato dal vivo (e rigorosamente su nastro!) con lo spirito del carbonaro, dal moderno principe del Lo-Fi, Big Jon Atkinson, nel proprio retrobottega e seguendo gli scrupolosi dettami delle antiche ricette, il disco ci restituisce il Kim Wilson più ruspante, quello che ritorna ai primi amori suoi, quelli mai sopiti degli anni ‘40 e ‘50.
Con la sola eccezione di Slow Down, dove il nostro si concede ai territori di Fats Domino e Clarence Brown e di alcune altre occasioni in cui la band, rinforzata da fiati, aggiunge meticce vibrazioni doo-wop, rock-a-billy e persino be-bop, tutto qui è riportato indietro nel tempo ai vecchi dischi di blues dell’epoca d’oro.
Mix di classici e brani inediti, Take Me Back è prodotto dall’instancabile Kid Andersen, qui anche chitarrista, mentre il resto della band annovera un who’s who di pesi massimi tra i quali Rusty Zinn, Kedar Roy, Bob Welsh, June Core e Marty Dodson. G.R.

ELVIN BISHOP & CHARLIE MUSSELWHITE

"100 years of blues"

Alligator Rec. (USA) - 2020

Birds of a feather/West Helena blues/What the hell/Good times/Old School/If I should have bad luck/Midnight hour blues/Blues, why do you worry me/Southside slide/Blues for yesterday/Help me/100 years of blues                             
 

 
Ben esemplificata da quel blues monoaccordo, ossessivo e percussivo che è Old School, la filosofia di questi due veterani del genere è anche presto riassunta, con sintetica eloquenza, in quel “…don’t send me no e-mail, send me a female…” declamata nel brano stesso. Vecchi leoni che non perdono tempo dinnanzi a uno schermo (o al display di uno smartphone!), piuttosto appresso a qualche gonnella, nel far vanto del non usare Facebook né avere tatuaggi da mostrare - sono robe da pivelli!! - affermano con orgoglio e anche un malcelato pizzico di superiore presunzione, la fiera appartenenza a quella genuina “vecchia scuola” di cui questo disco vuole essere chiara esibizione.
Queste due leggende, la cui somma delle rispettive vite artistiche, a voler far di conto, supera di un po’ l’ottimistica soglia dei cento anni del titolo, e la sessantina di album incisi, non avevano mai avuto occasione, prima d’ora, di suonare assieme in studio. Ma, quasi come in un ben riuscito esperimento di chimica, l’alchimia ha funzionato alla perfezione. Presi Musselwhite e Bishop, mesciati col piano di Bob Welsh e l’occasionale contrabbasso di Kid Andersen che, del disco, ha curato la produzione presso i suoi Greaseland Studios californiani, il risultato fa un’oretta scarsa di traditional blues di grande spessore che, al netto di un tris di covers, sfoggia anche esempi di mai sopita creatività con una generosa sventagliata di inediti. G.R.

RICK BERTHOD

"Peripheral visions"

Autoprodotto (USA) - 2020

Seeing sideways/Love hungry/One more chance/Memories/Much love/Treat her right/Fly on/High dollar girl/Hard on my heart/Broken middle finger                           
  
 
 
Che il vecchio “Master of the Telecaster”, Albert Collins, sia stato il mentore di Rick Berthod lo si intuisce intravedendone il fantasma che, senza neppur troppa discrezione aleggia, fin dalle prime note, sulla sua chitarra in Much Love o ancora, più sommessamente, nello slow blues Fly On. Ma, nell'ambito dei dieci brani, tutti originali, che compongono l’ottavo disco di questo misconosciuto chitarrista del Nevada, quelli sono  gli unici che ricordano più o meno da vicino l’indimenticato “Iceman”.
Il resto del programma, invece, si attesta su un blues-rock energico, dalle moderne finiture, che riporta alla memoria talvolta Gary Moore (Memories), talaltra quel certo Stevie Ray del quale è ormai superfluo citare il cognome (Love Hungy) o, ancora, come nello strumentale d’apertura, la riflessiva rilassatezza di un Robben Ford piuttosto che la sferragliante slide di un George Thorogood (Hard On My Heart). Da segnalare la presenza, nella band, di Billy Truitt, virtuoso di Hammond e tastiere al quale va riconosciuto il merito di aver sparso, dall'alto dei suoi tasti, alcune gustosissime ciliegine sulla torta. G.R.

ERIC HUGHES BAND

"Postcard from Beale Street"

Endless Blues Rec. (USA) - 2020

Ain't whipped yet/Oh, booze!/He's just an alley cat/Follow your stupid little dreams/Homesick angel/Fair weather friends/Blackberry patch/Come see about me/Waiting for that day/It's 4:20 somewhere                           
  
 
 
Quando si pensa a Memphis si pensa al soul, forse più ancora che al blues. Ma Memphis è stata ben più che soul e blues: è stata jazz, vaudeville, jug band, rock’n’roll, canzone. Dunque, che un disco a lei dedicato, potesse assumere prevalentemente proprio quest’ultimo aspetto, quello più poetico della forma canzone, è cosa un po' lontana dalla nostra più immediata immaginazione. Ma tant'è!
Sebbene indossino i panni stilistici che, di volta in volta, più e meglio si rifanno alla storia musicale della città, l'aspetto principale che mettono in evidenza i brani contenuti in questo disco è un chiaro, manifesto, straordinario talento cantautorale. Attraverso ognuna di queste canzoni, Eric Hughes (e soci!) racconta storie con un'immaginazione lirica davvero brillante ed efficace. A cominciare dall’alcolica Oh Booze! che, muovendo da cadenze old-time e dai sovraincisi scratch come di un vecchio 78 giri, si trasforma in una deliziosa ballata jazzy che non dispiacerebbe affatto al miglior Tom Waits. Ma le atmosfere del disco cambiano repentinamente, di pezzo in pezzo, e la Beal Street del titolo pare trasformarsi, da una, in un dedalo di vie: si fanno dure, quindi, nel rock-blues He’s Just An Alley Cat, delicatamente nostalgiche nella ballata Homesick Angel, gioiose nel delizioso, esortativo girotondo country di Follow Your Stupid Little Dreams. Il Memphis sound che più identifichiamo come tale, quello mescolato al soul, lo troviamo in Fair Weather Friends che, immediatamente, ci conduce all’acustica, fangosa slide guitar di Blackberry Patch.
Interamente registrate a Memphis da musicisti di Memphis, queste canzoni si rivelano autentici canditi per le orecchie. G.R.

GRAVEL & GRACE

"Bringing the blues"

Autoprodotto (USA) - 2020

Scares me/Next move/Bottles/When I'm hungover/Love on the brain/Sunday afternoon/Not about a boy/Picture perfect/Pennies/Wash my blues                  
    
  
 
L’unica cover presente, quella Love On The Brain di Rihanna riacquista qui una deliziosa, inattesa veste doo-wop. Ma cover o inediti che siano, ciò che rivela questo Bringing The Blues, oltre la bravura di una band che annovera tra le sue fila alcuni tra i migliori strumentisti della Central Valley californiana, sono le due giovani voci protagoniste: quella di ghiaia macinata fine di Big Earl Matthews e l’altra, adolescenziale, cristallina, ma già ben modulata della diciassettenne Ava Grace che, qui, si dimostra anche già autrice efficace (si ascolti, per esempio, il blues-rock minore Not About A Boy). I due si alternano, con equilibrio e bravura, al canto e alla scrittura e il corposo ensemble che capeggiano e che potremmo definire di moderno rhythm and blues, spesso ruota attorno al centrale sax di William Melendez e propone un programma che tocca svariate sponde: quelle del country (When I’m Hungover), quelle della vecchia New Orleans (Picture Perfect) e quelle che stanno sul versante più rock del pop (Pennies). G.R.

THE SMOKE WAGON BLUES BAND

"The ballad of Albert Johnson"

Autoprodotto (CAN) - 2020

Ballad of Albert Johnson/Memphis soul/Ain't gonna be your fool/The fat man/Lay say lay/Mescaline/Sacrifice/Poor man blues/Metapedia river blues/A song for Cheryl/Can't take the blues/On the road again/Steaming comrades harp boogie                  
    
  
 
Se mai il sound di una band potesse risuonare in coerenza col proprio nome, risuonerebbe col nome della Smoke Wagon Blues Band: una fumosa locomotiva di sette fieri musicisti che, dal 1996, buttano in caldaia voci grintose, ottoni pulsanti, maestria strumentale e gusto dello storytelling, ottenendo un propulsivo concentrato di moderno e variegato blues elettrico.
Il nuovo album di questa formazione che arriva da Hamilton, Ontario, muove dall’omaggio, in forma di boogie, a un locale e, parrebbe, leggendario personaggio degli anni ‘30, noto col nome di Albert Johnson, meglio conosciuto col soprannome di “The Mad Trapper”. Ma, contrariamente a quanto si potrebbe intendere dal titolo del disco (e dell’omonima prima traccia!), questo non è un concept album.
Boogie e ottani a parte, sono gli episodi nei quali il ritmo rallenta, quelli che tratteggiano il profilo migliore del gruppo: Ain’t Gonna Be Your Fool, per esempio. E poi, il piano che ritorna protagonista spesso: in vesti neorleansiane, nell’unica cover concessa, The Fat Man e che genuinamente neorleansiano resta nella successiva Lay Say Lay; o ancora in Mescaline dove si tinge di sfumature cantautorali dai vaghi richiami a-la Tom Waits.
Mentre la conclusiva Steaming Comrades Harp Boogie, registrata live, lascia intravedere quale possa essere la dimensione nella quale tutta la loro energia ami di più manifestarsi. G.R.

RUSTY ENDS & HILLBILLY HOODOO

"The last of the boogiemen"

Ecko Rec. (USA) - 2020

Cheap wine/Unholy roller/Hillbilly hoodoo/I forgot to say I love you/Rockabilly boogie #1003/Cottonmouth rock/Stiletto heels and fishnet hose/Let me cross your mind/We love our way through the blues/Bob Wills played the blues/Midnight angels/Sinner's strut
             
    
  
Rusty Ends realizza, in musica, l’idea di “fusione fredda” che fu, nella fisica degli anni ‘80, di Fleischmann e Pons. Mascolando, nel suo vaso da esperimenti, rock’n’roll anni ‘50, rockabilly, blues, R’n’B, country e un pizzico di punk e doo-wop, riesce a cavarne fuori un sound che è, a un tempo, famigliare e vibrante.
Come tutti i musicisti ben radicati nelle dinamiche chitarristiche che, portate all’estremo delle conseguenze col rockabilly, hanno caratterizzato il rock’n’roll, Ends riesce a far apparire assai semplici e fluidi anche i passaggi strumentali più intricati. Il titolo del disco, poi, appare particolarmente appropriato per una raccolta di brani interamente inediti che, pur concedendo anche qualche spazio privilegiato al blues, entra ed esce a piacere dai diversi generi creando un ben bilanciato e speziato mix musicale, che diventa giusta colonna sonora per tiratardi da roadhouse. G.R.

WILL JACOBS & MARCOS COLL

"Takin' out time"

Autoprodotto (D) - 2020

It ain't safe/Going to Berlin/What u doing/C.J.'s bounce/Stranded/Hey baby/Bluescazorla boogie/One too many times/Going to Berlin (live)                  
    
 
 
Il medesimo, intenso livello di eccitazione e coinvolgimento che potremmo attenderci da musicisti ben scafati e di lungo corso è quello stesso che ritroviamo qui generato, invece, da un curioso duo di giovani musicisti in esilio volontario tra i confini dell’antica Europa. Ambedue virtuosi talenti dei rispettivi strumenti, il chitarrista americano Will Jacobs e l’armonicista spagnolo Marcos Coll si sono ritrovati a Berlino, dove entrambi attualmente risiedono, e hanno dato vita a questo disco che mescola schietta tradizione e giusta modernità e dove il livello di maestria dei due riesce a creare un suono davvero avvincente.
Se diversi brani tradiscono le chiare origini chicagoane – intese come agganci stilistici, oltre che geografici - di Jacobs, ancorché opportunamente rapportate ai giorni nostri, l’iniziale It Ain’t Safe, vecchio brano di Z.Z.Hill scaturito dall’arguta penna di George Jackson, come l’inedita C.J. Bounce con le sue riminiscenze a-la James Brown ci ricordano, invece, quanto questo brillante ragazzo abbia dedicato parte dei suoi trascorsi musicali anche al funk e al soul. Oltre che chitarrista, polistrumentista al punto tale da suonare, qui e con incisività, anche basso e batteria, il disco è un concentrato di buone energie vibrazionali e abbondante spazio per il dinamico, immaginifico solismo dei due. G.R.

FRANK GET

"False flag"

Suisa Rec. (ITA) - 2020

The great deception/Johnny's bunch/False flag/Tramway's tales/Freedom republic/Anton the brewer/Marbourg hills/What's the patriot/Trip to the moon/The lighthouse of sadness/Last day of summer/The story of Richard Francis Burton/Joy/Climbin' up this mountain
             
    
 
Frank Get è musicista (e uomo) di confine, figlio di un territorio cosmopolita e mitteleuropeo. Triestino con ascendenze slovene, polistrumentista e autore, da quattro decenni sulla scena festeggia, con questa uscita, una quarantennale carriera. Al pari del suo autore, anche False Flag, nel suo procedere in parallelo con il libro Ti Racconto La Mia Terra, contenente i testi tradotti di questo come dei suoi dischi precedenti, è un’opera di confine; o, meglio, di confini.
Sebbene smaccatamente americana nelle sonorità, saltella allegramente tra il nord e il sud, l’est e l’ovest degli Stati Uniti, raccogliendo il richiamo di Blasters, Little Steven, Bob Seger, Tom Petty, John Mellencamp, del blues, della psichedelia, del combat folk e, allungando l’orecchio verso il Regno Unito, pure degli Stones. Questa musica, associata all’agreste poetica dei testi, tutti inediti, diventa, qui, una potente macchina del tempo, ben incline al racconto, dove trovano spazio astronomi, esploratori, birrai, linguisti, vecchi tram e antenati. Un racconto che, con dotta e inusuale voce, parla di queste terre, delle proprie vicende e di alcuni suoi singolari protagonisti, compresi quei tanti migranti sloveni che, in anni lontani, abbandonarono tutto per lanciarsi in direzione dell’ignoto.
False Flag rappresenta bene quel binomio musical-letterario pregno di viva memoria storica e implacabile amore per le proprie radici. G.R.

JOHN PRIMER & BOB CORRITORE

"The gypsy woman told me"

Vizztone Rec. (USA) - 2020

Keep a-driving/The gyspy woman told me/Knockin' on your door/Gambling blues/Little bitty woman/Walking the backstreets and crying/I got the same old blues/My imagination/Let's get together/Left me with a broken heart/Walked so long/Ain't gonna be no cuttin' loose
             
    
 
Onestamente, ci si potrebbe mai attendere qualche sorpresa da uno come John Primer? Pur col prudenziale beneficio del dubbio, io, credo proprio di no! Perché John Primer, con o senza il soccorso di Bob Corritore e della sua verace armonica, è sempre una garanzia. Quando esce un suo disco, sappiamo già bene, con buona probabilità, che cosa ci aspetta: una generosa dose di buon, vecchio, genuino Chicago blues.
Manco a dirlo, The Gipsy Woman Told Me, conferma questa regola empirica. Accompagnato da una band che annovera, tra le proprie fila, altri noti musici, più o meno locali, come Billy Flynn, Kedar Roy, Troy Sandow, June Core, etc., il nostro vecchio leone Primer ha gioco facile nel troneggiare su un repertorio che non scarta di un centimetro dalle strade del ben famigliare Southside; e il suo comprimario Corritore gli garantisce, col proprio strumento, un supporto pieno, integrativo e mai prevaricante. L’unica improvvisata, se così vogliamo chiamarla, è la rilettura - manco a dirlo – con rito di stretta osservanza chicagoana, di quel Walk The Backstreets And Crying, che fu successo antico di Little Milton.   
Per dirla con vecchie espressioni, nulla di nuovo sotto il sole; o: niente nuove, buone nuove. Dischi come questo, sono come la torta della nonna: di innovativo e audace non hanno proprio nulla, ma il loro assaggio è sempre una gioia per il palato e un corroborante per lo spirito. Oltre che un nostalgico, ma vivo, tuffo nel passato. G.R.

JEFF FETTERMAN

"Southern son"

Green Tea Music Rec. (USA) - 2020

I don't want to/49-61/Memphis sky/Goin' down to Nashville/Living with the blues/Ain't got you/Feels like rain/Tell me baby/Blues for Charlie/All along the watchtower/Voodoo funk/Southside blues
             
    
La nuova, fresca uscita di Jeff Fetterman nulla è se non la materializzazione discografica di un viaggio: quello che ha portato il giovane, energico chitarrista americano, a esplorare le radici del funk e del blues anni ’70 attraverso un’immaginaria scarpinata tra gli anfratti dei due generi, traslandoli all’oggi con sonorità personali e di contemporanea concezione.
L’album, prodotto dal sempre superbo Chris Andersen nei suoi Greaseland Studios, vede affiancarsi al quartetto base di Fetterman un Hammond, suonato dallo stesso Andersen, nonché un tris di fiati, sax, tromba e trombone, rispettivamente in mano (e in bocca!) a Doug Rowan, John Halbleib e Ric “Mightybone” Feliciano.
Se brani come Memphis Sky e Feel Like Rain tradiscono un certo naturale talento nel concepire ballate rock che, mi sento di poter dire, non dispiacerebbero a John Mellecamp, il moderno blues elettrico, più verace e sanguigno, si fa spesso vivo e Tell Me Baby come Blues For Charlie o Living With The Blues ne sono i migliori, non unici, esempi.
Chitarrista versatile e sferzante, talvolta tessitore di intricati groove, anche come cantante Fetterman si lascia apprezzare. Il denso timbro vocale, che ricorda un delizioso mix tra Gregg Allman e Paul DeLay, si fa interprete di un repertorio di inediti con sorpresa: quella rappresentata dall’unica cover presente. Un’irriconoscibile All Along The Watchtower, che muove da un’intro di matrice funky-caraibica e sviluppa, poi, in chiave hendrixiana. G.R.

JOHNNY BURGIN

"No border blues"

Delmark Rec. (USA) - 2020

One day you're gonna get lucky/Sunnyland/So crazy about you/Hurry up baby/Pumpkin's boogie/I just keep loving her (Mada Sukinanda)/Rattlesnake/Old school player/Two telephones/Samurai harp attack/Sweet home Osaka

             
 
Se uno ascoltasse questo disco a occhi chiusi e senza nulla conoscere, non tanto sul suo autore, quanto più sui musicisti che lo accompagnano, nel breve giro di una manciata di note e ancor meno secondi, potrebbe dirsi certo di essere in presenza di uno di quei dischi lo-fi, di schietto Chicago blues anni ’50, magari registrato nel retro di qualche store di una qualsiasi strada del più losco southside. Uno di quei dischi che potrebbero essere usciti dalla testa e dalle mani di - che so? – Big Jon Atkinson, per dire, o di qualche altro giovane americano innamorato di questi suoni. Beh…il (più o meno) giovane americano c’è ed è Johnny Burgin, reale esponente della mai tramontata Chicago del blues; ma i suoi accompagnatori sono tutti quanti musicisti raccolti nel sottobosco, che pare assai vivo e folto, del vecchio Giappone: un tesoro nascosto, come un fungo pregiato, tra la fitta vegetazione della locale scena blues underground del sol levante.
Burgin, durante ripetuti tour in quel paese e per sua stessa ammissione, ha scoperto un mondo inatteso, fatto di musicisti così appassionati, disciplinati e determinati a padroneggiare i suoni più puri della tradizione, da arrivare a replicarli con una competenza e una credibilità inverosimili.  
Dunque, questo disco, che non avrebbe potuto essere pubblicato se non per la più pura tra le etichette discografiche (la  Delmark!!) è un modo, riuscito, per rendere omaggio a questi musicisti e al loro insospettato, sorprendente talento. G.R.

TOM GILBERTS

"Old school"

Polymerase Rec. (USA) - 2020

"Lady" luck/Zoot suit shuffle/Ass, gas or grass/Sun vibe/Old school/The north fork/My paper bag/You missed me/Brown's camp/Nighttime/The fuzz

             
Un mastro chitarrista - se oscuro, poco importa! -  a cui si affianca una potente, pulsante ritmica come quella, formata qui, da Brian Foxworth e Dave Captein può diventare qualcosa di davvero travolgente.
Con un fraseggio e una voce strumentale così espressivi, Tom Gilberts si candida ad essere considerato, a sorpresa, come uno dei migliori chitarristi ascoltati negli ultimi anni. Gilberts, nella ben rodata forma del trio, non inventa nulla di nuovo, ma questo disco di inediti blues, roots e rock, che diventa deliziosamente cantaurorale con le note di Nighttime, ha molto di personale. Prodotto da un altro virtuoso e misconosciuto esponente dello strumento come Terry Robb, ha pure il singolare pregio di farci conoscere un musicista di inusuale eloquenza lirica. La sua chitarra parla il linguaggio esatto di chi sa, anche in musica, come costruire le frasi, scegliendo il vocabolario corretto e introducendo le giuste pause, laddove vanno, avendo ben chiaro il concetto che, il messaggio, è fatto di contenuto ma è anche veicolato dalla forma. Gilberts non sfoggia muscoli, né virtuosismi gratuiti; il suo codice comunicativo non diventa quello dei watt (se non solo un poco nella conclusiva Fuzz), ma quello del tono, del feeling e del respiro tra le note.
Utilizzando tessiture e suoni differenti, anche un po’ a dispetto del proprio titolo, Old School non sa poi così tanto di ‘old’ e diventa una lectio magistralis in blues contemporaneo e songwriting. G.R.

SCOTT ELLISON

"Skyline drive"

Red Parlor Rec. (USA) - 2020

I'm missing you/Skyline drive/Something about you/Obsession/Coming down from loving you/I'm all wound up/Woman got a hold on me/Perfect for you/Breath underwater/These blues got a hold on me/Overwhelmed/Lonely in love

             
 
Radicalmente collocato nel contesto geografico di Tulsa, città che rimanda alla memoria quanto meno il vecchio Clapton e l’ancor più vecchio Freddie King, per questo Skyline Drive, il cantante, chitarrista e autore di lungo corso Scott Ellison, assembla un ensemble che pare a proprio agio tanto sul blues-rock quanto sulle sfumature più jazzate del genere. La sua chitarra pungente, che reca lontani echi di Albert Collins ed evidenti assonanze coi più sanguigni interpreti dello strumento resta, comunque, un voce sufficientemente personale che svolazza libera su una generosa manciata di inediti di breve durata (tutti nell’intorno dei canonici tre minuti), sulla cui lunghezza riesce comunque a esplorare un bel ventaglio di sfumature musicali, ma sempre col denominatore comune del blues. G.R.

BILL BLUE

"The king of crazy town"

Conch Town Music Rec. (USA) - 2020

Do what I do don't do what I say/Caroline time/I want it all/Everybody's leaving town/Hunker down/The king of crazy town/Indianola/You ain't fun anymore/Enough blues to give you the blues/Closing time/Mojolation

             
Cosa c’azzeccherà mai Bill Blue con Arthur “Big Boy” Crudup autore, nel 1946, del classicissimo That’s Alright Mama, primo brano inciso da “the king of Rock’n’Roll” Elvis? Beh...pochi lo sapranno ma, Bill Blue, chitarrista dalla Carolina (North o South poco importa!), è stato, nei primissimi anni ‘70, l’accompagnatore fisso di Crudup, morto il quale intraprese una sporadica carriera solista che lo portò a registrare una doppia coppia di dischi: due per la Feather e altri due per la Adelphi. Tornato sulle scene con Mojolation nel 2013, prodotto da Ian Shaw, ricompare adesso con quesso King Of Crazy Town sempre prodotto dal medesimo Shaw.
Forte di una band estesa a un vincente poker di fiati come la Funk In The Meedle Horns e che annovera, tra le sue fila, il chitarrista Matt Backer, già con Joe Cocker, Steve Earle, Emmylou Harris e Elton John, ancora una volta, Blue, mette insieme il suo blues verace, da blue collar worker, con rimasugli di psichedelia e inprovvisi lampi di originalità, quel tanto che basta per suonare, da vecchio saggio, differente dal resto delle band in circolazione oggi. E, in un disco che trionfa di inediti, c’è posto solo per una cover: quel I Want It All ripescata da un Eddie Hinton d’annata. G.R.

RUBEN MINUTO

"Think of paradise"

LPB Rec. (USA) - 2020

If you're strong/Think of paradise/Credit to your rind/Bringing light and sorrow/Where the wild river rolls/I forgot how to sip/My evil twin/Changes/The wind blew/Reasons into rhymes/Be alive

     
Potremmo definirlo un ottimo disco di “americana” all’italiana questo terzo, a proprio nome, di Ruben Minuto. Qui si mescolano, con sapienza e artigiana maestria, un pizzico di folk, country, rock’n’roll e southern rock: da quello storico dei fratelli Allman e dei Lynyrd Skynyrd a quello più contemporaneo dei Gov’t Mule. Dati tutti i trascorsi e le sue collaborazioni, Minuto è da considerarsi artista internazionale - leggasi “americano” -  probabilmente, più ancora che nazionale e il rimarchevole lavoro di sintesi operato con Think Of Paradise, nelle sue molteplici e gustose sfaccettature, sembra tanto voler rappresentare la summa di tutte le esperienze e influenze di un trentennio intero di esistenza artistica.  
Sulla lunghezza di dieci inediti e una sola cover (quel Where The Wild River Rolls preso a prestito da Bob Amos) che esibiscono un raro rigore filologico, Minuto non perde occasione per introdurre, qua e là, anche qualche improvvisa, singolare divagazione: tocchi di sorprendente dinamismo che tradiscono venature di originalità e rendono ancora più vivace l’ascolto. G.R.

CHICKENBONE SLIM

"Sleeper"

Lo-Fi Mob Rec. (USA) - 2020

Vampire baby/Tougher than that/The ballad of Dick/Strolling with Chickenbone/My bad luck/Ride/Helpless/Little victory/Dignity/These things happen

    
Sebbene non singolare e sorprendente quanto il precedente The Big Beat, Sleeper testimonia comunque l’evidenza, chiara e inequivocabile, del talento di arguto autore e chitarrista ficcante di Larry Teves, in arte Chickenbone Slim.
Swingante, grintoso, dall’espressività grassa e saldamente aderente a quei canoni che oscillano tra il jump californiano, la Chicago postbellica e il Gulf Coast blues, Sleeper è stato registrato ai Greaseland Studios di Kid Andersen, con l’aggiunta di alcuni preziosi ospiti che vanno da Andersen stesso, a Laura Chavez fino a Jerry Raney e Joey Harris dei furono Beat Farmers, band di Country Dick Montana al quale è dedicata, con tutto il suo verace drive rockabilly, The Ballad Of Dick.
Unica nota dissonante rispetto al resto del disco è, invero, anche quella più poetica: la solitaria Helpless, introspettiva e toccante canzone d’amore per voce, chitarra e riverbero. G.R.

ALBERT CASTIGLIA

"Wild and free"

Gulf Coast Rec. (USA) - 2020

Big dog/Hoodoo on me/I been up all night/Heavy/Get your ass in the van/Searching the desert for the blues/Keep on swinging/Too much Seconal/Loving cup/I tried to tell ya/Boogie funk

 
La libera, cruda e imprevedibile energia che origina facilmente dalla giusta sovrapposizione del blues col rock più viscerale si incarna, tutta quanta, in questo live.
Registrato durante un rovente show consumatosi, a fuoco lento e costante, in quel di Boca Raton, Florida, Wild And Free è la materializzazione di tutto ciò che si può chiedere a un buon album dal vivo: volume, sudore, attitudine agli assoli e spirito da jam senza il rischio della noia, malgrado il disco superi nettamente l’ora di ascolto. Mescolando Elmore James e quella tradizione che gli deriva dall’essere stato al fianco di Junior Wells e Sandra Hall, con l’eredità di Zeppelin, Cream e Vaughan, Castiglia guida con sicurezza e contagioso drive il suo quartetto base cui si aggiungono alcuni altri qualificati ospiti, primo tra i quali Mike Zito e quello straordinario, misconosciuto hammondista che è Lewis Stephens. G.R.

POPA CHUBBY

"It's a mighty hard road"

Dixiefrog Rec. (USA) - 2020

The flavor is in the fat/It's a mighty hard road/Buyer beware/It ain't nothing/Let love free the day/If you're looking for trouble/The best is yet to come/I'm the beast from the East/Gordito/Enough is enough/More time making love/Why you wanna bite my bones?/Lost again/I'd rather be blind/Kiss

 
Trent’anni possono essere una vita intera o un solo battito di ciglia. Per Ted Horowitz, in arte Popa Chubby, che con It’s A Mighty Hard Road festeggia tre decenni nel music business, saranno entrambe le cose: tempo effettivo, il primo, e velocità con cui è trascorso - e per noi pure! - il secondo.
Per questo chitarrista, cantante e autore newyorkese, devoto al meticciato sonoro, alla mescolanza di razze musicali, e che ha sempre fatto del fastidio verso gli schemi una propria medaglia d’onore, il nuovo disco non sposta di molto il tiro, sebbene siano presenti alcuni episodi, Gordito e Enough Is Enough, che inclinano l’asse, l’uno verso orbite latine alla Santana, l’altro verso orizzonti reggae. L’impasto madre di Chubby resta, comunque, il blues, quello corpulento e muscolare che, sebbene sempre un po’ imbastardito con rock, funk e talvolta rap, si rivela come il suo biglietto da visita più autentico: quello completo di fotografia. Se proprio due sorprese vogliamo individuare, le possiamo trovare in quel paio di brani che ammorbidiscono un po’ la generale corpulenza del suono con virate vintage o soul (Let Love Free The Day e The Best Is Yet To Come ne sono i rispettivi esempi) o, per finire, un’originale versione del celeberrimo Kiss di Prince, qui resa inaspettatamente bluesy dall’armonica dello stesso Chubby. G.R.

SID WHELAN

"Waitin' for payday"

Presidio Rec. (USA) - 2020

Nina Simone/Love me right/Make some time/Midnight in the country/Legba ain't no devil/The promise/Waitin' for payday/Break it down


Eclettico chitarrista, cantante, autore e bandleader newyorkese, Sid Whelan ha imparato l’arte del songwriting direttamente da un gigante come Steve Earle e quella di chitarrista da un misconosciuto virtuoso, anch’egli cittadino della Big Apple, come Woody Mann.
Whelan non esita a fare di questo suo nuovo disco un melting pot di stili la cui ricetta comprende ingredienti ovvi come blues, soul e country e spezie inattese come ritmi e suoni di derivazione africana. E sono proprio le sinistre e sulfuree Legba Ain’t No Devil e The Promise, cioè gli episodi si disvelano chiaramente i trascorsi di Whelan con la musica etnica, a rivelarsi come i capitoli più interessanti di questo libello.
Ma sebbene, in Waitin’ For Payday, la chitarra di Whelan sappia farsi gustosamente virtuosa, melodicamente inventiva e tradisca talvolta ascendenze di sapore veracemente jazzistico, il disco rimane un po’ a mezz’aria e privo di una connotazione individuale chiara e organica, lasciando intravedere idee in attesa del loro pieno sviluppo. G.R.

MARK HUMMEL

"Wayback machine"

Electro-Fi Rec. (USA) - 2020

Flim flam/Hello stranger/So much trouble/Cut that out/Road dog/Play with your poodle/Breathtaking blues/Crazy about you/Pepper mama/Gillum's windy blues/Rag mama rag/Good gal/Reefer head woman/Five long years/Say you will/Mean old Frisco

 
Sebbene, a cavallo tra gli anni ‘80 e ‘90, Mark Hummel fosse uno degli esponenti più promettenti di quella rinascita armonicistica californiana, popolata da numerosi giovani musicisti bianchi che, ispirati soprattutto da George ‘Harmonica’ Smith e sull’onda del già affermato Rod Piazza, si sarebbero fatti notare da lì a poco, nel breve volgere di qualche disco, quasi sparì dalla circolazione.
Ricomparso sommessamente, in tempi recenti, come l’artefice principale dei Blues Harmonica Blowout, show-carrozzoni da lui ideati e attraverso i quali si è reinventato una vita artistica comparendo, di volta in volta, al fianco di un’armata caleidoscopica di armonicisti che, con lui dividono la scena, si è parallelamente riconquistato anche una minima ribalta discografica. Con questo nuovo disco, registrato ai Greaseland Studio di Kid Andersen (che, qui, compare anche in veste di bassista!) ripropone le sonorità anni ‘30 e ‘40 tipiche dell’etichetta d’epoca Bluebird. E basta dare uno sguardo alla lista dei brani per capire quanto i due Sonny Boy Williamson, I e II, Jazz Gillum e Tampa Red siano gli orizzonti verso i quali Hummel volge volentieri lo sguardo.
Accompagnato da un combo privo di batteria, dove compaiono Billy Flynn, Rusty Zinn e Joe Beard, riesce a ricreare un autentico feel rurale che gli amanti dell’armonica acustica e del country blues sapranno, di certo, apprezzare. G.R.

FRANK BEY

"All my dues are paid"

Nola Blue Rec. (USA) - 2020

Idle hands/One of these days/Calling all fools/It's a pleasure/All my dues are paid/He stopped loving her today/I bet I never cross your mind/Never no more/Ha ha in the daytime/If it's really got to be this way/Perfect day/One thing every day/Imagine

    
Se si scommettesse sul contenuto di questo disco basandosi sull’iniziale, eccitante rivisitazione latin-soul-funk dell’Eddie Palmieri di Idle Hands e sul conclusivo, glorioso, sorprendente rimaneggiamento, così corale e sanctified, dell’Imagine del duo Lennon-McCartney si potrebbe coltivare il fondato sospetto di avere tra le mani un disco eretto su idee brillanti. In realtà, ciò che troviamo racchiuso dal caloroso abbraccio di queste due parentesi è assai più convenzionale, sebbene illuminato a giorno dal plastico baritono del riscoperto Frank Bey che, questa volta vola in California e si affida all’esperto talento di Kid Andersen per la produzione.
Nel suo oscillare lento tra soul, country e R’n’B, All My Dues Are Paid è principalmente un disco di covers pescate in specchi d’acqua non sempre ordinari: così, insieme alle due riletture di Percy Mayfield, Never No More e Ha Ha In The Daytime, si affiancano incursioni nei regni lirici di Rick Estrin, Arthur Alexander, George Jones, nonché in quelli di giovani, piccole gemme come It’s A Pleasure e One Thing Every Day prese a prestito dalla penna di Mighty Mike Schermer. Mai, però, mi sarei aspettato di trovare il Lou Reed di Perfect Day, qui deprivato della rassegnata, commovente fragilità dell’originale versione, e ritoccato, sul finir di canzone, con un taglio vagamente gospel. G.R.

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