2022
Recensioni > Shortcuts > Anni precedenti
Shortcuts: i cd in breve...2022
Shortcuts: i cd in breve...: in questa sezione del sito, troverete le recensioni delle novità discografiche, ma in versione compressa!
JEFF DALE & THE SOUTH WOODLAWNERS
"Blood red moon"
You made your own bed/Cicero/Blood red moon/At the Wolf's door/Autumn blues/She wouldn't leave Chicago/The dirty jacks/That ain't love/Troubles know where I live/Push comes to shove/Things'll get worse
Pluridecennale esploratore del blues più osservante, tipicamente di matrice chicagoana, come più genericamente di certa roots music, Jeff Dale è quel tipo di artista che, sull’onda di Paganini, non sembra amar troppo l’esercizio della replica, tanto che ogni suo nuovo disco introduce qualche elemento di novità, sia esso lirico o musicale.
Malgrado l’assenza di dubbi sul fatto che sia, nella propria essenza, un disco squisitamente blues quest’ultimo Blood Red Moon, scritto e registrato in piena epoca di lockdown, non costituisce eccezione alla suddetta regola non scritta. Sebbene parte del repertorio si rifaccia, dunque, alla tradizione della Windy City, in primis a quella del southside, Jeff Dale si dimostra esperto navigante di più mari, introducendo occasionalmente tanto strumenti insoliti per il genere come il sitar o il violoncello di Dane Little quanto influenze lievemente jazz (Autumn Blues). Ma ciò che esercita maggior fascino in queste registrazioni è l’elemento afro introdotto nell’omonima Blood Red Moon come in Push Comes To Shove. La stregata atmosfera sciamanica e animista di questi brani e il lieve principio di ipnosi indotta dai ritmi sottesi rievocano alla memoria i Neville Brothers dell’altrettanto magica e simbolicamente lunare Yellow Moon. G.R.
JIMMY CARPENTER
"The Louisiana record"
I hear you knocking/I got loaded/Something you got/Barefootin'/All these things/Travelin' mood/Cry to me/Those lonely, lonely nights/Pouring water on a drowning man/Bring it on home to me/Rockin' at Cosimo's
Quando
musicalmente si parla di Louisiana, l’uguaglianza che scatta
spontanea e automatica nel nostro cervello è quella con le strade di
New Orleans e la loro grande tradizione. Ma, sebbene la musica e
l’influenza della Crescent City siano certamente prevalenti
nell’ambito di questo stato, portato a braccetto tra Texas e
Mississippi, la sua musica tuttavia non è soltanto tradizionale New
Orleans sound, quanto blues, soul e altro ancora.
I’innocentemente
battezzato
The
Louisiana Record,
ultimo disco del sassofonista e cantante Jimmy Carpenter, è proprio
qui per ricordarcelo: una
collezione quasi
interamente composta da
locali
standards
R&B degli anni ‘50 e ‘60 (escluso
quel Traveling
Mood
del compianto Dr. John, unico titolo degli anni ‘70!) suonati con
quel live
feel
di
cui l’intera band, che si fregia dell’importante presenza
chitarristica di Mike Zito, s’impossessa fin dal principio.
Nel
bel mezzo di un repertorio prevalentemente “paludoso”,
s’innestano alcuni brani anche estranei all’umidità tipica
dell’ambiente come Cry
To Me
o Bring
It On Home. Brani
che, comunque sia, assumono qui una connotazione sonora conforme ai
parametri ambientali del luogo. G.R.
IVOR SK
"Mississippi bound"
Mississippi bound/I don't roll/Get up/Talkin' shit again/Kiss on my blues/Sex, drugs & cigarettes/Wheelin'/Taste your lips/100 dollar bills/Tomorrow night/Down the road/Slow down/Sweet'n'low/No friend of mine/Dead pig
A dispetto del titolo non ci s’attenda d’ascoltare del tradizionale Delta blues. La bussola punta nel verso del Mississippi ma, lungo il tragitto, le tentazioni di deviare a più d’uno degli innumerevoli bivi che si incontrano per la via si son fatte evidentemente irresistibili e l’esito non è solo un suono imbastardito, ma una vera mutazione genetica di cui Dead Pig e Wheelin’ ne testimoniano la riuscita. Così Mississippi Bound è, di fatto, un’odissea roots dove il più tipico sound del Mississippi viene soltanto - e di tanto in tanto - utilizzato come uno tra gli ingredienti. Talvolta la strada porta più vicini a certo blues della Louisiana; talaltra si preferiscono cose ancor più leggere. Del resto, le premesse parlano chiaro se l’omonimo brano di apertura si rivela essere alquanto sbarazzino, intriso di ska e riscaldato dal sole spensierato dei Caraibi.
In questo che è il terzo album del cantautore australiano Ivor SK (dove ‘S’ e ‘K’ stanno per Simpson Kennedy), da poco trapiantato in quel di New Orleans, ci sono quindici canzoni che riportano alla bocca un vago sentore di Ry Cooder, quello degli albori, quello che amava inguaiarsi a suo modo con i fluidi corporei del blues, con un sapiente utilizzo di chitarre acustiche abilmente suonate slide o fingerpicking. Similmente, qui. E Sex, Drugs & Cigarettes diventa, forse, il brano più rappresentativo della filosofia di Ivor SK: rivoltare un vecchio cappotto prima di indossarlo offrendone, così, un diverso aspetto, attraverso il filtro della propria estetica. G.R.
HANK WILLIAMS JR.
"Rich white honky blues"
44 Special blues/Georgia women/My starter won't start/Take out some insurance/Rich white honky blues/Short haired woman/Fireman ring the bell/Rock me baby/I like it when it's stormy/Call me Thunderhead/Jesus, won't you come by here
Con
la frase “...I’m
a rich white honky but I know how to play the blues...”
dichiara apertamente i propri intenti Hank Williams Jr., cadetto del
ben più noto e omonimo Senior. Suonare il blues, quello down
and dirty,
è ciò che davvero dimostra di saper fare in questo disco prodotto e
governato con mano ferma dal resuscitatore di anime perse e,
talvolta, disperse, Dan Auerbach. Nelle sue mani e grazie a una band
formata da ben osservanti esponenti del verbo mississippiano come
Kenny
Brown, Eric Deaton e il batterista Kinney Kimbrough (figlio del
vecchio luminare del Delta, Junior),
Williams, viene ricondotto dritto dritto verso le proprie radici
blues. Lì, in quell’humus tumultuoso e sobbollente questo vecchio
spaccone irritante canta se stesso, spesso attraverso le mentite
spoglie del proprio inventato alter ego, il fantomatico Thunderhead
Hawkins, con quella stessa spavalderia che, talvolta molesta nei suoi
dischi country,
diventa qui oltremodo contagiosa e seducente. G.R.
ROBERT HILL & JOANNE LEDIGER
"Revelation"
John The Revelator/Run on/Soul of a man/Way down in the hole/Jesus by the riverside/Pay one way or another/Nobody's fault but mine/A devil's fool/Samson and Delilah/Precher's blues/Jesus on the mainline
Con il teso riff d’apertura della chitarra National, lungo l’intero disco elegantemente suonata slide, Robert Hill prepara quel giusto campo, cupo e argilloso di fredda terra novembrina, per la propria fiera, sinistra rilettura in chiave blues-rock di John The Revelator, antico classico inciso in origine, negli anni trenta, da Blind Willie Johnson. È però la rielaborazione di Soul Of A Man col suo ambiente sonoro severo e spettrale, fatto di percussioni e dialoghi serrati tra slide e armonica a offrire l’arrangiamento più avvincente.
In questo Revelation, che è tutto un saliscendi tra antichi traditional gospel blues e qualche inedito, seppur di analogo stile, Hill dimostra di aver tratto la primigenia ispirazione da quegli itineranti pionieri del genere di inizio Novecento, a partire da Blind Lemon Jefferson, Son House e Blind Blake in giù. Ma non inganni la presenza di una National; l’acustico della strumentazione si ferma lì. Se il canto è affidato allo strumento, intenso e diretto, di Joanne Lediger e alla figlia di Hill, Paulina, attorno al resto della band, formata dall’immancabile connubio ritmico di basso e batteria, coagula il suono predicatorio di un organo Hammond; organo che si fa pianoforte nel Chigago shuffle A Devil’s Fool e dopo, ancora, nel muscolare honky tonk Samson And Delilah. Tra gli inediti c’è ancora spazio per un secolare boogie come lo sferzante Run On e per la reinterpretazione in forma di rhumba del Tom Waits di Way Down In The Hole. G.R.
PATTY TUITE
"Hard case of the blues"
Nothin' but trouble (feat. Bobby Rush)/I just wanna play/Glad I'm through with you/Diggin' up outta this hole/I am strong enough/My silent love/It ain't over 'til it's over/Goin' out to town tonight/I want a lover/Double down/Hard case of the blues
Celata sotto il variopinto disegno di una copertina che pare voler ricordare quella di uno storico capolavoro come Layla (Derek and The Dominos), è l’altrettanto ricca e variopinta cornucopia di brani inediti partoriti dalla penna di Patty Tuite cantante, chitarrista e autrice del New England per questo suo nuovo disco, come il precedente, ancora prodotto da Paul Nelson, qui pure chitarrista.
Canzoni di cristallina arguzia la cui sofisticata finitura è spesso messa a contrasto con le radici popolari dalle quali l’intera raccolta ricava i propri più essenziali nutrimenti: honky-tonk, jazz e ripetute dosi di New Orleans blues. Oltre che nelle rimarchevoli doti di autrice, la cifra originale di Patty Tuite la ritroviamo ben esplicitata nel gusto musicale della conclusiva e omonima Hard Case Of The Blues, semiacustica ballad in minore, punto d’intersezione tra blues e influenze iberiche.
Il disco beneficia della presenza, ancorché limitata al solo brano di apertura, di Bobby Rush in veste di armonicista e di quella ben più durevole e caratterizzante del magistrale pianista Brooks Milgate. G.R.
LIL' RED & THE ROOSTER
"Keep on!"
Cool trap boogie/Whiskey sip of time/Keep on lovin' you/Love the hell right out of ya/Shakin' em up/Bootstraps break/Nobody's fault but mine/Back of the bus/American made/Little girl/Step it up
Questo è uno di quei rari dischi che ti prendono di sorpresa. Quando lo avvicini e stai per inserirlo nel lettore, lo fai quasi con un atteggiamento di disincantata sufficienza, immaginando di sapere già cosa starai per ascoltare da lì a breve; e un po’ così è, ma soltanto un po’! Keep On! è un disco nel quale gli arrangiamenti, la strumentazione e l’impiego di questa fanno la differenza sullo stile musicale che lo abita.
Lil’ Red & The Rooster, ovvero la band capitanata da Jennifer “Lil’ Red” Milligan e Pascal “The Rooster” Fouquet non inventano nulla di nuovo. Propongono un’alchimia sonora dai chiari sentori noir che loro stessi definiscono, non senza un pizzico d’ilarità, “retro modern blues sound”; ed è sufficiente il primo ascolto, per balzare sulla sedia con goduto stupore. La radice musicale di quanto proposto qui è senza dubbio il blues e la presenza di una ritmica smaccatamente chicagoana (Kenny “Beedy Eye” Smith e Felton Crew) oltre quella, come ospite, di Billy Branch - sebbene non ci sia alcuna traccia esplicita di chicagoana memoria in senso strettamente stilistico - tradiscono questo indirizzo. Tuttavia si tratta di una radice partendo dalla quale Lil’ Red & The Rooster immaginano la pianta che ne nasce, svilupparsi in una direzione fieramente orchestrale e non propriamente ortogonale a quella radice stessa. La band, grazie anche a un quasi onnipresente sax baritono suonato dal virtuoso Jean-Marc Labbé, “swinga” davvero duro e basta già l’ascolto del brano di apertura per aver chiara l’epoca lontana nella quale la band intende trasportarci. G.R.
BREEZY RODIO
"Underground blues"
Halfway in the devil's gate (feat. Anson Funderburgh)/C.H.I.C.A.G.O./Underground blues/Playing my game too (feat. Anson Funderburgh)/That damn cocaine/The murder/Lightning strike/The asymptomatics/Let me go/Gerry told me/Hello friendo/Sugar daddy/Why did you go/Bluesoned
Se un luminare del blues come il chitarrista texano Anson Funderburgh (negli anni, reinventatosi produttore) arriva non solo a scrivere parole d’apprezzamento per lo stile strumentale di questo giovane musicista, ma addirittura a produrne il disco e a comparirvi quale ospite, ciò è garanzia del fatto che possiamo avvicinarci all’opera con assoluta fiducia.
Classico esempio di cervello in fuga, come tradisce chiaramente il vero nome, Fabrizio “Breezy” Rodio nasce italiano (romano!), ma cerca e trova la propria via artistica trasvolando negli States, in quella Chicago che eleggerà a patria elettiva e che, per tramite del chitarrista Linsey Alexander della cui band farà parte per un po’, lo adotterà quale figliol prodigo. La sua nitida, netta padronanza del linguaggio chitarristico del blues della Windy City, parlato con un accento contemporaneo e assai personale, è ancora una volta evidente in questa raccolta di quattordici inediti il cui taglio lo stesso Funderburgh ha condensato nel titolo onorifico di Chicago West Side Modern Blues; il ché rende bene l’idea del loro contenuto. Detto ciò, il disco è stato registrato a Austin, Texas, e vede la partecipazione anche di Josh Fulero, qui eccezionalmente in veste di armonicista. G.R.
DERRICK PROCELL
"Hello mojo!"
Skin in the game (feat. Zac Harmon)/Hello mojo!/The contender (feat. Zac Harmon)/Broken promise/A tall glass of you/I can't say no (feat. Zac Harmon)/Color of an angel/Baby I'm lost/Who'll be the next in line/Bittersweet memory
Ad ascoltare l’introduttivo Skin In The Game - il brano più seducente e sagace insieme al successivo Who'll Be The Next In Line! - si potrebbe facilmente credere di essere piombati verticali, con Hello Mojo, dentro un moderno disco della Malaco, pregno di quei ben noti umori tipicamente southern, qui soltanto un po’ svecchiati nel suono e resi più feroci dalle fiere pennate dell’ospite Zac Harmon sulle corde di un’affilata chitarra che sa come tirare secchi fendenti all’addome.
Sebbene il resto del programma mantenga altissimi livelli di qualità, sia per quanto attiene al songwriting che agli arrangiamenti, il prosieguo dell’ascolto rende subito evidente il fatto che quel sentore iniziale, così fieramente downhome, costituiva una piccola illusione acustica. Il resto di questo disco che, in barba alla pluridecennale attività di Procell quale autore, è soltanto il suo secondo da solista dopo lo splendido esordio nel 2016 con Why I Choose To Sing The Blues, marcia più che altro in perenne dondolio tra i suoni tipici di quelle terre che stanno qualche parallelo più a nord di Jackson, Mississippi. I testi, talvolta sapientemente arguti, sono tutti frutti maturi di un triumvirato formato da Procell, Terry Abrahamson e Bob Trenchard, patron della Catfood Records, mentre i meriti musicali vanno tutti alla ricca e ben oliata house band dei The Rays con la sua pungente sezione fiati e le squillanti coriste. G.R.
MICK KOLASSA
"They call me uncle Mick!"
My pencil won't write no more/Wasted youth (feat. Bobby Rush)/Daddy's little pumpkin/Used to be (feat. Doug McLeod)/I'm so lonesome I could cry/My woman she's so mean (feat. Doug McLeod)/Woodstock (feat. Watermelon Slim)/Why/Sunny side of the street/Bless his heart/Cheese song
L’iperattivo “zio Mick” (Kolassa) pare - nella sua iperattività - un indomito giovincello incurante del tempo che scorre. Tanto che, forse proprio così ulteriormente stimolato, nel corso del 2022 ha dato alla luce ben tre nuovi dischi. Di questi, They Call Me Uncle Mick! rappresenta il suo ritorno alle radici acustiche dacché ogni tipo di amplificazione è qui bandita. E, ancora una volta, a produrre il disco è l’abituale Jeff Jensen, nelle vesti oltre che di produttore, anche di chitarrista.
Da abile autore quale è, in un contesto che vede la prevalenza di brani autografi, Kolassa si misura pur tuttavia con alcune interpretazioni dell’altrui scrittura; esempio emblematico, il metaforico doppio senso, tipicamente blues, dell’introduttiva My Pencil Won’t Write No More del vecchio Bo Carter, o l’originale rilettura di I’m So Lonesome I Could Cry dell’eterno Hank Williams. E ancora, a fianco di due canzoni rispettivamente di John Prine e della divina Joni Mitchell, svetta il Kolassa autore, spalleggiato anche da ospiti di sicuro riguardo come Bobby Rush, Doug McLeod e Watermelon Slim.
Il contesto unplugged, la voce agée, il periodo dell’anno nonché l’aspetto, fanno tanto somigliare il buon Mick a quel nonno vestito da Santa Claus che, poco lontano dal camino, narra storie divertenti e profonde a incantati nipotini. G.R.
MALAYA BLUE
"Blue credentials"
Blue Heart Rec. (USA) - 2022
Your act has worn thin/Wrong kinda love/Oh what a fool/I can't find no love/The time we had/Curious/I'm having dreams again/Good intentions, bad results/Bring me your sin/Set me free/Howlin' mercy/Messin' around
La sottile, vetrosa friabilità del soprano di Malaya Blue trova la sua migliore e più agevole collocazione laddove i brani, rallentando, tramutano in forma di suadenti ballads, concedendo alla cantante il tempo necessario per calarsi nell’ambientazione ricavando il massimo del proprio potenziale espressivo, senza protendersi verso sforzi vocali che lacerano, talvolta, ai bordi il suo strumento. Diversi sono gli esempi in questo senso: I Can’t Find No Love e The Time We Had i più evidenti. Risultati ancora più mirabili si possono apprezzare nel sinuoso funk Good Intentions, Bad Results dove la cantante ammicca sensualmente, l’ungo l’intero brano, con la chitarra di Brett Lucas, liberamente ispirata alle sferzanti "ditate" che un tempo usava osare Albert Collins.
Fruttuosa, comunque sia, la collaborazione col leggendario autore e produttore Dennis Walker, lo stesso uomo che fu dietro i primi storici successi, anche commerciali di Robert Cray, che per la seconda volta produce un disco di questa moderna vocalist, britannica d’origine e statunitense d’adozione lasciando, in buona parte delle canzoni, la propria impronta anche lirica. Disco che, per Walker, è divenuto epitaffio data la sua scomparsa poco dopo il termine delle registrazioni. G.R.
THE RON KRAEMER TRIO
"Sarasota swing"
Poquois Publishing Rec. (USA) - 2022
Junior steps/Siesta afternoon/The craw/In walked Wilbo/At the Blasè Cafè/Bo knows/Reggie no.2/Fred's bop/Gone gulfing/Hampton roads/Who's knockin'
In barba all’anno di formazione del trio (2019), la musica che si ascolta qui è un datato ma sempreverde blend di swing, blueseggiante be-bop, hard bop e lievi spolverate di latin jazz, il tutto offerto in una elegante cornice unplugged d’ordinanza. Nulla di nuovo, ma sempre estremamente piacevole da ascoltare nei suoi evidenti rimandi alla musica degli anni ‘50 e ‘60 e ad artisti come Wes Montgomery, Jimmy Smith, Kenny Burrell, Grant Green e Stanley Turrentine. Al trio formato oltre che dal chitarrista Ron Kraemer, dal contrabbassista Gregg Germony e dal batterista Michael Finley, si unisce l’hammondista e sassofonista Reggie Murray che, a dirla tutta, spadroneggia abbondantemente sui due strumenti e lungo tutto il disco guadagnando assai spesso la scena, più di quanto non faccia Kraemer stesso.
L’iniziale Junior Steps, per esempio, se col titolo strizza l’occhio all’iconico Giant Steps di John Coltrane, nella sostanza pare stringere più legami con Billie’s Bounce di Charlie Parker. Così la quasi totalità del restante repertorio, tutto rigorosamente strumentale e sempre ben ancorato ai canoni già menzionati. Unico episodio appena divergente dalla traiettoria principale è quel Bo Knows esplicita rievocazione del vecchio Bo Diddley. G.R.
GHOST HOUNDS
"You broke me"
Maple House Rec. (USA) - 2022
Baby, we're through/Smokestack lightning/You broke me/Willie Brown blues/Through being blue over you/Still you/On your trail/Lonesome graveyard/Through being blue over you (acoustic version)
È la voce di Tré Nation, spavalda e senza compromessi, a caratterizzare You Broke Me, il più blues e carico di emozioni tra tutti i dischi di questa band di Pittsburgh. Con il proprio infuso di adrenalina e fango s’è guadagnata, di diritto, lo status di open act dei concerti di ZZ Top, Bob Seger e Rolling Stones e, in questa terza pagina della propria discografia, offre una raccolta di brani che unisce tradizione a modernità, blues classico a suoni erculei.
La produzione di questo nuovo album, nella sua lucidità cristallina, lascia il giusto spazio a sporcizia e crudezza nelle atmosfere. In questo senso, l’esempio assoluto è la rilettura di Smokestack Lightning, prima cover di due, assieme all’oscura e sinistra Lonesome Graveyard del maestro Lightnin’ Hopkins, furente e selvaggia nell’intrecciarsi ringhioso di voce e chitarra. Il resto, farina del loro sacco, ripercorre strade analoghe; come il nome stesso del gruppo, mediato da quel ‘Hellhound’ che fu di Robert Johnson e delle sue sulfuree narrazioni, la racconta lunga sullo spirito ispiratore della band, ampiamente omaggiato tra queste tracce. G.R.
THE ROCK HOUSE ALL STARS
"Let it bleed revisited"
Qualified Rec. (USA) - 2022
Gimme shelter (feat. Bekka Bramlett & Jimmy Hall)/Love in vain (feat. Emil Justian)/Country honk (feat. Lee Roy Parnell)/Live with me (feat. Seth James)/Let it bleed (feat. Emil Justian & Greg Mayo)/Midnight rambler (feat. Rick Huckaby)/You got the silver (feat. Nalani Rothrock)/Monkey man (feat. Mike Ferris)/You can't always get what you want (feat. Wendy Moten & Sa Rachel)/Wild horses (feat. Luke Bulla & Lilly Hiatt)
Correva l’anno 1969. Let It Bleed fu l’album che marcò il ritorno dei Rolling Stones a quell’approccio più marcatamente blues che fu, per loro, prevalente nel periodo antecedente la pubblicazione di Aftermath. L’ispirazione dominante durante quel periodo fu, appunto, la musica roots americana, quella che coglieva ispirazione dalle generose messi di gospel, country, honky-tonk e, ovviamente, blues.
Con arrangiamenti immaginati di fresco, Let It Bleed Revisited non è altro che l’album tributo di una super band, comprendente il mastro tastierista Kevin McKendree, a un disco unico nella storia del rock’n’roll. Ogni traccia beneficia della presenza di un cantante diverso chiamato a fornire la propria personale lettura della parte che, all’epoca dei fatti, fu di Mick Jagger: Jimmy Hall, Lee Roy Parnell, Mike Ferris, Bekka Bramlett, Emil Justian, Wendy Moten sono i nomi che si alternano al canto. Il lavoro fatto è davvero mirabile e, alla tracklist, che ricalca precisamente quella del disco originale degli Stones, si aggiunge, in coda, la rilettura di un intruso: quel celeberrimo Wild Horses che, appartenne invero, a un successivo capolavoro della band britannica: Sticky Fingers. G.R.
THE REVEREND SHAWN AMOS
"Hollywood blues: songs and stories from the family tree"
Immediate Family Rec. (USA) - 2022
Sick of me/Stranger than today/Letter from Aaron Douglas to Langston Hughes/Indipendence day/Hollywood blues/Moved/Mean as you/Vicious circle (feat. Mark Olson)/Shirl-ee May - tweet, tweet/Thank you Shirlee May/The bottle always brings me down (feat. Garrison Starr)/Days of depression (feat. Blind Boys Of Alabama)/Burned (feat. Matthew Sweet)/Long time gone (feat. Julie Miller)/Getting over/Bastard wind/Everybody wants to be my friend/Little boy black
Cantante e cantautore, Shawn Amos, da qualche disco in qua “reverendo”, avrebbe ereditato almeno parte dei suoi talenti artistici dalla madre tragicamente morta, per mano propria, dopo anni di battaglie contro la depressione. Fu soltanto alla scomparsa della donna, avvenuta nel 2003, che frugando tra i suoi effetti personali, Amos scoprì il fino a lì ascoso passato della donna: una breve quanto fortunata carriera come cantante da nightclub, spesa anche al fianco di nomi illustri come quelli di Sam Cooke e Sammy Davis Jr. Carriera che la portò a registrare, col nome d’arte di Shirl-ee May, un unico disco niente meno che per la Mercury. Tutto questo ante 1967, anno in cui, poco prima della nascita del figlio, la sua vita artistica terminò.
Dai suoi esordi fino alla più recente reincarnazione come novello bluesman, Shawn Amos ha spesso insistito su una scrittura autobiografica quando non apertamente famigliare. Indipendentemente da uno stile che abbraccia un po’ tutto, Americana, pop, blues, il lavoro di Amos ha fatto presto i conti coi parenti di sangue, un'infanzia spesso difficile e la sua identità razziale.
Hollywood Blues presenta una generosa carrellata di brani a tema familiare, non tutti inediti ma talvolta ripescati da precedenti album che, come in una raccolta fotografica non necessariamente rispettosa di un ordine cronologico, rilegge le proprie radici e regala i frutti di quell’albero nato e nutrito nel corso di decenni di ‘music from the heart’. G.R.
PRAKASH SLIM
"Country blues from Nepal"
DeVille Rec. (EU) - 2022
Blues raga/Jitterbug swing/Living for the memory/Villager's blues/Moon going down/Me and the devil blues (feat. Fabrizio Poggi)/Corona blues/Crossroad blues/Poor boy (feat. Fabrizio Poggi)/You gotta move/Police dog blues/Bhariya blues/Garib keto (feat. Fabrizio Poggi)
Globalizzazione è anche questo: il blues, ben oltre i propri confini geografici e culturali più prossimi e prevedibili.
Prakash Slim è nepalese; lo tradiscono anche il titolo e i tratti somatici a contorno di un sorriso luminoso e pulito, ben evidenti sulla copertina di questo curioso esordio. Padrone di un linguaggio avvicinato per passione, nella sua musica che è tributo al country blues più osservante, non si avverte tanto quel grumo ardente di carne e sangue tipico del genere quanto una solenne, inattesa e sacra levità da anima illuminata. E anche qualche contaminazione lirica e musicale; ne sono esempi l’iniziale, esplicito Blues Raga, con sonorità che richiamano la vicina India, quanto le conclusive Bhariya Blues e Gabir Keto, esperimenti di innesto tra l’idioma nativo di Slim e la musica che fu di Blind Blake, Charlie Patton, Fred McDowell e Robert Johnson. E proprio dal repertorio di questi padri legittimi del blues che, nel bel mezzo di alcuni inediti, Prakash Slim infila le sue interpretazioni di Police Dog Blues, Moon Going Down, You Gotta Move, Crossoroad Blues e Me And The Devil. A partire proprio da quest’ultima, arriva l’armonica di Fabrizio Poggi che ritroviamo, pari pari, in altri due brani, ideale contrappeso per un più efficace equilibrio espressivo. G.R.
DYLAN TRIPLETT
"Who is he?"
Vizztone Rec. (USA) - 2022
Barnyard blues/Who is he (and what is he to you)/Brand new day...same old blues/Dance of love/Junkyard dog/I'll be there waiting/She felt too good/That's the way love is/Feels good doin' bad/All blues
Proposto come novello soulman, all’evidenza dell’ascolto, pare ben più un bluesman! Coadiuvato, in questo esordio, da nomi affermati come Christone “Kingfish” Ingram, Johnny Lee Schell, Joe Sublett e Mike Finnigan il ventiduenne cantante Dylan Triplett da St. Louis esita, sul crinale del proprio futuro, comprensibilmente dubbioso sul cosa fare davvero da grande, ma esordisce comunque con un’interessante raccolta che pare rispondere a quello che in genere è l’ultimo, temutissimo punto nell’ordine del giorno di ogni riunione di condominio: “varie ed eventuali”. Tali sono, infatti, le suggestioni stilistiche che ritroviamo in Who Is He? Ma quando si cimenta col blues, malgrado l’età e i relativi stereotipi che la vorrebbero una musica da vecchi, Triplett dà la sensazione di essere proprio a suo agio, interpretando il genere in modo convincente e incisivo.
Laddove, invece, scantona per rifuggire temporaneamente la più o meno marcata ortodossia di brani come Barnyard Blues, Brand New Day...Same Old Blues, Junkyard Dog e lanciarsi senza rete nel vuoto di generi affini, il focus vocale un po’ si smarrisce. Come esempio generale valga la rilettura dell’omonimo Who Is He?, tratta dal sempreverde songbook di Bill Withers e qui resa in veste più funk, deprivata di quella sorniona, insinuante convinzione implicita nella retorica domanda del titolo. G.R.
VERDECANE
"Piccolo romanticismo scapigliato"
Autoprodotto (ITA) - 2022
Vincenzo/Cuba Storta (feat. Fabrizio Poggi)/Mafalda/FreeDa/Fermata Baudelaire (feat. Fabrizio Poggi)/Budapest/Lasciami volare/Filosofi e teatranti/Amore amaro
Quella dei Verdecane è musica imbastardita, un mix eclettico di influenze che ha per piedistallo un solido marmo fatto di rock cantautorale dalle lievi, occasionali venature blues, sopra il quale poggia una piccola ma già compiuta scultura la cui forma lirica pare plasmata dalle mani di veraci e onesti cantastorie. Un po’ Van De Sfroos, un po’ Bandabardò; un po’ di ska, suonato con spirito zingaro e i capelli scapigliati - è il caso di dire! - dal vento di grecale.
Sul fondo dei nuovi nove brani proposti da questo quintetto riposa una natura ironica e dissacrante, uno sguardo malinconico e disincantato gettato su un’umanità varia, talvolta dolente, ma anche divertita. A contribuire alle virate blues del disco è la presenza di Fabrizio Poggi con la sua armonica in Cuba Storta e Fermata Baudelaire, quest’ultimo brano a fungere da spartiacque dai contorni più intimi, ad allentare le due ali tese di un disco che, diversamente, incalza senza sosta su ritmi andanti. G.R.
MATTY T WALL
"Live down underground"
Hipsterdumpster Rec. (AUS) - 2022
Broken heart tattoo/Slideride/Burning up burning down/Walk out the door/Scorcher/This is real/Voodoo chile/Sophia's strut/Smile
La roboante, incendiaria, spericolata chitarra del virtuoso australiano Matty T Wall è fatta per raccontare storie nervose e ad alto volume. Qui, è lo strumento che parla giacché il canto, per Matty T Wall, non è propriamente il suo mestiere. Ma considerato il profluvio di energia che lui e la sua metronomica ritmica riescono a infondere ai brani, questo è un aspetto del tutto marginale che, di buon grado, gli si abbuona.
Per uno così, niente di meglio, dunque, che una performance catturata dal vivo, imbevuta di sudore da palcoscenico per assaporare le virili incursioni strumentali, talvolta slide, qui a piene mani offerte, con il ritmo a rallentare e farsi più melodico soltanto in un paio di occasioni. Con in testa quel po’ di George Thorogood che serve e del suo conterraneo Dave Hole, in ambito blues-rock Matty T Wall ha sviluppato, comunque, una propria voce che, in questo disco, si manifesta apertamente – piaccia o meno – nella più inusuale, inattesa e meno hendrixiana possibile tra tutte le riproposizioni mai ascoltate negli anni dell’eterna Voodoo Chile. G.R.
THE GROOVE KREWE feat. NICK DANIELS III
"Run to daylight"
Sound Business Rec. (USA) - 2022
Run to daylight/That's New Orleans/Have a party/In the groove zone/Reach out/I'm gonna prove my love/Where love lies/Sweet situation/Where ya at in life/Raising cane on the bayou
Run To Daylight, inteso come il brano di apertura di questo frizzante, estemporaneo disco ben rappresenta quella sintesi tra funk, soul e blues che mirabilmente descrive tanto lo spirito che anima questa produzione quanto quel tipico groove che è vessillo caratteristico della musica di New Orleans. Così come In The Groove Zone o Raising Cane On The Bayou tanto per parlare delle tracce che, in modo evidente, appaiono legate alla più schietta tradizione della Crescent City tanto da far saltare sulla sedia al primo ascolto.
Il disco si regge sulla presenza vocale e strumentale, in qualità di bassista, di Nick Daniels III, già in forze con esimi esponenti nella tradizione locale come Neville Brothers, Zachary Richard, The Wild Magnolias, Allen Toussaint e Dumpstaphunk; nonché su The Groove Krewe, manipolo di agili e talentuosi musicisti assemblati, per l’occasione, da Rex Pearce e Dale Murray, le due menti nascoste dietro questo progetto il cui malcelato fine è la realizzazione di un moderno e originale tributo alla musica di New Orleans. Fine pienamente raggiunto grazie a una musica che, come sempre e anche qui, si manifesta in forma di gioiosa celebrazione della vita, della luce e dell’amore. G.R.
LEW JETTON & 61 SOUTH
"Deja hoodoo"
Endless Blues Rec. (USA) - 2022
Two lane road/Mexico/Waffle house woman/Homegrown tomato/Betcha/I been cheated/Move on Yvonne/Nighttime into day/Keeping me awake/Tattoo blues/Sandy Lee/Who's texting you/State line blues/Drinking again/Getting colder/Will I go to hell
A osservare la mappa degli States, la celeberrima e ripetutamente decantata Highway 61, che insiste, nel suo lungo tragitto, dal Minnesota alla Louisiana, diventa la giusta metafora geografica per il viaggio musicale nel quale ci accompagnano Lew Jetton e i suoi, non a caso battezzati, 61 South. Come facilmente immaginabile, il tragitto sonoro si concentra sulla parte più meridionale della metaforica strada.
Chitarrista efficace e dall'eloquente, incisiva cifra espressiva, Jetton si è già rivelato, coi precedenti dischi, ottimo e sagace autore; peculiarità che Deja Hoodoo conferma con la sua generosa tracklist di inediti.
In questo nuovo lavoro, nel quale ripropone anche ben tre brani tratti dal precedente Palestine Blues - a oggi il suo disco capolavoro del quale, qui potete leggerne la recensione in forma di intervista - si dimostra a suo agio tra il sudore di Chicago e le terre arse del Texas come tra boogie, riminescenze dei Creedence Clearwater Revival (Mexico), di Ray Charles (Nightime Into Day) o Jimmy Reed (Homegrown Tomato). Ad ascoltarla, pare proprio non ci possa essere bar, juke-joint, honky-tonk, café, convention, barbecue o una qualsiasi festa del sabato sera dove questa band non abbia suonato. Ben rinforzata da una massiccia dose di ospiti tra i quali spiccano l'armonicista JD Wilkes quanto Fred Hoover e Bob Lohr, quest'ultimo veterano pianista di Chuck Berry, a dividersi i compiti sui tasti, nell'intero lavoro, abbondantemente presenti. G.R.
JIM DAN DEE
"Real blues"
Autoprodotto (CAN) - 2022
The things that I used to do/Weep for me/Real blues/Two timing woman/The doctor/Two shakes of a lamb's tail/Bleed me dry/Hang'em high/T for trouble/Lost in the dark/Money don't work on the devil
Da quali note potrebbe mai muovere un album intitolato Real Blues se non da quelle di un classico del genere! Non a caso è The Things That I Used To Do di Guitar Slim che apre il disco; ma, si badi bene, questa resta l’unica cover presente in seno a una sporca dozzina scarsa di brani - undici, in realtà! - dal suono spavaldo e dalle aspre rugosità.
Il quartetto canadese dalla robusta, muscolosa identità sonora, si colloca con agio sullo stesso terreno di qualsiasi genuina live band, tutta watt, boccali di birra e rock’n’roll. E, nel bel mezzo di un programma che, del blues, restituisce le fattezze più immediate e facilmente riconoscibili, è il seducente singolo Bleed Me Dry a stazionare su quel trivio dove George Thorogood, Stones e Fabulous Thunderbirds facilmente potrebbero incontrarsi. Mentre Hang ‘Em High, The Doctor e buona parte del restante repertorio presente, ripropongono quel suono un po' oscuro di stanza tra Savoy Brown e Morphine. Canzoni di lotta, solitudine, amore e lussuria grintose quanto basta per mantenere il cuore di chi ascolta in costante pompaggio. G.R.
POPA CHUBBY
"Emotional gangster"
Dixiefrog Rec. (USA) - 2022
Tonight I'm gonna be the man/New way of walking/Equal opportunity/Hoochie coochie man/Save the best for last/Why you wanna make war/Dust my broom/I'm the dog/Doing OK/Fly away/Why you wanna make war (French version)/Master IP
Non sarà il Popa Chubby più avventuroso e inventivo quello che si ascolta in Emotional Gangster; piuttosto quello che, con nostra sorpresa, ritorna alle sue radici più squisitamente blues. L’abbondante utilizzo della slide, che in talune occasioni, evoca lontani sentori southern quando non direttamente lo spirito indomito di Duane Allman, insiste nei meandri di una tradizione che si manifesta appieno quando sorgono, come luci improvvise, le note di Dust My Broom e Hoochie Coochie Man. Al netto di questi due classici, pur riletti a modo su, il resto del programma è frutto del notorio buon estro di Chubby, la cui penna, lirica e musicale, tradisce l’influenza, fresca e viva, di autori del calibro di Willie Dixon o Chuck Berry. Come nello sferragliare con la furia di un treno merci in corsa dell’introduttiva Tonight I’m Gonna Be The Man; o in quel gioiello incastonato con l’aiuto di Jason Ricci, demonio dell’armonica, che è New Way Of Walking.
Tra pugni duri tirati nel cartongesso e rari momenti di più leggero svago (Equal Opportunity), seppur più reverente verso una certa ortodossia di suono, Chubby non smentisce la propria natura iconoclasta. G.R.
MIKE GULDIN
"Tumblin'"
Blue Heart Rec. (USA) - 2022
Tumblin'/Sad and lonely/She caught the Katy/Twisted tail/Alabama pines/Raise a ruckus/House of cards/That's all she wrote/You just can't lose/Home is where the heart is/Sweet thing/Check yourself/One percent/Key to the highway/Waterfall
Tumblin’ è il titolo di un’ambiziosa, squisita raccolta di tredici inediti e un’esile quanto ben riuscita coppia di covers che, insieme, dipingono quell’ampio orizzonte, ormai consueto e multi genere, che abbraccia blues, R'n'B, soul, rock e un pizzico di country. Immediati esempi di questo eclettismo sono Alabama Pines, fiero honky tonk condito a dosi di pedal steel guitar e Raise A Ruckus, brano a trazione fiatistica in odore di Muscle Shoals.
Il panorama musicale dell’opera è rimasto cristallizzato in diverse registrazioni tenutesi in una dozzina di studi diversi e con una pletora di ospiti tra i quali corre l’obbligo di evidenziare l’armonicista Mikey Junior, l’ubiquo mastro tastierista Kevin McKendree, il chitarrista James Pennebaker (come McKendree già membro onorario della band di Delbert McClinton) e quell’altro stregone dei tasti che è Lewis Stephens, preso in prestito dalla band di Mike Zito. Ognuno di loro, aggiunge la propria personale dose di sapide spezie al variegato contenuto del pentolone rimestato dal veterano Guldin, chitarrista e cantante. E sono proprio i due tastieristi, tanto che si manifestino in veste di pianisti o di hammondisti, a offrire i contributi più caratterizzanti e preziosi. G.R.
PETER VETESKA & BLUES TRAIN
"So far so good"
Blue Heart Rec. (USA) - 2022
Done with bad luck/I've got the blues this morning/I miss you so/My one and only muse/Young bold woman/Lovin' oven/You give me nothing but the blues/Low down dirty blues/Baby please/East Coast blues/So far so good/Can't we all get along
La novella uscita del chitarrista e cantante Peter Veteska coi suoi Blues Train, segna il ritorno a un suono più smaccatamente blues e marca qualche metro di distanza dai precedenti cinque dischi che, pur radicati nel genere, restituivano elementi di jazz e rock.
Nettamente focalizzata sul grasso hammond di Jeff Levine - sebbene, qui, soltanto in veste d'ospite - oltre che sull’affilata, nervosa chitarra dello stesso Veteska e sorretta da una ritmica che guida la carica a suon di roboanti tamburi e corpulenti bassi la band, già con l’iniziale Done With Bad Luck dà il via a una serie di blues e shuffle accattivanti. Il programma, in gran parte costituito da inediti, concede qualche divagazione con omaggi ad altri luminari del genere: a James Cotton, per esempio, con la rhumba Young Bold Woman e ancora a Guitar Slim e al suo classico You Give Me Nothing But The Blues qui riletto in forma di delizioso tête-à-tête soul-blues a trazione fiatistica, dove Veteska duetta con la voce di Jenny Barnes tentando di mettere in scena un improbabile rivisitazione della coppia Brook Benton-Dinah Washington.
Una lunga lista di ospiti completa, poi, il parterre di musici presenti tra i quali spicca Mikey Junior all’armonica. G.R.
MICHAEL RUBIN
"I'll worry if I wanna"
Many Hats Rec. (USA) - 2022
Little rabbit/Go milk your own cow/Old rodeo dreams/Kama Sutra girl/Can we break up again/I'll worry if I wanna/Beer belly baby/Chain letter blues/Fourth coast
Forse solo i più attenti consumatori del genere si saranno accorti di tal Michael Rubin da Austin (Texas), armonicista innovativo ed eclettico autore, benedetto da un’ironia e un senso del gioco unici. Così come si evincono fin dal titolo di questo suo nuovo lavoro. E se ne saranno accorti perché Rubin, che suona da oltre un trentennio è apparso, negli anni, al fianco di artisti affermati come Ruthie Foster e Cyril Neville.
Quale armonicista, ispirato da personalità spiccate come Rick Estrin, Gary Primich e James Harman, Rubin abbina alla virtuosa maestria sullo strumento e all’impiego di armoniche di ogni tipo e foggia, la sagacia caustica della scrittura di un Mose Allison. In questo disco, la maggior parte dei brani sono autografi e intrisi di umorismo, allusioni e sottili oscenità. Mirabilmente fuse, tutte le sfaccettature di Rubin si ritrovano equamente rappresentate: quella cerebrale, quella soulful e l’altra, quella giocosamente carnale, assai ben rappresentata da Go Milk Your Own Cow ma, ancor più, da Kama Sutra Girl, acuto ricettacolo di doppi sensi completato da un assolo costruito con l’impiego di dodici armoniche (una per posizione, verrebbe da pensare!). Anche musicalmente, il ventaglio stilistico che si apre dal blues e che, transitando per il country e il jazz, arriva ad arrestarsi sui confini di New Orleans è assai ben sfoggiato. G.R.
GARY CAIN
"Next stop"
Autoprodotto (CAN) - 2022
Billionaires in space/Confusion/Gatekeeper/Crazy/Keep on comin'/Kitchen sink/House on fire/Gone/Ain't up to me/A short, furious goodbye
Virtuoso della chitarra, il canadese Gary Cain si dimostra non soltanto valente cantante e autore, ma autentico cultore dell’autarchia presentandosi, in questo secondo disco, anche in veste di bassista e batterista. All’insegna del faccio tutto da me, l’istrionico one-man-band, ad eccezione di A Shot Of Furious Goodbye, solo episodio nel quale compare John Lee all’organo nelle vesti di unico corpo estraneo all’opera Cain, replicatosi in forma di power trio si fa uno e trino. I suoi assolo, suonano come una delizia ad ampio raggio per tutti gli amanti dello strumento, filo hendrixiani e non.
Esercizi per palestrati del manico, qui, ce ne sono in abbondanza ma, occorre dire, tutti concepiti con gusto inusuale, in un lavoro che contiene tanto il blues quanto ogni altro stimolo musicale al quale Cain sia stato esposto negli anni della propria formazione. Ibrido quanto basta per essere seducente al punto giusto. G.R.
PROFESSOR LOUIE AND THE CROWMATIX
"Strike up the band"
Woodstock Rec. (USA) - 2022
A thousand ways to freedom/Work it out/Fall back on me/Golden eagle/Good to be grateful/Livin' in this country/Tick tock/Chain shot cannonball/End of the show/Flaming ray
Non sembri troppo ardito l’accostamento ma, con tutte le dovute proporzioni e differenze, Professor Louie e i suoi Crowmatix sembrano essere la rivisitazione moderna e alleggerita di The Band; se non altro per come e quanto riescono a fondere generi e suoni, tra i più diversi in una amalgama seducente, ricca di suggestioni. E questa somiglianza artistica appare tanto più centrata quanto ci si rende conto che il “professore” - Aaron Hurwitz alla nascita - abbia trascorso del tempo proprio a fianco di The Band, avendone prodotto gli ultimi tre album.
Emerso, dalle popolose acque dell’oceano musicale, come il tedoforo recante in palmo di mano la fiaccola del più autentico spirito roots, non avrebbe potuto far altro che trovarsi a capo dei suoi Crowmatix, manipolo di legionari precedentemente appartenuti a Joe Jackson e Bob Dylan (Gary Burke), Rick Danko (la cantante Miss Marie che, con Louie, condivide il canto), Van Morrison (John Platania) e Levon Helm (Frank Campbell). Opportunamente affiancati, se del caso, dai Woodstock Horns, tra la policroma vegetazione sonora presente qui, emergono anche prepotenti le coloriture gospel del “professore”, risalenti a quando, in gioventù, fu organista nei The Mighty Gospel Giants Of Brooklyn. G.R.
REGINA BONELLI
"Truth hurts"
True Groove Rec. (USA) - 2022
Truth hurts/The last tear/Cross to bear/Mama raised a sweet thing/Baby don't hurt me/Mr. Big Man/Didn't I/Killing floor (radio edit)/I got to go
Truth
Hurts,
terzo album di Regina Bonelli, cantante, autrice e un po’
tasterista ci porta, a passo di marcia, nel bel mezzo di una parata
di brani, sei
inediti e tre covers,
sprizzanti blues, funk & soul. A
oggi,
per
interpretazione, arrangiamenti e testi è, tra i suoi dischi, il
più
convincente.
Accompagnata
dai True Groove All-Stars e guidata dall’accorta produzione di
Tomás Doncker e James Dellatacoma (entrambi
attori
protagonisti
nella
citata
band), la
Bonelli riesce a costruire un’opera che restituisce la
diretta autenticità
di una
trascinante
prova live.
Ci sono tracce dove tira aria di anni ’70 come The
Last Tear o
Didn’t I;
altre dove spira leggera
quella
dei più remoti anni ’50, in
cui
fiorivano
fragili, prematuri
vagiti ante soul.
In
questo interessante e artisticamente maturo percorso, colpisce dritta
allo stomaco
la
rilettura sinuosa,
sottilmente funk
del
classico di Howlin’ Wolf Killing
Floor.
Ben
lontana dalla versione che Hendrix restituì del brano, qui
tutta la veemenza vocale della
Bonelli sboccia
rigogliosa
sotto il suo pieno, magistrale
controllo,
perfettamente incastonata
nel
perimetro di una mirabile, originale orchestrazione. G.R.
ANTHONY GERACI
"Blues called my name"
Blue Heart Rec. (USA) - 2022
That old pine box/The blues called my name/About last night/Boston stomp/Corner of heartache and pain/I go Ooh/Into the night/A ain't going to ask/Wading in the vermillion/Song for planet earth
Del tema dell’amor perduto è pieno il blues. The Blues Called My Name, inteso non come album ma come brano che, a quest’album, dà il nome, non fa eccezione. “...I said the blues whispered she ain’t coming home no more/I just cried like a little bitty baby when she walked on out that door...” canta, in questo pezzo col suo tipico ed elegante crooning Sugar Ray Norcia, voce, armonica e leader dei Bluetones, band nella quale Anthony Geraci è stato a lungo membro, così come Monster Mike Welch che, nel medesimo brano, affonda decise le note della sua aguzza, affilata chitarra.
Fin dall’introduttiva Old Pine Box, arguta ode alle umane spoglie mortali, ci è chiaro che Geraci non soltanto è un consumato pianista/organista blues, ma anche un sagace autore, nel pieno possesso di quella finezza espressiva tipica dei migliori poeti del genere. Anche se non tutto è lirica in questo disco: non poche tra le tracce presenti, infatti, sono strumentali (dovessi sceglierne uno, sarebbe About Last Night con i suoi seducenti ammiccamenti latini). Tuttavia, con l’ausilio non solo dei già citati Norcia e Welch, ma anche con l’apporto della chitarra di Walter Trout, del violino di Anne Harris a dare un sentore di Big Easy in Wading Through Vermillion e la voce di Erika Van Pelt in Corner Of Heartbreak And Pain, il disco mostra, di Geraci, il profilo migliore. G.R.
BOBBY GENTILO
"Gentilo"
Blue Heart Rec. (USA) - 2022
Disease/Peace train/Tell me/Troublin'/Ghost/The greatest/The real you/Treat me so mean/Tire fire/Higher
Ad
ascoltare Gentilo,
inteso come disco, chi potrebbe dire che Gentilo, inteso come Bobby,
sia stato membro dei The Cornlickers, la band di una creatura sì
ruspante, sporca di fango e profondamente intrisa di juke-joint
come Big Jack Johnson?
Originario
di Washington, DC, ma mississippiano adottivo, questa è la sua prima
prova solista che arriva dopo anni trascorsi a fare il produttore
oltre che il musicista. E mentre, come produttore, cercava di
estrarre il meglio dal prossimo suo ecco che, negli anni, è maturato
quel sé stesso che, in queste tracce inedite, per la prima volta si
manifesta. Poco dell’eredità dell’antico mentore Johnson
ritroviamo qui; non quel sudore e quel fumo di carni sudiste cotte
sulla griglia. Piuttosto occasionali riprese di hill
country blues
mescolate con ballate soul come Tell
Me,
The
Greatest
e The
Real You.
Qui molto è anche contagiato dal Go-Go, preparazione galenica di
funk, soul e blues in dosi variabili. G.R.
YULIAN TAYLOR
"Blues friends"
Autoprodotto (ARG) - 2022
I will sing (feat. Lorenzo Thompson)/Rolling blues (feat. Carlos Johnson)/You are asleep (feat. Chryss Alynn)/Start (feat. Dexter Allen)/I'm going to get together (feat. Angie Nero)/You're free (feat. Leilani Kilgore)/I want to fly (feat. Tia Carroll)
Registrato tra Chicago, Mississippi, California e Nashville, Blues Friends, il nuovo disco del chitarrista argentino Yulian Taylor, è un album che combina le doti strumentali di Taylor con quelle di alcuni tra i più o meno noti artisti blues contemporanei, ospiti dell’operazione da cui il titolo della stessa. Tra i primi, figurano i chitarristi Carlos Johnson, Dexter Allen e la cantante Tia Carroll. Tra i secondi, la cantante canadese Anguie Nero e la giovane cantautrice nashvilliana Leilani Kilgore.
Sebbene principalmente orientato sul versante chicagoano del blues, quello che punta dritto verso il southside, il disco propone anche un paio di digressioni di vaga ispirazione hendrixiana come You Are Asleep e You’re Free oltre che strizzare d’occhio al B.B. King, quello più melodico di The Thrill Is Gone, con Start. G.R.
SCOTT ELLISON
"There's something about the night"
Liberation Hall Rec. (USA) - 2022
Half a bottle down/There's something about the night/Ain't no love in the heart of the city/Bury your bone at home/Blowin' like a hurricane/Salina/Meat and potatoes/Feast or famine/Good year for the blues/I'm ready baby/Mirror image/Chains of love/Revolutionary man/Where do you go when you leave
Dopo una separazione, può anche essere facile trascorrer bene la giornata; ma il malanimo risorge, puntuale, al calar del sole. Di questo e di altro ancora ci racconta There's Something About The Night, tredicesimo disco solista di Scott Ellison che, tematicamente tocca i diversi archetipi del blues ma, nel tradurli in parola, si mantiene, spesso, su direttrici sagaci e personali. Proprio come nella concreta saggezza di Bury Your Bone At Home.
L’aver fatto parte, nei primi anni ‘80 e seppur per breve tempo, della band dell’eclettico texano Clarence “Gatemouth” Brown ha senz’altro lasciato il segno in questo chitarrista, cantante e autore di Tulsa, Oklahoma che, nei successivi decenni da solista, ha manifestato la stessa facile propensione del suo antico mentore ad un approccio camaleontico al genere. Ellison scivola tra gli stili con la stessa agilità con la quale si può scollegare una chitarra da un amplificatore per ricollegarla, un attimo dopo, a un altro diverso. Nel farlo, però, ciò che resta pressoché immutata è la voce del suo strumeto che, assai spesso, mostra affinità timbriche ed espressive, col nervosismo inquieto di Buddy Guy o, una volta indossata la slide, con il vecchio Elmore James. G.R.
SANDY HALEY
"Feels like freedom"
Autoprodotto (USA) - 2022 - EP
Dirty dog/Feels like freedom/Love me right or cut me loose/Never sleep your way to the middle/Run for shelter
Esordisce, con la giusta cautela da neofita, puntando su un lavoro di rapida fruizione come quella di un EP, ma scommette il giusto e, sulla distanza pur contenuta di cinque brani inediti, punta e vince.
Sandy Haley, trapiantata, dall’industriale Detroit, nelle terre assolate della California meridionale, nata e cresciuta suonando il piano e cantando gospel, oggi si propone come autrice di efficace ma non superficiale leggerezza, interprete, col proprio nitore vocale, di un moderno rhythm’n’blues che, dall'esordio swingante di Dirty Dog, sospinto da un trascinante pianoforte boogie, non perde la propria essenza solare anche quando le atmosfere si fanno più soulful e intimiste (vedasi Love Me Right Or Cut Me Loose).
A ulteriore garanzia di qualità, a produrre il disco, il plurivincitore di Grammy Awards, Tony Braunagel. G.R.
KATHY MURRAY & THE KILOWATTS
"Fully charged"
Blue Heart Rec. (USA) - 2022
Expence of love/My mistake/Changing lanes/The house that Freddie built/Get ahold of yourself/Breakup breakdown/Henny penny blues/Wash away the pain/Suspicion/Hard act to follow/Animal magnetism/It hurts me too/Anyone who knows what love is/Extra nice
Nelle sue varie sfumature e diffrazioni, la luce della stella del Lone Star State brilla lungo l’intero dispiegarsi di quest’ultimo disco di Kathy Murray e i Kilowatts. Il suo strumento dal registro alto e dall’emissione colloquiale, forte di una dizione che restituisce un sentore netto di ironia e disincanto, nel suo ricordare lontanamente la conterranea Lou Ann Barton, sembra fatto su misura per raccontare sagaci storie blues.
Accompagnata da una band di veraci texani capitanata dal chitarrista Bill Jones, il cui stile strumentale non travalica mai i confini di stato, la Murray confeziona un autentico blues party di undici inediti e tre covers dove fa pieno uso di tutto uno spettro di stili di blues che, alla chiara matrice texana aggiungono, talvolta, sentori di country, swamp, zydeco, rockabilly.
Tra le riproposizioni, si ascoltino il Tampa Red di It Hurts Me Too appena intinto in una salsa tex-mex o l’omaggio alla soul queen di New Orleans, Irma Thomas, con Anyone Who Knows What Love Is. Digressioni a parte, l’anima dura del disco è fieramente texana e ottimamente rappresentata dall’iniziale doppio shuffle Expence Of Love come da quell’omaggio a Freddie King che è The House That Freddie Built. A puntellare saldamente un quarto dei brani, Kaz Kazanoff e i suoi Texas Horns. G.R.
THE LOVE LIGHT ORCHESTRA
"Leave the light on"
Nola Blue Rec. (USA) - 2022
Time is fading fast/Come on moon/Give me a break/I must confess/3 o'clock blues/After all/Tricklin' down/Open book/Leave the light on/Follow the queen
Nata come divertissement per un drappello di valenti turnisti memphisiani, ognuno dotato di ufficiale attività artistica in un suo proprio altrove, chi con The Bo-Keys, chi con St. Paul & The Broken Bones chi, da solista, come pluripremiato soul-blues vocalist e autore, The Love Light Orchestra si produce in un esercizio perfettamente riuscito, all’attrezzo della nostalgia, nella sempre ben affollata palestra della memoria.
Animati dal condivisibile desiderio di riaccendere l'entusiasmo per quel suono grandioso, giocoso e orchestrale tipico del rhythm & blues di metà secolo, John Németh e i suoi otto compagni d’armi, valicandone i confini, s’impossessano di quel territorio stilistico che fu di Junior Parker, Big Joe Turner, Bobby Bland, B.B. King (dal cui repertorio riprendono 3 O’Clock Blues) e propongono nove brani che, seppur inediti, rievocano diligentemente, e con piena proprietà di linguaggio, i dettami dell’epoca omaggiando crooners, shouters e intrattenitori vari bazzicanti la Beale Street di un tempo: quello appena antecedente la nascita del rock’n’roll.
Leave The Light On è la loro seconda uscita discografica; la prima registrata in studio. G.R.