2023 - Macallè Blues

Macallé Blues
....ask me nothing but about the blues....
Vai ai contenuti

2023

Recensioni > I dischi in evidenza > Anni precedenti


I dischi in evidenza...2023


I dischi in evidenza: in questa sezione del sito, troverete le recensioni delle più interessanti (a mio personalissimo avviso!) novità discografiche, suddivise per anno di pubblicazione!

THE HITMAN BLUES BAND

"Hey, can you guys play..."

Nerus Rec. (USA) - 2023

Hoochie coochie man/The times they are a-changin'/Sunday morning comin' down/Come on in my kitchen/John the Revelator/Good morning judge/Nobody's fault but mine/Benzedrine in Mrs. Murphy's ovaltine?/Death letter/Boom boom
                     
               
Chi, per personale perversione, amasse eccitarsi alla ricerca di nuove definizioni nelle quali incasellare bavosamente ogni forma di suono organizzato che gli si presenti all’orecchio, potrà eventualmente ricavare qualche pur modesta soddisfazione erotica dal considerare The Hitman Blues Band una formazione, per così dire e giusto per dare un’idea - “...ma che idea?...” - di modern/alternative blues, qualsiasi cosa quest’espressione pretenda significare. Con New York nelle vene, l’onesto sentimento del blues nel cuore e la musica di mille altri mondi sonori in pronta presa tra le dita, questa caleidoscopica band, capitanata dal vivace Russell “Hitman” Alexander, ha già ben dimostrato con le sue precedenti uscite di avere qualcosa di personale da dire sull’argomento.
Con l’arguto fin dal titolo Hey, Can You Guys Play… (opportunamente e autoesplicativamente sottotitolato The Hitman Blues Band Versions Of Great Songs!) propone quello che quasi si potrebbe definire un concept album. Anche la copertina, in tutto ciò, gioca un ruolo simbolico: tirato fuori lo scheletro di vecchi classici dall’armadio, ci si accorge di quanto questi “residuati” artistici, testimonianza di qualcosa che fu, abbiano ancora una propria, lucidissima, vitalità e un loro eterno senso. Così i vari Robert Johnson, Willie Dixon, Son House sembrano sfidare la Hitman BB proprio rivolgendole la domanda Hey, Can You Guys Play… sottintendendo un meno sbarazzino “...siete in grado di avvicinarvi a tutto questo?...”; domanda retorica, perché la risposta, all’ascolto è un sonoro, definitivo, yes, we can and we show ya’ll!
Questo disco è una collezione blues celebri (Hoochie Coochie Man, Nodoby’s Fault But Mine, Death Letter, Come On In My Kitchen, John The Revelator) che, qui, riacquistano gioiosamente nuova, inattesa linfa attraverso la singolare, trasfigurante rielaborazione - quando non proprio una autentica riscrittura! - operata dalla band. Nessuno potrebbe, al primo ascolto riconoscerle queste gemme, se non attraverso i soli testi: dal Muddy Waters in versione boogie, al Robert Johnson come fosse reinterpretato, con la sola chitarra acustica, da un ibrido tra George Thorogood e Jimmy Page; dal Blind Willie Johnson in stile Memphis rhythm & blues al Son House riproposto come credibilissimo rock-blues tutto suona nuovo e vero. Persino i brani di autori più oscuri come Good Morning Judge e l’arguta Who Put The Benzedrine In Mrs. Murphy’s Ovaltine, restituite qui nelle rispettive vesti di ballata country l’una e divertente ragtime l’altra. E sebbene su questi ultimi due brani l’esercizio del confronto con gli originali possa risultare più difficile considerata la loro scarsa fama, sorte analoga non è invece concessa ad altri due che blues non sono, ma celebri sì. Bob Dylan e il suo Times They Are A-Changin’ assumono sembianze funk e Sunday Morning Comin’ Down (Kris Kristofferson) una luce sinistra e desolata quasi fosse una St. James Infirmary, soltanto un po’ più arzilla.
The Hitman Blues Band con i suoi fiati suona, qui, come l’edizione impazzita dei Roomful Of Blues. E soltanto con Boom Boom si concede il lusso di rimaner fedele alla versione originale. G.R.

G & THE DOCTOR

"Dat NOLA trip"

Brutture Moderne Rec. (ITA) - 2023

Not today Satan/You should have known/Four day creep/Solid as a rock/Not anymore/Two voices/That dog/Without you/Let go and let God
                     
               
Dietro il nome G & the Doctor si celano i nostrani Gloria Turini (voce, washboard e percussioni assortite) e Riccardo Ferrini (chitarra resofonica); e il titolo di questo loro disco ne rivela, a dispetto del suo apparente enigma, le chiare intenzioni e i precisi riferimenti geografici. Dat NOLA Trip è il risultato di un loro viaggio reale, prontamente trasposto in chiave musicale; registrato a New Orleans, Louisiana (da qui quel NOLA!), l’album - pressoché unplugged! - suona proprio come una dichiarazione d’amore per la ricca e antica tradizione musicale della città, dai suoi iniziali richiami jazzistici, fino a un più moderno filone cantautorale, roots, finanche country-folk che dir si voglia (si ascolti, a tal proposito, la quasi conclusiva Without You), ma sempre immerso nell’umidità del suo genuino habitat paludoso.
Già con l’introduttiva e abbondantemente swingante Not Today Satan Gloria Turini dimostra di essersi guadagnata meritoriamente una posizione paritetica rispetto alle più classiche blues singers d’un tempo, quelle stesse simbolicamente e apertamente omaggiate, poi, con la Four Day Creep di Ida Cox, unica concessione del disco a qualcosa di non autografo. E se l’altrettanto swingante e vaudevilliana Solid As A Rock ci riporta, in un balzo, dritti dritti dalle parti di Congo Square, complice il clarino di Rosalynn Deroose, l’oscura Not Anymore richiama qualcosa di più sinistro come la magia segreta di questa città. Two Voices rallenta ancor di più il passo concedendosi a gentili virate gospel, per cedere poi la mano a una sensuale, insinuante That Dog e al suo insito ‘sexy dream’.
All’indubbia riuscita di quest’album contribuiscono alcuni musicisti “residenti” come Andy J. Forest all’armonica, Robert Snow al contrabbasso, l’adottivo neorleansiano Roberto Luti alla chitarra elettrica, oltre alla già citata Deroose al clarinetto. Ma è il corposo strumento della Turini a dimostrarsi autentica ruota motrice dell’opera. G.R.

TERESA JAMES & THE RHYTHM TRAMPS

"Rose colored glasses vol.2"

Blue Heart Rec. (USA) - 2023

I'd do it for you/Better angels/Lean on love/The idea of you/That's what I'm talking about/I don't need another reason to fall in love/Flip flop/The heart wants what it wants/Ain't nothing for certain/Just don't think about it/Brand new flame/Second chance
                     
               
Fin dalle prime note è evidente come quest’album sia qualcosa di speciale. La traccia d’apertura, I'd Do It for You, marca la linea direttrice dando evidenza non solo dell'abilità della James come cantante – cosa, peraltro, già ben nota! -, ma anche dell’estrema, corale musicalità dei suoi Rhythm Tramps. Quel misto di sfacciataggine e raffinatezza che si ritrova nella sua voce è irresistibile quanto unico. Più Bonnie Raitt che Big Mama Thornton, più Mary Wells che Etta James e più Martha Reeves che Janis Joplin, Teresa offre un blues contemporaneo mescolato perfettamente con il soul classico. Non è cosa facile, ma lei e la sua band riescono nell’impresa senza grosso sforzo.
I Rhythm Tramps, la band di lunga data di Teresa, sono un insieme di musicisti che portano un livello palpabile di dedizione alla loro arte. Come i Funk Brothers di Detroit, i Mar-Keys di Memphis o gli Swampers di Muscle Shoals, sanno quando spingere sugli strumenti come quando è tempo di rilassarsi. Invece di lanciarsi sull’ascoltatore con assalti sonori, suonano per una causa più alta: la canzone. Chitarre e tastiere lavorano insieme per creare trame musicali dinamiche, il basso si unisce alla batteria e alle percussioni creando una sezione ritmica solida come roccia; e i fiati lavorano insieme per cucinare uno spezzatino musicale senza tempo e carico di groove.
Anche se ufficialmente classificato quale espressione di Contemporary Blues dalla Recording Academy, l'album suona davvero senza tempo, basti ascoltare brani come The Idea of You, canzone che, pur avendo l'aspetto di uno standard futuro, si sarebbe trovata a suo agio persino nel bel mezzo del registro emotivo di una Billie Holiday. E, se c'è qualche giustizia a questo mondo, la traccia di apertura dell'album, I'd Do It for You, dovrebbe essere nominata almeno per un qualche Grammy quest'anno.
Prodotto da Terry e Teresa nel loro JesiLu Studio di Los Angeles, mixato e masterizzato da John Porter all'Old Brewery Studio di Malmesbury nel Regno Unito l'album, che usufruisce della presenza di Kevin McKendree al pianoforte, mantiene ancora un'inquietante atmosfera "live". G.R.

JOEL ASTLEY

"Seattle to Greaseland"

Blue Heart Rec. (USA) - 2023

Born cryin'/Candy shop/Just right/Karma wheel/Second hand kid/Takin' it with me/Hot as hell/Down to the rims/Work with what you got/Bobby's place/No brighter gold
                     
               
Eccellente nell’arte di scrivere canzoni argute dal piglio contemporaneo, cantante dal timbro naturalmente accattivante e, non da ultimo, armonicista di gusto e valore tipicamente west coast, dopo aver lavorato duro per affermarsi sulla scena musicale del Pacifico nord occidentale, Joel Astley si prepara a far proseliti con il suo album di debutto.
Raccolta di undici originali, l’opportunamente intitolato Seattle To Greaseland è stato registrato, non a caso, ai Greaseland Studios di San Jose, California, gli ormai gettonatissimi studi dell'acclamato produttore e polistrumentista Kid Andersen. Nel mix di accompagnamento figurano il chitarrista chicagoano Johnny Burgin nonché il batterista June Core e Randy Bermudes, entrambi già sezione ritmica di pluriennale presenza nella band di Charlie Musselwhite, oltre che lo stesso Andersen come chitarrista e tastierista. Le canzoni sono tutte una miscela di stili: dal paludoso swamp blues dell’introduttiva Born Cryin’ al jump di Candy Shop, dal blues più osservante fino al teatrale vaudeville di Takin’ It With Me e giù a finire col delicato gospel No Brighter Gold, miscela che crea qualcosa di unico dentro l’alveo rassicurante e contagioso del blues della costa occidentale. G.R.

JOHNNY KING & FRIENDS

"Call it confusion"

Sol Island Music Rec. (USA) - 2023

Call it confusion/Lyric fountain station/Savannah Red/Oh my captain/That's it/Racognition blues/God's own blues/Political blues/Freedom freedom/Itchin' at the root/Walking water blues/I'm a king bee (feat. Bobby Rush)
                     
               
Come tutto fuorché a sproposito suggerisce il titolo, potremmo anche chiamarla “confusione” quella che suscita l’ascolto dell’ultimo disco del chitarrista virginiano Johnny King; ma una confusione seducente e assai organizzata, sinfonica verrebbe da dire, quasi spiazzante per il cosciente e carnascialesco disegno che si intravede subito al di sotto della sua prima epidermide.
Organica raccolta di brani vecchi (pochi!) e nuovi (i più!), l’opera ammette, quale denominatore comune, la presenza di un vasto sciame di musicisti ospiti, tanto vasto da renderne ardua la completa menzione. Riassumendo almeno i principali, troviamo il veterano batterista di BB King Tony “TC” Coleman, la Dirty Dozen Brass Band, il bassista George Porter, Shannon Wickline (The Charlie Daniels Band) fino all’ottuagenario Bobby Rush, oltre che un “redivivo” Buddy Miles. In maniera non dissimile da molte altre produzioni moderne, anche questa copre un ampio spettro di musica tradizionale americana che, partendo dal blues, esplora e ingloba con voracità un’originale combinazione geografica i territori limitrofi: R’n’B, New Orleans e “roots”. Massime espressioni di questo perpetuo moto ondivago sono i due più estremi contrapposti rappresentati, da un lato, dalle ardite poliritmie di Lyric Fountain Station che, muovendo i primi passi da un torrido slow blues subisce, strada facendo, continue metamorfosi tramutandosi prima in un southern rock a-la Allman Brothers e in una salsa poi, per concludere le proprie aeree circonvoluzioni planando su un tipico brano latino degno di Carlos Santana. Dall’altro lato, il “ritorno a casa” rappresentato dalla rilettura di Slim Harpo e del suo I’m A King Bee che, in mano a Bobby Rush, trasfigura in senso palesemente Chicagoano. G.R.

MISSISSIPI MacDONALD

"Heavy state loving blues"

APM Rec. (UK) - 2023

Howlin' wolf/Heavy state loving blues/Blind leading the blind (feat. Vaneese Thomas)/Heading south/(I ain't gonna) Lie no more/I've been searching/I'll understand/Trouble doing the right thing/The devil wants repayment/Blues for Albert
                     
               
Malgrado l’Inghilterra abbia dato un contributo certamente massivo e anche stilisticamente caratterizzato alla diffusione del blues dagli anni ‘60 in qua, stupisce quasi che l’inglese MacDonald, con quel suono affilato e pericolosamente tagliente come una lastra di ghiaccio, risulti all’orecchio tanto “americano” da non tradire la sua effettiva origine. L’ascolto, infatti, lascerebbe credere d’aver d’innanzi un giovane virgulto spuntato spontaneamente, anziché sulle umide rive del Tamigi, in cima alle vegetazioni più tipiche del profondo sud degli States.
Oltre che quale fruttuoso cantante dalla granulosa, acidula torba, Mississippi MacDonald (al secolo, Oliver) si distingue per una voce strumentale che, sebbene nel tono chiaramente debitrice al “master of the Telecaster”, l’ineguagliato “iceman” Albert Collins da Leona (Texas), riesce a delineare i contorni di un blues moderno, dal ruggito delicatamente felino, talora contaminato di funk (esempio sia l’omonima Heavy State Loving Blues) e soul, ma sempre retto da arrangiamenti attenti, di granitica solidità costruttiva.
Il disco, il suo ottavo, è una collezione di otto inediti cui si aggiungono due riproposizioni: la celebre I’ve Been Searching ripresa dal sommo O.V. Wright e l’oscuro country Trouble Doing The Right Thing reso quale divagante divertimento in salsa blues. O.V. Wright riappare, schietto, seppur solo in spirito nell’inedita I’ll Understand che, senza indugio, riecheggia gli antichi fasti del Memphis sound e della Hi Records, sua creatura. Mentre un’altra regina di Memphis, Vaneese Thomas, duetta con MacDonald nell’ironica Blind Leading The Blind, The Devil Wants Repayment tinteggia con cupe tonalità bayou un disco vivacizzato, ove utile, dalla opportuna e sapiente presenza di fiati. G.R.

THE WAR & TREATY

"Lover's game"

UMG Nashville Rec. (USA) - 2023

Lover's game/Blank page/Ain't no harmin' me/Yesterday's burn/That's how love is made/The best that I have/Dumb luck/Angel/Up yonder/Have you a heart
                     
               
La copertina di questo, ammiccante fin dal titolo, Lover’s Game lascia immaginare l’opera come chiara reminiscenza degli antichi fasti del tumultuoso duo Ike & Tina (Turner). E l’ascolto dell’omonima prima traccia, subito, non consente alcun dubbio residuo su quest’ipotesi iniziale. Ma il prosieguo del disco rivela, invece, le carte di un gioco non altrettanto ovvio e scontato quanto le prime impressioni uditive farebbero intendere.  
Provenienti da individuali, secondarie esperienze musicali e dopo aver celebrato il proprio battesimo discografico con uno snello EP dall’evocativo titolo Down To The River, seguito dalla conferma rappresentata da quel meraviglioso, sorprendente saggio di mirabile sintesi stilistica intitolato Healing Tide, i due coniugi al secolo Michael (voce, tastiere e autore di testi e musiche) e Tanya Trotter (voce), oggi noti come The War & Treaty, offrono un’ulteriore conferma dei propri talenti artistici.  
Come già nei precedenti dischi, il sacro fuoco del gospel, la talora marcata matrice sanctified, Michael e Tanya li combinano magistralmente – non certo per primi, in questo, ma sempre pienamente vittoriosi - con soul e country dando vita a un ibrido che diventa creatura nuova, feconda rilettura di antiche tradizioni confluite in un’estetica attentamente curata: sartoriali tagli moderni su forme vintage, potremmo dire.            
Se il sinuoso, muscolare strumento di Tanya tradisce, coagulati attorno all’ugola, squillanti grumi della prima Aretha Franklin, la ruvida grana di Michael nasconde, tra le pieghe del proprio tessuto vocale, tanto l’aspra carnalità di Otis Redding come certe inquietudini – sebbene più domate – a là Wilson Pickett. Il disco, che offre ampi rimandi a Delaney & Bonnie, Roberta Flack & Donny Hathaway, Staple Singers, Johnny Cash si gioca, una volta ancora, su una costante, perfetta armonizzazione vocale; sul proprio felice interplay e sulla reciproca risonanza di due voci che si fanno meravigliosamente una,  realizzando una congiunzione piena e rotonda. Forse adagiato su un clima maggiormente cheto rispetto al precedente lavoro, non manca mai di toccante, genuina intensità. G.R.

BIG SHOES

"Fresh tracks"

Qualified Rec. (USA) - 2023

I got you covered/Hole in the sky/If the blues was green/You can't love me like that/Roses are blue/Permanent midnight/I've seen the light (feat. Shaun Murphy)/There ain't nothing you can do/Drunk on love/Tell me I'm wrong/That's what I get (for lovin' you)/Dreaming again
                     
    
Candidato a vincere la palma quale miglior brano di questo più che opportunamente intitolato Fresh Tracks, If The Blues Was green - e il “green” è chiaramente da intendersi quale metafora monetaria - può essere considerato come l’arguta rivisitazione tematica, in salsa two-step, di quel If Trouble Was Money, uscito dalle corde tese del vecchio Albert Collins.
Ad ascoltarli si capisce ben presto come i Big Shoes possano, in un certo qual senso, essere considerarsi l’incarnazione contemporanea dei Little Feat; e non è un caso che, tra le variegate tracce, I’Ve Seen The Light ci offra un duetto vocale proprio con Shaun Murphy, ex vocalist della citata band in una delle sue manifestazioni più recenti. Il risultato artistico del disco, pur non ambendo al rango delle più riuscite produzioni di Lowell George e primi compagni, e sebbene offra una collezione di brani piuttosto beverini, propone un cocktail blues-country-Americana sapientemente miscelato da musicisti di grande esperienza in grado di produrre mirabili arrangiamenti, di chiara concezione orchestrale, che lasciano intravedere un gran mestiere (si ascolti, su tutti, Drunk On Love) dietro la facile fruibilità del risultato. E la voce di Rick Huckaby, fine autore o coautore dei testi, ha sfumature che ricordano da vicino il compianto Glenn Frey dei furono Eagles. G.R.

DYER DAVIS

"Dog bites back"

Wild Roots Rec. (USA) - 2023

Let me love you/Walk away my blues/Water into wine/Cryin' shame/Train wreck/Lifting up my soul/Long way to go (feat. Victor Wainwright)/Wind is gonna change/Dog bites back/Angels get the blues/These walls/Don't tell my mother/AKA
 
           
Dyer Davis: altro a dire un ventitreenne cantante e chitarrista della Florida alla sua opera prima, la cui già convincente, piena rotondità di risultato rende sorprendente e quasi incredibile il doverla considerare solo l’esordio che invece è.
Svezzato, dal padre, a latte e british blues-rock d’epoca - non stupisca, quindi, l’apertura del disco con quella Let Me Love You a firma di Jeff Beck e Rod Stewart! - a dispetto dell’età e a giudicare dalla fiorita maturità di Dog Bites Back, Davis appare musicista fatto e finito. Sebbene abile chitarrista, è la sua voce a catturare l’ascolto. Creatura canora proprietaria di uno strumento rapace e multi fronte, un po’ Robert Plant, un po’ Frankie Miller e il po’ restante Chris Cornell - ascoltare, a tal proposito, l’evangelica Water Into Wine o Wind Is Gonna Change per convincersene! - si mette alla prova su un repertorio pressoché inedito e ritagliato a misura sulla sua persona, fatto di muscoli tesi, nascosti sotto lucenti tessuti anche di raffinate fattezze. Equilibrato nel suo mescolare una lirica tipicamente blues con ritmiche e sonorità più affini al rock, Dog Bites Back usufruisce della sapiente coproduzione di Billy Chapin e Stephen Dees nonché di un supporto orchestrale che annovera tra le proprie fila, oltre gli stessi Chapin e Dees, il pluripremiato Victor Wainwright (suoi, il piano e la seconda voce in quel meraviglioso esperimento transgenico tra rock e New Orleans che è Long Way To Go), il trombettista Doug Woolverton e, di tutti il meno avvezzo al genere, Mark Earley il cui sax ha frequentato con maggiore assiduità ambienti R’n’B che non questi.
La scrittura, pure, non lascia trasparire ombre o incertezze e ben si incastra, come l’ultimo pezzo di un puzzle, in quell’immagine finale che emerge e viene messa a fuoco, direi, con grande cura. G.R.
 
Torna ai contenuti