2024
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Shortcuts: i cd in breve...2024
Shortcuts: i cd in breve...: in questa sezione del sito, troverete le recensioni delle novità discografiche, ma in versione compressa!
DENNIS HERRERA
"Four"
Can you feel it/All said and done/Long time comin'/Blues and roll/Tenderness I see/Insta groove/It's all too much/Lazy!/All this time/Preskitt/Mean ole Texas shuffle (feat. Anson Funderburgh)/You stole my heart
Genuino
come solo la torta della nonna saprebbe essere, questo quarto disco
di Dennis Herrera, chitarrista e cantante di ormai rara autenticità,
è una passionale, verace raccolta di blues
songs
emersa diritta - come direbbero dalle parti della nostra Napoli - da
anema
e core.
Provocatoria
mescola di Texas, Chicago e West Coast blues, Four
è un disco senza fronzoli, come oggi se ne ascoltano più pochi, che
potrebbe facilmente inorgoglire gli antichi maestri della vecchia
scuola. Ad arricchire il già solido quartetto base, oltre a sax,
percussioni e cori, anche il basso del veterano Bill Stuve, storico
membro dei Mighty Flyers di Rod Piazza e Anson Funderburgh alla
chitarra nelle versioni remix di Mean
Ole Texas Shuffle
e You
Stole My Heart. G.R.
MICK KOLASSA
"All kinds of blues"
Thank you Memphis/Where love takes me/Did you ever wonder? (feat. Doug MacLeod)/Too old to die young/Happy endings/Amy Iodine/You bumped me again/Does your mama know?/Eating my soul/I can't sing no blues tonight/That don't mean/Somebody else's whiskey/Bad decisions/A yankee heading home
Prolifico come nessuno - ormai, ho perso il conto dei dischi che ha inciso nel volgere dei soli ultimi due anni ma, contati alla grossa, potrebbero essere anche cinque! - il cantante, autore, chitarrista e produttore Mick Kolassa torna in sala d’incisione e si ripropone per la quindicesima volta (qui, il conto è giusto...lo dicono le note di copertina!) con un nuovo lavoro. Il risultato è fedele al titolo: un caleidoscopico viaggio, un percorso olistico tra i vari stili di blues.
Prodotto dall’altrettanto fedele Jeff Jensen, come sempre anche qui chitarrista, All Kinds Of Blues suona spesso come una moderna versione dei Roomful Of Blues, al netto di quel paio di divagazioni acustiche che, strada facendo, Kolassa si concede. Saranno le chitarre portate con fierezza sugli scudi, la robusta sezione fiati di Marc Franklin e Kirk Smothers o gli arrangiamenti dalle geometriche, lineari simmetrie, ma il cd indossa un guardaroba elegante e assai curato, portato con disinvolta ironia; quella stessa che spesso ritroviamo anche nelle canzoni. Too Old To Die Young, Amy Iodine, Somebody Else’s Whiskey ne sono chiari esempi. Così come Did You Ever Wonder?, delizioso talking blues in formato rhumba e stile New Orleans scritto e interpretato a due voci col sempre accattivante Doug MacLeod. G.R.
DOUG DUFFEY & BADD
"Ain't goin' back"
Whirpool/You got what it takes/The wishing game/Rock it all night/Front porch blues/Get her out of your head/Turn it around/No mercy/Promised land/Gallus pole/Ain't goin' back
Doug Duffey e i suoi BADD sono un quartetto del nord Louisiana. Hanno allegramente riciclato, spadellato, refunkizzato e riconfezionato bluesiana, delta soul, swampadelic e bayou funk in un personale slammin’ postmoderno.
Il minimale stile pianistico di Duffey riflette tutta la tradizione del Delta; la sua scrittura ricalca la poetica più diretta e contadina tipica di queste paludose terre del sud e sfocia in un gumbo, in una mescolanza di stili che origina dalle nebbie senza tempo della tradizione locale. Malgrado un’atmosfera complessiva che annusa di session acustica, la realtà che ci si presenta è tutt’altro che unplugged. La band che, in formazione base, è formata da un classico quartetto non disdegna di allargarsi, talora, a tromba, trombone e pure armonica (proprio come nell’iniziale, eterea Whirpool e nella conclusiva Ain’t Goin’ Back). Undici brani inediti, concisi e pungenti, pregni di intelligenza e piccole verità. G.R.
GERALD McCLENDON
"Down at the juke joint"
Back where you belong/It's too late, she's gone/Down at the juke joint/House ain't a home/So long/Talkin' smack/Only time will tell/She's trying to drive me crazy/Cryin' time again/You make me happy/I'll be in your corner/You're so fine
Qui, gli amanti del blues troveranno pane per i propri avidi denti soltanto nel calmo lamento in minore di House Ain’t A Home, illuminato dalla presenza di un redivivo Maurice John Vaughn - chitarrista che qualcuno ricorderà autore di un singolare, innovativo LP negli anni ‘80 per la tutt’altro che innovativa etichetta Alligator - chicagoano proprio come McClendon. Ma non si illudano costoro perché la predominante cifra stilistica del nostro cantante non si ritrova nel blues, genere con il quale pure si misura - esempio ne sia il citato episodio - con dimessa e rassegnata eloquenza, quanto nella tradizione soul, qui ben rappresentata nelle più svariate occasioni.
Questa sporca dozzina di canzoni scritte dal celebre batterista, autore e produttore Twist Turner offre una sincera selezione di lamenti da innamorati e liquide ballate pensate apposta per serate di languidi sguardi. E su tutto, ci piace assai il ricordo del principe indiscusso di queste lente atmosfere, il magistrale O.V. Wright, rievocato dai riverberi lievemente nasali di It’s Too Late She’s Gone. G.R.
STEVE HOWELL & THE MIGHTY MEN
"99 1/2 won't do"
I'm a little mixed up/99,5/San Francisco/Don't let me be misunderstood/Talk to me, talk to me/God's gonna cut you down/Who will the next fool be?/Stone pony blues/Walk away Renee/Apache
Le
insistite atmosfere placidamente after
hours,
sottolineate da una decisa cornice unplugged
e da un approccio confidenziale al canto, fanno di questo quinto
disco di Steve Howell e dei suoi Mighty Men un ascolto ideale per le
ore chete della siesta ultima, quella campagnola e serale
dell’imbrunire, consumata in un pigro dondolio accanto al fienile.
Dall’iniziale
I’m
A Little Mixed Up,
già registrata da Betty James prima e Koko Taylor poi, dall’arguto,
antico gospel dell’omonima 99
½
di Sister Rosetta Tharpe giù per i molti strumentali (San
Francisco,
Don’t
Let Me Be Misunderstood,
Walk
Away Renee,
fino all’ammorbidita rilettura in
salsa
‘spaghetti western’ di Apache)
e attraverso l’inno santo God’s
Gonna Cut You Down
già rivisitato perfino da Nick Cave,
questo è un disco che sprigiona un lessico incredibilmente sincero e
swingante.
Ancora
una volta il texano Howell viene brillantemente coadiuvato da un tris
di partners pescati dalla limitrofa e, in qualche modo affine,
Shrevenport, Louisiana. G.R.
JAY GORDON & THE BLUES VENOM
"Live at Woodystock 2022"
Hoochie coochie man/Crossroads/I drink alone/Slow burn biker mama/Fire and brimstone boogie/Goodmorning little school girl/Green river/Suzie Q/Train train/Stranger blues
Jay Gordon & The Blues Venom: ossia, immaginarsi il blues come fosse interpretato da Lemmy Kilmister coi suoi Motorhead o da una nuova versione dei Blue Cheers. Un blues senza sconti, scagliato secco e a prezzo intero nelle orecchie di chi ascolta, da un power trio a tutto amperaggio. Questi sono, in un’estrema e fedele sintesi, i connotati musicali di Jay Gordon e dei suoi “velenosi” compagni.
Come ben si può intendere dal titolo, il disco testimonia della loro esibizione al Woodystock Blues Festival di Laughlin, Nevada, dove il caldo torrido di quello stato faceva da opportuna, coerente cornice alla pura e grezza energia sprigionata dalla band. In mezzo a qualche classico, ovviamente rivisto attraverso distorsive lenti scure da stagionati bikers, la band si ritaglia lo spazio anche per qualche verace rilettura, come per la doppietta ripescata dal songbook di John Fogerty e dei suoi Creedence CCR. G.R.
JOHN CLIFTON
"Too much to pay"
Too much to pay/It wouldn't stop raining/Long gone mama/Get lost/Every waking hour/Broke down fool/One fine chick/The problem/Swear to God I do/Bad trip
Californiano purosangue, John Clifton è un tipico ‘road dog’ che, armato di armonica e di un sottile tenore per strumento vocale, saldamente incastonato tra naso e fronte, da decenni porta a spasso il proprio blues stilisticamente ballerino, saltellante tra Chicago, la West Coast e il rockabilly dei lontani fifties.
In questo ultimo Too Much To Pay, registrato a Varsavia col supporto della sua regolare backing band locale che, malgrado i natali polacchi, dimostra di aver ben digerito e metabolizzato tutti i generi di cui sopra e suona più che mai “americana” (nel merito, si ascoltino attentamente sia la ritmica quanto chitarra e tastiere nelle mani, rispettivamente, di Piotr Bienkiewicz e Bartek Szopinski), figurano dieci piccole gemme inedite nelle quali, talvolta, l’armonica viene un po’ accantonata ma, laddove ricompare, sembra far risorgere improvviso il sole caldo del Pacifico. G.R.