2022
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I dischi in evidenza...2022
I dischi in evidenza: in questa sezione del sito, troverete le recensioni delle più interessanti (a mio personalissimo avviso!) novità discografiche, suddivise per anno di pubblicazione!
UMBERTO PORCARO
"Take me home"
Epops Rec. (ITA) - 2022
Run into my world/Out of the storm/It's my pleasure to play the blues (feat. Lurrie Bell)/Don't push me/Bring me down/Love is risin'/You was/Take me home/Cool World (feat. Anson Funderburgh)/Rollin' down below/Mountain cheese
È difficile partire dalla “provincia” per arrivare alla “metropoli”; il tragitto può rivelarsi assai tortuoso e generoso in fatto di insidie o, quantomeno, difficoltà. E, per Umberto Porcaro, talentuoso chitarrista siculo, la Sicilia dev’essere sembrata provincia profonda, quella dalla quale non sarebbe stato immediato né tanto meno scontato traversare l’oceano per raggiungere le spesso accoglienti quanto distanti coste degli States. Ma lui è riuscito nell’impresa. Dopo almeno tre decenni dedicati al blues e numerose tournée, ha saggiato entrambe le sponde di mamma America: quella più prossima all’Atlantico quanto quella affacciata sul Pacifico. Ed entrambe hanno saggiato il suo talento se, da una parte come dall’altra Billy Branch, Johnny Dollar, Kim Wilson e Junior Watson hanno ospitato e apprezzato a più riprese la sua chitarra.
A riprova di questo legame con l’America, in Take Me Home che è il suo ultimo album, compaiono quali ospiti ben due rinomati nomi del genere: uno, Lurrie Bell legato, anche grazie alla discendenza di sangue, a doppio filo con la tradizione e il sound elettrico del southside di Chicago; l’altro, Anson Funderburgh, chitarrista dalla sanguigna eleganza di pura derivazione texana. Ognuno di loro compare in quei limpidi esempi dei rispettivi stili che sono It’s My Pleasure To Play The Blues e Cool World. Ma, al netto di questi due episodi, il disco si mostra dominato da altre sonorità caratterizzanti come quella ben corposa e roboante dell’organo Hammond di Giulio Campagnolo, confinato nel ruolo di muscolare spalla e apprezzabile fin dall’iniziale Run Into My World brano in cui, la chitarra di Porcaro sembra entrare in risonanza col vecchio Otis Rush. Così, Take Me Home si dimostra essere tutto un saliscendi tra tradizione e contemporaneità, moderni blues talvolta oscuri (Rollin’ Down Below e You Was, quest’ultimo con lo strumento a evocare Albert King) talaltra venati di soul (Love Is Risin’) e occasionali ballads come Bring Me Down o Take Me Home fino ad arrivare al conclusivo strumentale Moutain Cheese condotto da un Hammond in evidente odore soul-jazz. G.R.
ANGELA STREHLI
"Ace of blues"
Antone's Rec. (USA) - 2022
Two steps from the blues/Person to person/Ace of spades/I love the life I live/You never can tell/Gambler's blues/Howlin' for my darling/Trying to live my life without you/Take out some insurance/More and more/I wouldn't mind dying/SRV
Le
scritture narrano che, al ritorno a casa del figliol prodigo, per
festeggiare l’evento, s'uccideva il maiale più grasso. Dio sa - e
gli affezionati della Strehli pure! - se questo Ace
Of Blues
non rappresenti l'equivalente di quel tanto atteso ritorno a casa; e
chissà se a lei, figlia, si riserverebbe il medesimo onore. Sarebbe
proprio il caso fosse così, e con tanto giubilo considerato che
l'ascolto del disco regala, fin dal principio, battiti ai cuori e
gioia all’udito. Per mezzo secolo la voce di questa cantante texana
ha attraversato il genere come il sangue le coronarie e, dopo quasi
vent’anni di assenza dalle scene, una nuova, inattesa uscita non
soltanto rappresenta il ritorno alla casa natia del blues, di fatto,
mai abbandonata, ma un vero e proprio omaggio al genere stesso e ai
suoi migliori interpreti e autori di sempre, quelli che l’hanno
ispirata durante l’intera sua carriera. Non solo; costituisce anche
il riapparire sulla scena di quell’etichetta discografica, la
Antone’s Records che, emanazione diretta dell’omonimo locale di
Austin di cui Angela è stata cofondatrice e animatrice, ha
rappresentato a lungo un importante riferimento per gli amanti del
genere.
Le
canzoni che formano la raccolta hanno costituito il nutrimento
primigenio, quell’essenziale latte materno senza il quale nessun
vero svezzamento potrebbe aver luogo. Sono i frutti migliori delle
penne più arzille ed efficaci di una tradizione musicale
intramontabile; anche se non tutti celebri e noti come l’iniziale
Two
Steps From The Blues,
ripreso dal Bobby “Blue” Bland degli anni migliori, dove Strehli
immerge l’eleganza maestosa della propria interpretazione vocale
nella fluidità avvolgente di un’atmosfera insinuante, elettrica e
intimamente sottopelle, quasi da speakeasy.
O ancora I
Love The Life I Live
di Willie Dixon che, nella sua rilettura, emana una propria
sfacciata, carnale sovranità; o Person
To Person,
Ace
Of Spades
del divino OV Wright al quale ironicamente Angela si permette
l’aggiunta di un verso finale inedito. Qui
tutto, anche musicalmente, emana una sovrastante regalità; persino
quel profondo Gambler’s
Blues
che fu viscerale nell’originale versione di Otis Rush e che in
queste tracce sboccia anche grazie alla chitarra di Mighty Mike
Schermer. Strehli abbraccia tutto: blues, R’n’B, soul (per
esempio la Trying
To Live My Life Without You
di Otis Clay) e perfino il gospel con la giubilante I
Wouldn’t Mind Dying
resa a maggior gloria dal coro dei Sons Of The Soul Revivers. Chiude
l’opera l’unico inedito, quel SRV
ballata fuori dal coro esplicitamente dedicata all’amico e
conterraneo Stevie Ray Vaughan. G.R.
DOUG MacLEOD
"A soul to claim"
Reference Rec. (USA) - 2022
A soul to claim/Be what you is/Money talks/Where are you?/Dodge city/Smokey nights and faded blues/Only porter at the station/Mud Island morning/Dubb's talking disappointment blues/Grease the wheel/Somewhere on a Mississippi highway/There is always love
Doug MacLeod è uno degli ultimi e più rappresentativi cantautori in blues che la scena contemporanea riesca ancora a offrire. Uno di quegli esseri a rischio di estinzione che andrebbero preservati da una qualche legge speciale a tutela della specie e dei suoi non pochi, devoti cultori. A Soul To Claim è il suo album più recente ed è anche quello nato dopo il suo trasloco da Los Angeles a Memphis; a Mud Island per essere precisi. Un banco di sabbia sul fiume Mississippi al cui scorrere, così come allo scorrere delle emozioni che ispira, MacLeod ha dedicato l’omonimo brano qui presente.
Malgrado questo disco marchi un parziale, timido ritorno ai suoi esordi elettrici (prova ne sono la presenza integrativa di un trio formato da Dave Smith al basso, Rick Steff alle tastiere e Steve Potts alla batteria in cinque dei brani che costituiscono l’opera), MacLeod mantiene comunque salda la propria prevalente anima solitaria e acustica, nonché tutto l’umorismo arguto e la profondità di visione che, da sempre, ne caratterizzano lo stile di scrittura.
Un’ulteriore svolta è rappresentata dal fatto che, qui, MacLeod racconta sempre le sue storie col suo solito modo mezzo cantato e mezzo parlato ma, questa volta, con l’aiuto di un prestigioso produttore come Jim Gaines, lo stesso di Stevie Ray Vaughan, Santana, Steve Miller, Luther Allison e persino Miles Davis.
A cominciare dall’omonima A Soul To Claim dove il diavolo, forse quello stesso di Robert Johnson al crocicchio ora fattosi autostoppista in cerca d’anime, diventa efficace metafora dei tanti demoni che albergano in noi, MacLeod ci farà sorridere (Be What You Is, Money Talks, Dubb’s Talking Disappointment Blues) e pensare (Where Are You?, Dodge City, Only Porter At The Station, Greese The Wheel). O ci farà ascoltare suggestivi paesaggi sonori dove la musica diventa voce parlante di un fiume metafora, questa volta, della vita. G.R.
YATES McKENDREE
"Buchanan Lane"
Qualified Rec. (USA) - 2022
Out crowd/Papa ain't salty/Wise/Please Mr. Doctor/Brand new neighborhood/Always a first time/Ruby Lee/No reason/Qualified/It hurts to love someone/Wine, wine, wine/No justice/Voodoo
Se
uno come John Hiatt, artista nella cui band il ventunenne e
indubitabilmente talentoso McKendree ha già
militato confessa, alla rivista Rolling Stone, con non poca fierezza
e malcelato candore “...Yates
was our secret ingredient…”,
diventa facile capire come Buchanan
Lane,
disco col
quale si celebra l’esordio
solista di Yates McKendree,
possa
rivelarsi qualcosa di speciale. Cresciuto nello studio di
registrazione del padre (il
pluripremiato Kevin, pianista, produttore e ingegnere del suono) e
all’ombra di Delbert McClinton,
circondato dall’amore per blues, jazz e generi diversamente
prossimi e da quello
stesso amore
pervaso e abbondantemente corrisposto lo Yates chitarrista, pianista,
batterista e, oggi,
anche
autore ha potuto facilmente maturare le proprie capacità musicali e
travasarle
in questo lavoro
non certo
rivoluzionario,
ma sicuramente illuminato
da luce propria.
La
collezione di tredici brani comprende inediti scritti a quattro mani
con Gary Nicholson, due frizzanti strumentali più una fila di altri
pezzi, accuratamente selezionati tra i diversi a firma di quegli eroi
del blues e del soul che, dalla più tenera età, il giovane
McKendree ha, anche solo metaforicamente, frequentato. Se la
strumentale rhumba
d’apertura Out
Crowd,
terreno
di dialogo franco
tra il piano del protagonista e l’Hammond del padre,
suona come un malcelato omaggio a quel The
In Crowd
di Ramsey Lewis (anno domini 1965!), con Brand
New Neighbourhood
si ripercorrono le strade di quel west
side jump blues che
fu di
Fletcher Smith. Ma su tutti e
tutto,
lungo
lo
svolgersi inarrestabile
di queste tracce, McKendree
dimostra sovente
la propria devozione ai due grandi maestri T-Bone Walker e B.B. King:
del primo ripropone Papa
Ain’t Salty
e la cantilenante ballata No
Reason;
del secondo, la B-side Ruby
Lee
cui aggiunge Wise, in realtà uno degli inediti presenti seppur
suonato
con
un taglio di mano che, a più riprese, ricorda The
Thrill Is Gone
del compianto maestro di Indianola.
Il
suo chitarrismo è osservante del classico nel tocco e nelle forme,
melodicamente fantasioso nel fraseggio, fresco quanto la sua vocalità
dall’ingannevole fascino acerbo. G.R.
JOHN NÈMETH
"Maybe the last time"
NoLa Blue Rec. (USA) - 2022
The last time/Rock bottom/Sooner or later/Feeling good/Stealin' watermelons/I found a love/Sexy ways/Come on in this house/Elbows on the wheel/Shake your hips/I'll be glad
Non
c’è nessuna dignità nel dolore se non quella che chi lo prova
riesce talvolta a conferirgli; tanto che nessun uomo dovrebbe mai
essere colto nel proprio momento di dolore: perché, il dolore, rende
nudi.
E
in questo schernevole titolo Maybe
The Last Time - laddove
quel “the
last time”
e pure il “maybe”
vanno intesi alla lettera! -
c’è un senso generale di laica, talvolta rabbiosa preghiera che,
quasi per il voler mettere subito tutte le carte in gioco, a partire
dall’iniziale quasi omonimo gospel, vecchio almeno quanto gli
Staple Singers, si leva verticale verso il cielo. Questo disco, nato
con il solidale aiuto di molti musicisti amici, vorrebbe essere un
tentativo di risposta a quel male innominabile recentemente
diagnosticato a Németh; quel tentativo di terapia purificatrice che,
in accordo coi dettami di certa psicologia, vorrebbe fungere da
strumento liberatorio per portar fuori, attraverso una forma
artistica e
di condivisione, quelle paure e quei timori recapitati al suo
domicilio appresso
all’esito
della diagnosi.
Oltre
Chris “The Kid” Andersen che, già partner musicale di lunga data
di Németh, ha aperto i propri Greaseland Studios per la
realizzazione di queste registrazioni, sono parte
della partita anche alcune antiche stelle di prima grandezza della
West Coast come Elvin Bishop (col suo Big Fun Trio) e Alabama Mike.
Per due giorni di fila, lo scorso maggio, tutti quanti si sono
rinchiusi tra le rassicuranti mura degli studios
di Andersen per registrare antiche gemme - oltre a The
Last Time,
per esempio quel Rock
Bottom
che fu proprio di Bishop - e alcuni inediti, durante
una grande jam
session
a ruota libera il cui risultato è confluito
in undici
coinvolgenti brani che catturano, tra le proprie note, l’urgenza
catartica dell’iniziativa.
Tra
gli inediti, non ci sono nuovi brani, ma alcune riletture di
precedenti pagine dello stesso Németh come Sooner
Or Later
ed Elbows
On The Wheel,
entrambi recuperi tratti dal premiato disco Memphis
Grease.
E, tra le covers,
oltre alle variegate riletture di Slim Harpo, Hank Ballard, J.B.
Lenoir e Junior Wells, Németh mostra tutta la sua unicità su quel
classico di Wilson Pickett che è I
Found A Love,
interpretato come riuscitissimo duetto vocale con Willy Jordan. Fino
alla chiusura del sipario con I’ll
Be Glad,
ottimistico upbeat
tra secolare Mississippi blues e vibrante gospel da
pulpito. G.R.
SON OF DAVE
"Call me king"
Goddamn Rec. (USA) - 2022
Kick your butt/Waste time with me/Call me king/Remaining days/Wild wild you/F that daily mail/I'm going monkey for your love/Someday soon/Knock off/Jump hoops
Abbandonarsi all’ascolto dell’apparentemente spocchioso - come suggerirebbero copertina e titolo - Call Me King significa concedersi il privilegio di addentrarsi furtivi nella sensuale, peccaminosa foresta sonora che Son Of Dave intesse con queste tracce. Personaggio del tutto somigliante a quello che potrebbe essere sortito da un vecchio film noir di serie B, il canadese Ben Darvill (Son Of Dave, appunto!) ha le vesti, la posa e l’atteggiamento misterioso di chi conosce la verità; quelle del talentoso ma squattrinato detective che per sbarcare il lunario, indaga su sospetti adulteri e amanti clandestini, seguendone le ombre nella notte lungo strade secondarie fino ai miserevoli atrii di hotel di periferia.
Tradotto in musica, Son Of Dave è una sorta di moderno one man band, uno che fa tutto da sè. La sua strumentazione abituale: un grosso microfono in una mano, l’armonica cromatica nell’altra e, a terra, una scatola piena di sulfuree stregonerie a pedale che attiva col tocco magico del suo sicuro calpestio. Pesta una volta e parte un suono; due, e lo spazio si riempie con un loop ritmico dal respiro armonico sul quale parla, canta e soffia forte, ma con mirabile gusto, sulle ance. Quello che lui e il produttore Alex McGowan creano qui è un mostro sonoro che odora, a un tempo, di Delta blues, della Chicago degli anni ‘50 e di quel futuro dove la tecnologia diviene uno strumento nelle mani di chi, partendo da lontano, ha qualcosa da dire ma coi verbi rigorosamente coniugati al presente. Ci si respirano Little Walter, John Lee Hooker, Ben Harper. A dispetto della strumentazione minimale, l’effetto orchestrale è talmente autentico ed efficace che, talvolta si fatica a credere che ciò che si ascolta sia soltanto il frutto di voce, armonica e congas. E, anche dal punto di vista lirico, Son Of Dave non cede mai a scontati, usurati cliché. E questa recente uscita non lascia dubbi sul fatto che, con Call Me King, Son Of Dave abbia davvero qualcosa di cui dire. G.R.
DAVE KEYES
"Rhythm blues & boogie"
Blue Heart Rec. (USA) - 2022
Shake, shake, shake/That's what the blues are for/Blues and boogie/Funny how time slips away/Ain't doing that no more/Ain't going down/WBGO boogie/Not fighting anymore/Invisible man/7 o'clock somewhere
Sebbene spesso messo in ombra dalla più tonitruante e narcisistica chitarra, il pianoforte ha giocato un ruolo fondamentale nello sviluppo di tutta la moderna musica popolare americana, blues, R’n’B, rock’n’roll e, con non pochi spunti di personalità e acutezza di visione, l’appropriatamente intitolato Rhythm Blues & Boogie è qui a dimostrarlo.
Nato col nome giusto per un pianista, il newyorkese Dave Keyes ha speso l’intera sua vita artistica nel cercare di portare sempre qualche metro più in là la metaforica torcia passatagli nelle mani da tutti i suoi più amati eroi dello strumento: Fats Domino, Dr. John, Johnny Johnson e Professor Longhair. Dopo anni trascorsi da sideman, in questo che è il suo sesto album solista, Keyes scava a fondo nelle radici della sua passione e cala nel piatto ben nove tracce da lui scritte e una cover, tutte messe ben in fila a illustrare le sue influenze musicali. Per queste sessions di registrazione tenutesi a New York e Memphis, Keyes ha anche chiamato a raccolta alcuni ospiti speciali: il leggendario batterista Bernard Purdie, l'amatissimo chitarrista e sagace cantautore Doug MacLeod e l'irascibile Popa Chubby. A loro si uniscono i membri della sua regolare band inclusa la sezione fiati formata dal sax di Chris Eminizer e la tromba di Tim Ouimette.
La cover di cui sopra, è la classica e mai troppo usurata Funny How Time Slips Away di Willie Nelson dove Keys si reinventa a sorpresa solitario crooner il cui canto s’aggrappa all’unico appiglio disponibile, il pianoforte. Per il resto, la band esplode già con l’iniziale Shake, Shake, Shake ed il seguito, con occasionali virate stile salsa e New Orleans, è tutto un trionfo di blues con ritmo e ottime canzoni. Fino all’arguta The Invisible Man, divertita ode all’età matura, interpretata a due voci con l’amico Doug MacLeod.
Con Rhythm Blues & Boogie il talentoso e dolosamente sottovalutato Dave Keys risolleva l’animo, regala sorrisi e dà, in omaggio, un generoso pieno di energia.
G.R.
THE TEXAS HORNS
"Everybody let's roll"
Blue Heart Rec. (USA) - 2022
Everybody let's roll (feat. Carolyn Wonderland & Anson Funderburgh)/Why it always gotta be this way (feat. Mike Zito)/I ain't mad with you (feat. Johnny Moeller & Matt Hubbard)/Alligator gumbo (feat. Anson Funderburgh & Michael Cross)/Die with my blues on (feat. Guy Forsyth)/I want you (She's So Heavy) (feat. Johnny Moeller)/Too far gone (feat. Jimmie Vaughan)/Watcha got to lose (feat. Carmen Bradford & Anson Funderburgh)/Apocalypso (feat. Johnny Moeller)/Prisoner in paradise (feat. Guy Forsyth)/The big lie (feat. Brannen Temple)/Ready for the blues tonight (feat. Marcia Ball)/J.B.'s rock (feat. Jimmy Vaughan & Mike Flanigin)
Prova vivente di quanto sia veritiero il vecchio adagio che recita “it all sounds better with horns”, ampiamente riconosciuti come gli ideatori di una tra le più rinomate, rispettate e ricercate sezioni fiati nell’ambito di blues, soul e roots music, con venticinque anni di considerevole attività a sostegno di innumerabili artisti e bands del settore, The Texas Horns da San Antonio, Texas (al secolo Mark "Kaz" Kazanoff sax tenore, John Mills sax baritono e flauto e Al Gomez tromba e flicorno) giungono al terzo album a proprio nome.
L’appropriatamente intitolato Everybody Let’s Roll rende da subito e letteralmente esplicite le intenzioni del trio di fiati mostrando una roadmap che è un gaudioso percorso a curve - e, dietro ogni curva, una sorpresa per l’udito - tra tredici brani di cui undici inediti. Il suo suono, una sofisticata, fluida miscela di influenze blues, soul, rock e R&B, rinvigorita dal pieno di potenza apportato dall’abbondanza di artisti ospiti a sollevare ulteriormente il fattore divertimento incluso nell’opera. The Texas Horns, invero, sono stati spesso presenti in veste di sidemen negli album di Jimmie Vaughan, Marcia Ball, Anson Funderburgh. E, proprio questi tre, in aggiunta ad altri purosangue texani come Guy Forsyth, Carolyn Wonderland, Mike Zito, Johnny Moeller, restituiscono il favore figurando, qui, quali special guests.
Tutto meravigliosamente arrangiato e interpretato, in barba a un livello generale assai alto nonché al fatto indubbio che sia ben difficile individuare nella playlist brani dominanti, il disco mostra improvvisi balzi di creatività tanto da riuscire a superarsi fino a raggiungere due ineguagliabili apici: gli arguti giochi di parole che Kazanoff instilla in quell’ode al carpe diem che è Die With My Blues On e l’ancor più sorprendete rilettura di un classico dei Beatles come I Want You (She’s So Heavy), irradiata da una travolgente, incantevole luce funk e riproposta in chiave tutta strumentale e insolitamente vintage.
Trionfo di un sapiente, ben calibrato gioco d’ensemble, anche quando il programma propone quel jump blues che sarebbe facile attendersi e che pure tra queste tracce non manca, l’ascolto offre un’esperienza che mai offre il fianco all’ovvio. G.R.
GINA SICILIA
"Unchange"
Vizztone Rec. (USA) - 2022
Healing time/Unchange/How far am I from Canaan/Death don't have no mercy/Let's set the world on fire/Make me a pallet on your floor/Valentine/Don't be afraid to be wrong/One last tender moment/There's a bright side somewhere
Arriva
lento, quest’ultimo disco di Gina Sicilia, ma arriva giù profondo.
A ogni nuovo ascolto, s’insinua sempre più l’idea che sia, non
tanto il più personale - già alcuni precedenti lo erano! - quanto
il suo disco più intimo; il suo migliore.
Sarà
l’aura di sacralità che aleggia in queste tracce, complici i
reiterati richiami gospel, così decisi e accesi
in How
Far Am I From Canaan
o
ben nascosti nel rigo musicale, disvelati dai flessuosi movimenti tra
le parti e rimarcati dal paludoso riverbero di chitarra o da quel
background
vocale sommessamente churchy
delle sorelle Ann e Regina McCrary nell’omonima, metaforica Healing
Time.
Saranno la più introspettiva e semiacustica strumentazione o la mano
di Colin Linden che, rimpiazzata la precedente assai caratterizzante
collaborazione di Gina con Cody Dickinson dei North Mississippi
Allstars, guida qui un piccolo combo funzionale
al mood
che aleggia tra le tracce e
lascia la propria impronta sonora a autoriale su ben cinque dei brani
presenti.
Questo
approccio minimale meglio contribuisce a centrare l’attenzione sul
contralto carnoso, appena affumicato della cantante, legittima
proprietaria di una delle voci che, via via hanno saputo sempre più
distinguersi nell’ambito di quel contesto musicale che,
genericamente, potremmo chiamare roots
music.
Sebbene questa sia stata la strada che Gina Sicilia ha mostrato di
intraprendere con le sue più recenti pubblicazioni, Unchange
conduce il precedentemente, accennato, cammino dritto alla meta,
senza mostrare evidenti somiglianze con - anzi, trasfigurando in
piena luce - quanto invece lasciato a maturare nella penombra prima.
Le pur note doti della Gina autrice, in questo disco pressoché
accantonate, si manifestano in un unico episodio, quel One
Last Tender Moment,
ballata a mezza via tra country
e soul;
lo stesso mix che ritroviamo, poi, in Let’s
Set The World On Fire.
Tra le riletture di traditionals
che Gina Sicilia affronta qui, troviamo anche una spettrale,
profetica Death
Don’t Have No Mercy
di Gary Davis, ulteriormente elevata a sinistro, definitivo monito
dal suono tragico e penetrante della chitarra di Linden.
Le
canzoni di Unchange
rivelano un’artista maturata lentamente che ha saputo, disco dopo
disco, mantenere fede alla propria idea primigenia, rivelandone
l’essenza senza troppo
ripetersi. G.R.
CHRIS ANTONIK
"Morningstar"
Second Half Rec. (USA) - 2022
Waves of stone (feat. Jarekus Singleton)/Pilgrim/Back to the good/Trust in me/In our home (feat. Alison Young)/The greatest of the Americans (part I)/The greatest of the Americans (part II)/Learning to love you/How to be alone/We're not alone (feat. Paul Deslauriers)/The promise of airfields/Little man/Be here now(feat. Mike Mattison)/Grace
Nella pur ancor magra discografia del blues-rocker canadese Chris Antonik, Morningstar rappresenta, a oggi, l’album più impegnativo e ambizioso. Una sorta di concept album la cui forza e potenza risiedono tanto nel fil rouge del racconto, quanto nelle suggestive atmosfere create da Antonik e dall’eminente coproduttore e già assegnatario di un Juno Award, Derek Downham. Lo si percepisce dallo stile, dagli arrangiamenti, dalla ricca e, talvolta, inusuale strumentazione: per esempio, quel basso ostinato del sintetizzatore che richiama la vertigine della stratosfera in The Greatest Of The Americans (Part I), fino ai delicati suoni di fiati che inducono l’ipnosi nel riflessivo The Promise Of Airfields.
Waves Of Stone apre l'album in forma maestosa, con Antonik e il tre volte candidato ai Blues Music Awards Jarekus Singleton, a scambiarsi riffs abrasivi, quasi a rievocare quel risentimento latente cresciuto nel gelo del distacco conseguente a una relazione in declino; esasperazione di un'anima adesso perduta e incapace di trovare una guida. Tra una lega di chitarre blues-rock, struggenti canzoni e lussureggianti paesaggi acustici, Morningstar accompagna l’ascolto attraverso un epico percorso sonoro radicato nel rock e nel blues deviando per avviluppanti e ombrose strade secondarie fatte di psichedelia, echi di Clapton, David Gilmoure, di Robbie Robertson e di cosine anni '80. Un disco avventuroso che intreccia il classico con il contemporaneo e dilata ogni idea musicale attraverso l’ampio spettro uditivo che propone. È lo stesso Antonik, che vi suona la chitarra con ferocia e passione, a chiarire lo spirito dell’opera: “Volevo fare due cose con questo disco: superare i confini del blues moderno e del blues rock e raccontare una storia sincera e universale su un'esperienza umana alla quale tutti potessero relazionarsi”. In questo senso, l’operazione appare pienamente riuscita e merita un ascolto scevro da condizionamenti. G.R.
SHAWN PITTMAN
"Hard road"
Must Have Music Rec. (USA) - 2022
Pocket dial/The house always wins/Sativa/Backsliding again/Take a real good look/Tailspin/Go down swingin'/Hard road/Maintain/Keep pushin'/That's the thing/Down in the valley
Quello che crea questo giovane e maturo artista di Dallas col suo ultimo Hard Road è un’esplosiva miscela di garage-blues dall’indiscusso potere ipnotico, buono per vibrare in sintonia coi chakra più bassi del corpo umano. La chitarra di Shawn Pittman, pur sporadicamente imbastardita dai suoni palustri e acquitrinosi della vicina Louisiana (Sativa), dalla più lontana California o, talvolta, dal più schietto boogie a-là John Lee Hooker (Backsliding Again), nella sua essenza zampilla direttamente, densa e vigorosa, dai pozzi di greggio del Texas. Vi si sentono distinti echi di Jimmy Vaughan, Mike Morgan, Smokin’ Joe Kubek, Moeller Brothers (Tailspin, Maintain, Keep Pushin’), dei Fabulous Thunderbirds (Pocket Dial), del rock’n’roll dei Blasters (Take A Real Good Look); perfino rimandi allo stile anarcoide, oltraggioso e dissonante di Hound Dog Taylor (l’omonima Hard Road), dalla cui visione musicale viene mediata, ancorché soltanto in alcuni brani, quell’atipica formazione a trio senza basso e con raddoppio di chitarra (The House Allways Wins). E l’energia che emanano le tracce bassless è talmente elevata che manco si nota la pur episodica assenza dello strumento! I tre musicisti dimostrano un’invidiabile chimica e Pittman, quando vuole, riesce a concedersi qualche sorprendente uscita fuori dai canoni rigidi delle scale blues, come nel chorus discendente del brano d’apertura.
È un album crudo, destinato a far invaghire ogni amante della rude tradizione texana, fatto di brani resi con freschezza ed entusiasmo impressionanti. Per questo disco Shawn Pittman ha portato in studio - nei Wire Studios di Austin - la sua attuale band, ossia Jason Crisp al basso e alla seconda chitarra e Mike King alla batteria. Lì, hanno registrato dozzine di brani, tutti ben pregni di live feel, dodici dei quali sono confluiti tra questi solchi - o meglio sarebbe dire, tra questo flusso di bit! - ad alta energia. Un mix di materiale nuovo e vecchio che il trio ha trasformato in proprio con sorprendente autenticità, esaltando lo scintillio di quell’atmosfera che pare trasportarti, virtualmente, in un affollato concerto in qualche famoso locale della zona, per dire il vecchio Antone's. G.R.
DR. JOHN
"Things happen that way"
Rounder Rec. (USA) - 2022
Funny how time slips away/Ramblin' man/Gimme that old time religion (feat. Willie Nelson)/I walked on guilded splinters/I'm so lonesome I could cry/End of the line (feat. Aaron Neville)/Holy water/Sleeping dogs best left alone/Give myself a good talkin' to/Guess things happen that way
Leggenda nata tra i viottoli di una New Orleans intrisa di jazz e ogni altra forma di musica popolare americana, Dr. John, noto anche come The Night Tripper, voce tra le più originali, distintive e influenti dell’universo sonoro d’oltreoceano, partendo dalla tradizione della sua città s’è da sempre fatto egli stesso ricettacolo di generi restituendoli al mondo, impreziositi dal passaggio attraverso il fine setaccio della sua singolare sensibilità. E nel proprio essere permeabile ai suoni tutti, Dr. John non ha mai negato, men che mai nei fatti, nemmeno il proprio amore per la musica gospel. Dunque è un piacere ascoltare il repertorio qui proposto marciare, metaforicamente e alla maniera del “dottore”, con passo solenne verso la chiesa come una giovane sposa di bianco velata. Piacere inedito perché, per la prima volta, il taglio gospel non è occasionale ma rappresentato in modo organico nell’intera raccolta.
Things Happen That Way parte proprio da quel celeberrimo Funny How Time Slips Away scritto da Willie Nelson che, muovendo lentamente dalle note di un piano che ricorda i modi sornioni del vecchio Roosevelt Sykes trasfigura, avvolto da un tulle d’organo, in inno sacro. L’album, che esce postumo e a distanza di tre anni dalla morte di Dr. John, è la dimostrazione di come, nel 2019, il pianista stesse placidamente coccolando l’idea di progetti futuri. Things Happen That Way include tre composizioni inedite tra le quali una rilettura di I Walked On Guilded Splinters, suo antico classico del 1968, oltre che reinvenzioni di brani di Cowboy Jack Clement, Hank Williams e Traveling Wilburys a provare, casomai fosse servito, il profondo legame della secolare musica country con quella più tipicamente prossima al pulpito.
Ad aggiungere tinte forti a questo ritratto ultimo del “dottore”, alcuni amici di vecchia data: oltre al già menzionato Nelson, che duetta con John su Gimme That Old Time Religion, mi piace ricordare un magistrale Aaron Neville che interviene a rendere unica End Of The Line. G.R.
IAN SIEGAL
"Stone by stone"
Grow Vision Rec. (USA) - 2022
Working on a building (feat. Jimmie Wood & J.J. Holiday)/Hand in hand (feat. Shemekia Copeland)/The fear/I'm the shit/Psycho/K.K.'s blues (feat. Jimbo Mathus)/Gathering deep (feat. Jimbo Mathus)/This heart/Monday saw/Holler/Onwards and upwards
La fascinazione prima verso questo disco, non deriva tanto dalla conoscenza del proprio autore, che è pure rinomato e verace bluesman, quanto dal suo titolo. Stone By Stone, pietra dopo pietra, richiama l’idea di un fiacco lavorio. La costruzione di qualcosa che, proprio perché faticoso e lento nel crescere, racchiude in sè il senso della sua stessa importanza; qualcosa che ha fondamenta profonde e ben radicate. Come la musica, semplice, solida e diretta che Siegal ha inciso qui.
Attenzione però: chi si aspetta un disco di blues, magari sporco e cattivo come quello al quale ci ha abituati fin dai suoi esordi Siegal, volga il proprio sguardo su diversi orizzonti oppure si accontenti della vagamente rievocativa di Lightnin’ Hopkins Holler o poco più. Qui, c’è piuttosto dell’altro; ma non mi andava di passare sotto silenzio un disco così bello, nella sua disarmante semplicità, sebbene poco incline al rispetto delle forme più tipiche della musica afroamericana. Dopo l’apertura sgangherata di Working On A Building il cui ascolto ci offre l’immediata illusione di essere scivolati in un estemporaneo juke joint nel quale l’armonica di Jimmy Wood racconta tutto quello che c’è da sapere sul blues, in Stone By Stone c’è un Siegal che, con sorpresa e in compagnia di Shemekia Copeland, si concede a una prima divagazione gospel (Hand In Hand) per virare presto nella direzione di un universo cantautorale che sa molto di catrame e del primissimo Tom Waits. Ballate oscure, personaggi ai margini, racconti di esistenze perdute o disperse tra le molteplici, accidentate tortuosità della vita.
Canzoni memorabili, nella loro brusca immediatezza, fin dai primi versi come I’m The Shit (“...in the stairwell of a Santa Cruz motel/sits a man on the landing fast asleep/in a pile of skittles and piss/now kids dig this/there’s some shit going on…”) con la sua aura downhome frammista a una vena di nero sarcasmo. O la delicata ballata K.K.’s Blues come l’oscura e intensa Gathering Deep, entrambe illuminate dalla presenza di Jimbo Mathus. Attraverso This Heart, Monday Saw, Onwards And Upwards non c’è un solo brano che non sappia sedurre. Fino alla complessità macabra di Psycho, una delle canzoni più poeticamente inquietanti di sempre; scritta e incisa da Leon Payne negli anni ‘60 e qui ripescata dalle profondità dell’oblio nel quale era andata dispersa, beneficia di una rilettura che esalta l’inconcepibile ed estrema naturalezza di sinistri accadimenti raccontati così come visti attraverso gli occhi di uno psicopatico lasciato libero di agire.
Siegal, l’artigiano dalla voce logora come vetro venato, ha creato un disco crudo e scarno che suona come il suo più personale e che ha tutti i numeri per ambire al rango di “masterpiece”. G.R.
VANEESE THOMAS
"Fight the good fight"
Blue Heart Rec. (USA) - 2022
Raise the alarm/Same blood same bone/Rosalee/I'm movin' on/Time to go home/When I've had a few/Bad man/Blue/'Till I see you again/He's a winner/Fight the good fight/Lost in the wilderness
Da
Vanesee Thomas, tra tutti i figli del mitologico Rufus la minore per
età e notorietà, non ci si aspetterebbe niente di meno che il
mantener alto l’onore artistico di una delle più rinomate famiglie
musicali di Memphis. Quello che, diversamente, potrebbe essere meno
ovvio da prevedere è il modo magistrale con cui, in
questa nuova pagina della sua discografia,
fonde generi apparentemente compositi,
dando vita ad un insieme filologicamente lineare e coeso. La solida
educazione di base al soul e al R'n'B rimane centrale nel definire
l’identità canora della Thomas; tuttavia, in questo nono disco, ad
essa si unisce il convinto, inclusivo
abbraccio della cantante rivolto
verso sonorità, comunque tipicamente americane, che incorporano voci
strumentali differenti come quelle di banjo, violino, accordion
o pedal
steel guitar.
Lontana
dalla ruvida e ruspante veracità funk che fu del padre, il suo sodo,
corposo timbro bruno dalle episodiche virate verso limpidezze
inattese, l’estensione della sua voce che, a sorpresa, in Time
To Go Home
si abbandona a slanci
verticali sorprendenti e quel suo registro che, in talune
canzoni,
si fa profetico trovano più di qualche affinità con la figura di
Mavis Staples. Le tematiche sociali o di personale redenzione
affrontate in diversi episodi del disco, poi, rafforzano
ulteriormente quest’idea: il razzismo di Raise
The Alarm,
le storie di ragazze ribelli come quella narrata, in una forma
campestre e tutta downhome
in Rosalee,
il
racconto del personale smarrimento nel precipizio dell’anima di
When
I’ve Had A Few,
tra
le pagine più bluesy
dell’intera raccolta;
o
ancora le due figure maschili così contrastanti e tratteggiate a
tinte forti in Bad
Man,
altro
episodio in cui l’idioma blues più emerge,
e He’s
A Winner.
Mentre
il fitto mistero che aleggia in Blue
offre il senso della catastrofe esistenziale, il corale vocale di
‘Till
I See You Again
rimanda a Broadway; non sorprende, poi, lo scivolare verso il gospel
in I’m
Movin’ On
e nella conclusiva Lost
In The Wilderness.
Nel
suo rappresentare un vero tour
de force
lirico per la Thomas che, di Fight
The Good Fight,
è autrice o coautrice di tutti i dodici brani, il disco vede il
supporto musicale di una numerosa e rinomata schiera di musicisti di
prevalente estrazione memphisiana tra i quali citiamo Scott
Sharrad, già
chitarrista e direttore
musicale della
Gregg Allman Band,
gli
ormai rinnovati
Memphis Horns
Marc Franklin (tromba) e Kirk Smothers (sassofono) puntellati
dalla presenza aggiuntiva di Lannie McMillan,
il batterista Shawn Pelton.
Malgrado
le tematiche qui affrontate, il disco non assume mai i toni afflitti
dell’autocommiserazione. Suona, piuttosto, come una chiamata a
raccolta per tutti coloro che, feriti dalla vita, necessitano di
curare sé stessi per tornare in campo a combattere la “giusta
battaglia”. G.R.
MATT LOMEO
"When you call"
Autoprodotto (USA) - 2022
One more 1&1/Unsentimental you/Accepting applications/She was the best/When you call/Got a new woman/27/Take the boulevard/Outside of a song/Why do I cry?/Van Nuys blues/Took my bar and left me/When you call (reprise)
Un alabastrino soul singer con l’attitudine di un armonicista blues; così potremmo definire il giovane Matt Lomeo.
Chi ama suddividere ordinatamente la propria collezione di dischi per generi, avrà un gran bel daffare a trovare la giusta collocazione per questo When You Call, esordio intrigante e carico di promesse di questo nativo newyorkese dalle ascendenze verosimilmente italiane. Cantante, autore e inventivo armonicista, trasferitosi sulla costa ovest, a Los Angeles, non ha avuto difficoltà ad attirare in breve tempo l’attenzione del bassista e già candidato ai Grammy Awards Terry Wilson che, pronti via, ha prodotto il disco. In When You Call ritroviamo una giusta dose di swingante blues anche se, come correttamente ci si aspetterebbe date le premesse, il disco è, nella sua interezza e a ben vedere, un viaggio esplorativo e diversificato intorno al vario mondo dei generi: country, Americana, Motown soul, R&B, Philly sound, più le occasionali incursioni in quelle atmosfere da entertainer tipicamente affini al classico songbook americano.
Si ascoltino l’iniziale One More 1&1 rievocare, in una cornice di sonorità Stax, il più caratteristico Robert Cray il cui stile viene, poi, nuovamente ricordato dall’omonima, funkeggiante When You Call; l’ibrido pop-soul Accepting Applications e la ballata country-soul She Was The Best. O, ancora, Got A New Woman quasi rubata dalle mani di Ray Charles, Take The Boulevard idealmente sottratta all’ugola del Bobby Bland più notturno e blueseggiante, Unsentimental You e Why Do I Cry? che facilmente avrebbero potuto essere parte del repertorio dei The Drifters.
Non c’è un brano che non funzioni qui! La voce, alta e sottilmente nasale, di Lomeo ben si adatta ai vari contesti, ma sono l’arguto songwriting e l’agile armonica, i cui riferimenti più ovvi si possono trovare in George ‘Harmonica’ Smith e Rick Estrin, a giocare nel ruolo di primi attori. La spesso concisa eloquenza del suo soffio nello strumento insegue, con efficaci voli di fantasia, le linee di un sassofono; i suoi assolo hanno il dono di saper riportare qualunque brano tra i confini, sebbene allargati, del blues.
A completare il lavoro di un’opera prima riuscita, i contributi di noti e rispettati sidemen: Teresa James, il chitarrista Billy Watts, l’ex batterista di J.J. Cale James Cruce e il maestro dell’Hammond Kevin McKendree. G.R.
ANN PEEBLES & THE HI RHYTHM SECTION
"Live in Memphis"
Memphis International Rec. (USA) - 2022
If I can't see you/Part time love/Didn't we do it/I feel like breaking up somebody's home/I'm gonna tear your playhouse down/I didn't take your man/(You keep me) Hangin' on/Let your love light shine/I can't stand the rain
La figura minuta, quasi dimessa di questa cantante, interprete di alcuni tra i maggiori e più influenti classici del Memphis soul, sembra fare il paio con il suo faticoso emergere dall’angolo più sommerso del genere: mai definitivo e sempre un po’ a filo d’acqua, parzialmente sepolto sotto l’impeto delle onde circostanti, numerose e spesso, più di lei, alte e sovrastanti.
La sua sottile figura fisica, apparentemente modesta e gracile, contrasta però, con le lievi ma corpose zampate vocali, dense di umori sanctified (figlia di un predicatore battista e il suo canto libero si allenò, ben presto, nella palestra della black church). Il suo timbro, leggermente scurito come esposto ai fumi del legno di faggio, è stato buon interprete degli umori tipici della più tormentata tradizione soul e ben rappresentata qui dalla triade che ripropone il classico tema del “cheatin’ in the next door”; un tradimento, talvolta presunto altre volte reale, che trova nella sequenza fotografica di Feel Like Breaking Up Somebody’s Home, I’m Gonna Tear Your Playhouse Down e I Didn’t Take Your Man, la sua massima espressione. In questo disco, tutto viene riletto secondo la più osservante sensibilità memphisiana con l’orecchio e il cuore decisamente rivolti ai canoni estetici della Hi Records. Incluso quell’oscuro Part Time Love, un tempo lento soul-blues scaturito dalla penna di Clay Hammond e reso celebre dall’abrasiva, minacciosa vocalità di Johnny Taylor che viene riproposto in odore di funk così come inciso, in origine, dalla stessa Peebles nel suo disco d’esordio.
L’importanza di Live In Memphis, registrato in occasione di An Evening Of Classic Soul il 7 febbraio 1992 al Peabody Hotel di Memphis in apertura al concerto del leggendario Otis Clay, risiede tutta nel fatto che è il primo e unico documento dal vivo che vede affiancati la Peebles con la celeberrima Hi Rhythm Section ossia il bassista Leroy Hodge, Charles Hodges (tastiere), Howard Grimes (batteria) e il chitarrista Thomas Bingham, oltre ai coristi David J. Hudson e Tina Crawford e la sezione fiati di John Sangster (sassofono) Anthony Royal (tromba) e Dennis Bates (trombone). Malgrado una qualità d’incisione non particolarmente eccelsa, oltre a questa accoppiata inedita sul palco, è la forma vocale della cantante a rendere il disco unico.
Non fosse stato per il successo di I Can’t Stand The Rain, divenuto mondiale grazie alla rilettura popolare di Tina Turner, Ann Peebles sarebbe rimasta privilegio di pochi cultori del genere. Un vero peccato fosse mai accaduto, come ben fanno capire queste brevi tracce. G.R.
EMMA WILSON
"Wish her well"
Autoprodotto (UK) - 2022
Wish her well/Mary Lou/Little love bite/Rack 'em up/Blossom like snow/She isn't you/Not paying/Nuthin I won't do/Back on the road/Then I'm gone
In questo CD d’esordio - primo long playing dopo un promettente anticipo con due EP - l’eclettico e ombreggiato strumento dell’inglese Emma Wilson trova la propria naturale collocazione in una cornice stilistica nella quale convivono, avvolte da un frizzante e moderno microclima crossover fatto di mescolanze jazz, northern soul e rock condite in salsa britannica, influenze derivate da Meters, Irma Thomas, Ann Peebles, Mavis Staples. O anche emergenti dall’acquitrino del blues più palustre e nebbioso, per esempio quello dell’introduttiva Wish Her Well che un po’ ricorda, con le debite proporzioni, certe antiche pagine di Robert Johnson come rilette, un tempo, da Cassandra Wilson.
Che questa raccolta di pregevoli inediti benefici di influssi musicali i più vari è anche conseguenza del fatto che la Wilson si è avvalsa di musicisti di estrazione non propriamente ortodossa: Adam Chetwood, già chitarrista con Imelda May e Mark Ronson; Mark Neary, bassista di Noel Gallagher e Mat Hector, batterista che fu di Iggy Pop. Nel breve giro dei due anni pandemici, la cantante ha messo a frutto il suo vibrante ma educato contralto con esercizi vocali a corpo libero che sfiorano finanche i ritmi di New Orleans come nel scivoloso funk Nuthin’ I Won’t Do, o pop come in Mary Lou e Little Love Bite. Altri brani, invece, si ritagliano il proprio spazio approssimativamente attorno alla sagoma di Robert Cray (She Isn’t You e Then I’m Gone).
Fedele a una qual certa tradizione, l’album è stato registrato in presa diretta, creando quell’ottima amalgama di suoni nella quale la voce della Wilson si cala sempre con ginnica fluidità. G.R.
DELBERT McCLINTON
"Outdated emotion"
Hot Shot Rec. (USA) - 2022
Stagger Lee/Settin' the woods on fire/The sun is shining/One scotch, one burbon, one beer/Long tall Sally/Two-step too/I want a little girl/Ain't that lovin' you baby/Jambalaya/Connecticut blues/I ain't got you/Move it on over/Hard hearted Hannah/Sweet talkin' man/Money honey/Call me a cab
Ci vuole tempo per diventare giovani. Ancor di più, per restar tali. E chi, come Delbert McClinton riesce a farlo, se non altro nella testa, nelle abilità e nella lucidità di quello sguardo che sa ancora scrutare le prospettive di un orizzonte noto ma anche nuovo, merita tutta la nostra ammirazione e il nostro interesse.
In questo senso, non mi sorprende il fatto che, ancora una volta una delle uscite discografiche più allettanti e piacevoli del momento arrivi da un giovane - sì - ma d’altri tempi. All’invidiabile età, per come da lui raggiunta, di ottantuno anni, il texano McClinton, mirabile autore e cantante, battezzato alla nascita nelle acque confluenti del blues, del country e del rock’n’roll, chiude il cerchio della propria esistenza artistica - è recente il suo ufficiale e, ahimè definitivo, ritiro dai palcoscenici - e, con questo nuovo Outdated Emotion, disco dove reinterpreta, accanto a un pugno di inediti, alcune chiare gemme di quei generi che ne hanno segnato a fuoco la giovinezza, torna alle sue rigeneranti, primigenie acque battesimali.
McClinton, le canzoni le abita; le indossa. Le sa rendere proprie come fossero opere sartoriali: preziose stoffe di gusto, sagomate sulle proprie peculiari misure. Anche qui, con la sua voce resa fascinosa dall’ormai consueta morbida, sospesa afonia, coprodotto dal pianista Kevin McKendree (fondamentale il suo ruolo nell’originale rilettura di One Burbon, One Scotch, One Beer) strumentista principale assieme al figlio Yates, batterista e contrabbassista e talvolta sostenuto da grandi fiati, talaltra dai violini e sempre da quel semplice e genuino combo di soli pianoforte e contrabbasso, impone la sua impronta su inossidabili classici presi a prestito da alcuni degli autori che maggiormente lo hanno formato in gioventù. Rinunciando in parte al suo rinomato, ragguardevole talento d’autore, ecco il McClinton di fine carriera rendere omaggio principalmente ai suoi maestri e generi di riferimento con un'eclettica tracklist che, equamente, suddivide le tracce tra blues e country, includendo Ray Charles, Hank Williams e il Little Richard del 1956 con la sua celeberrima e, qui, mirabilmente riletta Long Tall Sally. E ben esemplifica l’atmosfera del disco il vecchio inedito Two-Step Too il cui ritornello, sembra voler confessare, a parole, quanto l’opera tradisce nei contenuti: “... I like blues and rock ‘n’ roll, but I like to two-step too…”.
Qui, tutto, persino, i pochi brani originali ricompresi nella raccolta acquistano un sapore antico tanto quanto Call Me A Cab finale scarno, sardonico, sommessamente parlato che restituisce il gusto di un arreso, ancorché amaramente nostalgico, commiato. G.R.
BUBBA AND THE BIG BAD BLUES
"Drifting"
Fullerton Gold Rec. (USA) - 2022
I want to make love to you baby/Helping hand/Drifting/Do what's right/She's your problem now/Amongst butterflies/Keep moving on/I own the road/Lose these blues/I've been down/If you need me/My love
A giudicare dalla swingante, torrida apertura corroborata da fiati robusti e organo Hammond di I Want To Make Love To You Baby si sarebbe propensi a considerare questa band come l’ennesima incarnazione dello spirito indomito del R’n’B più classico, pur riproposto in chiave aggiornata. Invece, le tracce che seguono, a cominciare dalla hendrixiana Helping Hand, smentiscono a più riprese l’impressione iniziale che resta saldamente confinata in quei primi quattro gustosissimi, quanto illusori, minuti. Nonostante il disorientante approccio di Bubba - al secolo, Chris Clerc - e dei suoi scudieri questo disco, per freschezza e felice riuscita, si candida a essere uno degli ascolti più ragguardevoli messi a disposizione nella prima metà dell’anno.
Sebbene l’omonima Drifting si posizioni sulla linea di mezzeria tra i vibranti blues in minore a-la Bobby Bland e le ariose orchestrazioni dei Blood Sweat & Tears, in questo disco ci sono carni condite per tutti i gusti: dagli amanti degli ZZ Top, che potranno abbeverarsi alla fonte di Do What’s Right, ai seguaci delle sonorità texane alla Stevie Ray Vaughan, assecondati con She’s Your Problem Now. Influenzata anche da Freddie King, Allman Brothers e financo dai Meters, la band forgia un elettrizzante ibrido di fumante Texas blues, blues-rock e New Orleans R’n’B & funk.
Quali supporti alla realizzazione delle proprie aspirazioni per questo tanto atteso album il nostro Bubba, chitarrista e cantautore sud californiano, ha chiamato a sé, come produttori, due tra le perle meglio custodite del mondo musicale: i batteristi Tony Braunagel, per anni a percuoter pelli con Robert Cray e Nick D'Virgilio, già con Genesis, Peter Gabriel, Tears For Fears, nonché stabile inquilino della Top 10 dei migliori batteristi di progressive rock. Le tracce sono, dunque, frutto di due sessions separate. La prima, se vogliamo la più mainstream, realizzata con Braunagel il quale ha portato in dote a The Big Bad Blues i Phantom Blues Horns e il mastro pianista Mike Finnigan; la seconda, la più audace, che comprende anche una rilettura di Amongst Butterflies di Paul Weller come la delicata pop ballad My Love, con D’Virgilio. Entrambi i batteristi hanno suonato in molti dei brani dell'album, unendo la loro unica voce strumentale al talento di Bubba per un mix di corroborante seduzione. G.R.
MISTY BLUES
"One louder"
Lunaria Rec. (USA) - 2022
A long hard way/Freight car (feat. Justin Johnson)/How the blues feels (feat. Big Lou Johnson)/This life we live/Birch tree/Leave my home/Hit you back/Seal of fate/I'm a grinder/Do my thing/Take a long ride (feat. Joe Louis Walker)
La scura autenticità della voce di Gina Coleman - un misto androgino tra Big Maybelle e Professor Longhair - dal sinistro potere espressivo, con l’iniziale A Long Hard Way tradisce tutto il tempo speso ad allenarsi nella palestra giovanile del gospel. L’articolazione del suo strumento, del quale talvolta arriva a tenderne le corde come flessuosi vocali bicipiti, sa oscillare tra il rasserenante sussurro e la gravità del grido reso ulteriormente drammatico dal troncamento di consonanti e sillabe.
In questo disco, la tradizione è un generico orientamento che si manifesta, nel pieno centro di una creativa fusione di stili, in episodi fieramente blues (Freight Car, How The Blues Feels), funk (Leave My Home, I’m A Grinder) e virate verso le paludose sonorità della Louisiana (Seal Of Fate con l’accordion di David Vittone e Do My Thing coi suoi richiami a certe amabili cosucce dove i Neville Brothers incrociano idealmente le rotte di Allen Toussaint). Nel mucchio, troviamo anche riuscite arditezze sperimentali come estemporanei breaks in odore di jazz. E poi, lo swingante boogie This Life We Live che dimostra la forza orchestrale di una band riccamente assortita che, oltre alla Coleman, annovera Seth Fleischmann (chitarra), Bill Patriquin (basso e tromba), Benny Kohn (tastiere), Rob Tatten (batteria e trombone) e Aaron Dean (sax).
Paragonato quantomeno alle precedenti due pubblicazioni quest’ultimo One Louder rappresenta, per Misty Blues, indubbiamente la prova della raggiunta maturità. Modernità, idee, arrangiamenti, prodezze strumentali e, non ultime, le canzoni, testimoniano dell’avvenuta piena fioritura di questa band da vent’anni mal contati sulle scene. Contribuiscono alla riuscita dell’operazione la presenza di ospiti come il chitarrista Justin Johnson, Big Lou Johnson e Joe Louis Walker: suo il gustoso cameo nella misticheggiante, funesta Take A Long Ride. G.R.
TRUDY LYNN
"Golden girl"
Nola Blue Rec. (USA) - 2022
Tell me/Golden Girl Blues/If your phone don't ring/I'm just saying/Is it cold in here/Trouble with love/Take me back/Live with yourself/Heartache is a one way street/I just can't say goodbye/Life goes on
A pochi mesi dal suo settantacinquesimo compleanno, Trudy Lynn sembra non aver perso una sola oncia di tutto il suo verace carisma vocale. Contralto scuro e screziato dai riflessi fieramente nasali, capace di adagiarsi in pingui morbidezze calde quanto erompere in pur misurate unghiate feline, mostra tutta la propria versatilità nel dispiegarsi di queste undici, nuove tracce. Sebbene mai definitivamente abbandonate, con Golden Girl la Lynn ritorna a calarsi, seppur con modernità, in quell’habitat musicale fatto di R’n’B, soul-blues, persino torch songs che le fece guadagnare l’attenzione e il plauso della scena di texana, ormai più di mezzo secolo fa.
Registrato tra la sua stessa Houston e Los Angeles, prodotto dal già premiato bassista e autore Terry Wilson, il disco mette assieme una band stellare comprendente, tra i tanti, il colorito tandem Yates e Kevin McKendree, padre e figlio, rispettivamente chitarra e tastiere oltre che ospiti di sicuro pregio come Teresa James ai cori, Steve Krase all’armonica e uno stellare Anson Funderburgh alla chitarra (lo troviamo in una buona metà dei brani).Il rocker-funk d’apertura Tell Me è un evoluto brano lo-fi, ruvido e di pronta presa, con la grintosa chitarra del McKendree giovane e l’ardore sfacciato della Lynn già pronti a dettar legge. L’omonimo Golden Girl Blues, il brano più classico della raccolta insieme al successivo Take Me Back, puntellato dai giusti fiati, sa di shuffle e vaudeville. If The Phone Don't Ring beneficia di una chitarra nervosa le cui corde parlano la stessa lingua che fu di Albert Collins mentre in I’m Just Saying i colpi ammiccanti della batteria scivolano su una neworleansiana second line tra un’armonica colante grasso e un pianoforte da roadhouse. Tutta la seducente ricchezza di sfumature, dai vibrati agli affondi, tutta la vastità degli abissi emotivi di cui è capace la sua voce, vengono esplorati nella soul-ballad Is It Cold In Here. E se Big Joe Turner avrebbe apprezzato lo stile classico, un po’ anni ‘50, di Take Me Back e Bo Diddley il beat di Heartache Is A One Way Street, Al Green non potrebbe fare a meno di ritrovarsi specchiato nel tocco molto Hi-Records del contemplativo groove di Live With Yourself.
Voci, chitarre, o idee che siano, la vecchia scuola dimostra ancora tutta la sua potenza di fuoco. G.R.
ANGELA EASLEY
"Rise"
Class A Rec. (USA) - 2022
I can let go (feat. The McCrary Sisters)/Runnin' out of time/Rise (feat. Shelly Fairchild)/Don't let the devil down/One more last time/Crazy rain
Insignita del “Bronze Vocalist Of The Year 2021” dalla International Singer Songwriter Association, quella di Angela Easley è una voce imponente, di cristallina ampiezza, contraddistinta da colori meridionali, quelli più tipici del bayou: sensuale, screziata, soulful. Con abbastanza blues, servito al momento giusto in quel suo shouting da indurre alla contrazione gli angoli più segreti del cuore. Ed è una voce così vibrante e fresca da far rimpiangere il fatto che Rise sia soltanto un EP che si estingue nella breve distanza di soli sei brani.
Come intuibile dalla foto di copertina, la Easley è anche pianista - e assai valente! - formatasi nella palestra della chiesa del suo nativo Mississippi tanto che voce e piano si uniscono in un matrimonio felicemente riuscito nell’iniziale, moderno gospel I Can Let Go dove, nel ruolo di inestimabili damigelle, troviamo le sontuose armonie vocali delle McCrary Sisters. Arazzo orchestrale vibrante, nella danzante e funkeggiante Runnin’ Out Of Time il suo strumento vocale rispolvera, attualizzandole, le lezioni magistrali di James Brown con l’apporto singolare di una sezione fiati di soli tromba e trombone. Duetta con Shelly Fairchild nell’emotiva title track Rise per poi abbandonarsi, lasciva, al rock’n’soul di Don’t Let The Devil Down. Seguono la moderna soul ballad One More Last Time e il gentile country flavour della conclusiva Crazy Rain.
Questo disco, registrato tra Nashville e New Orleans e prodotto da Walter Scott, ci mostra un’artista capace di un raro, elegante lirismo unitamente alla sorpresa di arrangiamenti musicali di intelligenza e freschezza inconsueti. G.R.