2024 - Macallè Blues

Macallé Blues
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2024

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I dischi in evidenza...2024


I dischi in evidenza: in questa sezione del sito, troverete le recensioni delle più interessanti (a mio personalissimo avviso!) novità discografiche, suddivise per anno di pubblicazione!

BARRY ADAMSON

"Cut to black"

Barry Adamson Incorporated Rec. (USA) - 2024

The last words of Sam Cooke/Demon Lover/Cut to black/Manhattan satin/These would be blues/Please don't call on me/Amen white Jesus/One last midnight/Was it a dream/Waiting for the end of time

 
Attillato e cool il giusto, Barry Adamson sembra eternamente immerso in un'altra epoca, dalla quale osserva la vita con la prospettiva privilegiata dell’outsider; scruta dall’alto un mondo di torbide complessità cui cerca di darvi un senso. La sua musica, così come i suoi trascorsi da bassista di Nick Cave e dei suoi Bad Seeds, certamente non hanno molto in comune con i gusti mainstream del popolo del blues. Come questo nuovo album, che è un’elegante cornucopia traboccante gospel, soul, blues, rock’n’roll, funk e odi sacrileghe, tutto rielaborato da una sensibilità contemporanea, quasi cinematografica (forse non a caso, Adamson, sia anche compositore di colonne sonore). Musica fluida per tempi fluidi.
Cut to Black è un disco che chiede, dunque, all’ascoltatore di deporre ogni possibile fardello preconcetto e di accostarvisi con un orecchio aperto e accogliente. Qui, ritroviamo il prete e il peccatore, i dannati come i risvegliati della terra; il terapeuta col suo paziente. Richiami alla psicanalisi, giochi di parole, arcani e citazioni (dal gran maestro Gil Scott Heron, per esempio). Quello di Adamson è un ghigno sornione sotto la superficie della musica.
Nemmeno l’avvio, con The Last Words Of Sam Cooke, che potrebbe lasciar facilmente presagire a qualcosa di più “classico”, così classico non è. Losco e affilato, atmosferico e sentimentale, spiritoso e irriverente, ricorda da vicino Tom Waits nell’acido shuffle Amen White Jesus, induce su irriverenti organi da chiesa nella meditativa These Would Be Blues, richiama persino gli U2 in One Last Midnight fino alla meravigliosa, pensosa chiusura con Waiting For The End Of Time.
Sulla musica la sua voce, evocativa dell’abisso di cui ci ripropone le profondità, resta al centro della scena di un disco che, lungi dallo scalare le classifiche, merita attenti e religiosi ascolti. G.R.

KEVIN BURT & BIG MEDICINE

"Thank you brother Bill - a tribute to Bill Withers"

Gulf Coast Rec. (USA) - 2024

Who is he (and what is he to you)/Kissing my love/World keeps going round and round/Just the two of us/I'm her daddy/Ain't no sunshine/Lean on me/Let us love/Another day to run/Grandma's hands/The same love that made me laugh/Hope she'll be happier/Thank you brother Bill


L’importanza della figura artistica di Bill Withers, figura spesso discreta al punto da non concedergli la conquista di un meritato e pieno proscenio in vita, la si misura oggi, a quattro anni esatti dalla sua scomparsa, con il metro del numero di tributi discografici a lui e al suo prezioso repertorio dedicati.
Questo di Kevin Burt, verace e asprigna creatura del Midwest, è l’ultimo del quale si abbia notizia. Cantante, chitarrista e, al bisogno, armonicista Burt affronta e si confronta qui con le pagine più note del soul man virginiano. Il suo baritono un po’ grossolano ma, talvolta, sorprendentemente tornito mostra una strana, insolita assonanza proprio con quello di Withers, peraltro già omaggiato in chiusura del precedente disco con una versione inaspettatamente funk di Better Off Dead. Dunque non stupisce affatto che Burt abbia deciso di riproporsi come interprete del songbook del vecchio Bill. Come detto, la scelta dei brani è in massima parte tutt’altro che avventurosa così come l’interpretazione che se ne dà, a un primo ascolto in perfetta linea di continuità con gli originali. Tuttavia, questo Thank You Brother Bill, a ben guardare offre un elemento di estremo fascino costituito - ed è la sola, sebbene significativa, novità! - dall’infondere queste celebri melodie con un’inedita, capricciosa vena blues. Viene meno, qui, quella finezza interpretativa tipica di Withers che lascia spazio, invece, a certe ruvidezze da roadhouse. Prova ne è, per esempio, la versione in acceso crescendo di World Keeps Going Round And Round o della meno conosciuta I’m Her Daddy. Sorte analoga spetta alla celeberrima Ain’t No Sunshine come a un po’ tutto il resto dei brani che acquisiscono così una caratterizzante nota agrodolce al palato. G.R.

DOUG MacLEOD

"Raw blues 2"

Sledgehammer Blues Rec. (USA) - 2024

Fine lookin' sugar/Keep on moving/Just like a minstrel/Horse with no rider/Goin' down country/My good girl blues/One good woman/Long time road/All I had was the blues


Maestro indiscusso nell’antica arte dello storytelling, agreste poeta del ‘back porch’, arguto e intimista cantore, chitarrista erede di una tradizione di cui s’è fatto interprete sensibile e, a modo suo, moderno Doug MacLeod ritorna nella veste per lui più autentica e, a lui, più congeniale.
Come ben lasciava intendere quel numero “1” appiccicato appresso al titolo del precedente disco e come, peraltro, da lui stesso confermato in quest’intervista a Macallé Blues, ecco arrivare puntuale il seguito: Raw Blues 2. Inutile dire che la formula è, in tutto e per tutto, la stessa adoperata con profitto per il passato disco: Doug in solitaria, seduto di fronte al microfono con la sua chitarra a snocciolare una manciata di brani rigorosamente acustici e, come sempre, rigorosamente autografi sebbene non tutti inediti. Metà delle tracce sono riprese da vecchi dischi pubblicati tra il 1996 e il 2008 (da You Can’t Take My Blues, Whose Truth Whose Lies e The Utrecht Sessions); i restanti, parrebbero, invece di fresco conio. E, nel raccontare queste storie in un contesto schietto, diretto e senza fronzoli Doug MacLeod chiarisce una volta di più il perché ogni anno risulti tra i candidati, quando non tra i vincitori, di un qualche blues award. G.R.

JENNIFER PORTER

"Yes, I do!"

Cougar Moon Rec. (USA) - 2024

Before we call it a day/Yes, I do!/Over you/All I needed was you/Don't worry no more/How long/Lucky dust (shining through)/Good ol' wagon


Benedetta dal dono naturale di uno strumento avvolgente, dalla densa morbidezza di miele scuro, Jennifer Porter, attrice e autrice, cantante e pianista, si è sempre fatta interprete di repertori ampi, frequentando con eleganza e brio quel “campo largo” che va dal jazz al blues, dal country all’opera. Ma la Porter è artista che potremmo, più correttamente, definire roots se spesso e volentieri, e come pure in questo suo decimo disco, appare a proprio agio seduta al piano e alle prese anche con qualche blues, suonato seguendo i dettami della vecchia scuola.
Se già il precedente Sun Come And Shine, registrato con la direzione artistica del leggendario batterista Bernard Purdie, godeva del prezioso contributo di Christian McBride, Rob Paparozzi, della regina della pedal steel guitar Cindy Cashdollar e del principe ereditario dello zydeco C.J. Chenier, il suo nuovo Yes, I Do ritrova il sostegno di queste ultime due presenze regali e caratterizzanti. La prima lascia scivolare il suo sinuoso, ammiccante bottleneck in Don’t Worry No More, moderno blues in minore per ance e coro, con evidenti richiami alle note sinistre magie neorleansiane; il secondo, si insinua tra le pieghe delle più sbarazzine sonorità cajun di All I Need Is You a intrecciarsi con un piano che ci ricorda sommessamente del vecchio Professor Longhair. Degli otto brani presenti in questo delizioso, snello cd, sei sono a firma - testi e musiche - della Porter stessa che inframmezza un paio di episodi dalla più delicata eloquenza cantautorale al tratteggio di bozzetti in stile New Orleans. Completano l’opera, un’inconsueta, avventurosa rilettura del Leroy Carr di How Long, illuminata dalle notturne luci della Crescent City, e un’innovativa Good Ol’ Wagon di Bessie Smith per soli piano, voce e basso tuba. G.R.

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