2024 - Macallè Blues

Macallé Blues
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2024

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I dischi in evidenza...2024


I dischi in evidenza: in questa sezione del sito, troverete le recensioni delle più interessanti (a mio personalissimo avviso!) novità discografiche, suddivise per anno di pubblicazione!

THE REVEREND SHAWN AMOS

"Soul brother no. 1"

Immediate Family Rec. (USA) - 2024

Revelation/Stone cold love/What it is to be black/Back to the beginning/It's all gonna change (for the better)/Soul brother no.1/Circles/Hammer/Don't call me nigger, whitey/Things will be fine

 
Forse, il lavoro più personale e ambizioso pubblicato, a oggi, dal pluripremiato reverendo Shawn Amos. Da ultimo anche produttore e narratore multimediale ma, soprattutto, cantante e autore, Amos ritorna a noi con dieci canzoni piene di euforia, dolore, gioia, rabbia, sfrontatezza; e delicata vulnerabilità.
Fin dai suoi esordi, The Rev - com’era in principio! - ha espresso un approccio in continua, perenne evoluzione; una visione musicale in rapido transito attraverso le trafficate highways della tradizione americana, del pop cantautorale e, nelle vesti anche di misconosciuto asso dell'armonica, del blues stesso.
Alla ricerca di nuove profondità, Amos e il produttore James Saez (Social Distortion, The Road Kings) hanno creato qui un mondo sonoro che ricorda da vicino, e in più episodi, il soul e il funk socialmente consapevole e afrocentrico degli anni '70 (a tale titolo si ascolti, su tutti, il brano omonimo o l’esplicito Sly Stone di Don’t Call Me Nigger, Whitey!) tanto che, con Soul Brother No. 1, il reverendo pare abbia voluto spingere quel viaggio ancora più in profondità.
Mentre, dopo la vigorosa apertura con una Revelation che rimanda vaghi sentori del miglior Lenny Kravitz, intona Back to the Beginning, ibrido gospel-blues benedetto dalla presenza sanctified delle McCrary Sisters, questo disco sembra restituire, nella gloria, Amos a se stesso. Secondo l’autore, il cuore dell’album sarebbe l’intensa ballata What It Is To Be Black, che doppia l’impronta sacra affiancando alle già epiche voci delle succitate McCrary Sisters, l’accompagnamento corale dei W. Crimm Singers di Nashville. Preso atto di ciò e senza voler contraddire alcuno, l’Amos più ispirato e avventuroso si ritrova, a mio avviso laddove, spesso guidato dalle tastiere del nigeriano Dapo Torimiro, il suo brunito crooning serpenteggia affagottandosi attorno a melodie più sofisticate come quelle del notturno R&B Circles, o nella jazzistica Things Will Be Fine, vivido e palpitante omaggio a mamma Motown. G.R.

BARRY ADAMSON

"Cut to black"

Barry Adamson Incorporated Rec. (USA) - 2024

The last words of Sam Cooke/Demon Lover/Cut to black/Manhattan satin/These would be blues/Please don't call on me/Amen white Jesus/One last midnight/Was it a dream/Waiting for the end of time

 
Attillato e cool il giusto, Barry Adamson sembra eternamente immerso in un'altra epoca, dalla quale osserva la vita con la prospettiva privilegiata dell’outsider; scruta dall’alto un mondo di torbide complessità cui cerca di darvi un senso. La sua musica, così come i suoi trascorsi da bassista di Nick Cave e dei suoi Bad Seeds, certamente non hanno molto in comune con i gusti mainstream del popolo del blues. Come questo nuovo album, che è un’elegante cornucopia traboccante gospel, soul, blues, rock’n’roll, funk e odi sacrileghe, tutto rielaborato da una sensibilità contemporanea, quasi cinematografica (forse non a caso, Adamson, sia anche compositore di colonne sonore). Musica fluida per tempi fluidi.
Cut to Black è un disco che chiede, dunque, all’ascoltatore di deporre ogni possibile fardello preconcetto e di accostarvisi con un orecchio aperto e accogliente. Qui, ritroviamo il prete e il peccatore, i dannati come i risvegliati della terra; il terapeuta col suo paziente. Richiami alla psicanalisi, giochi di parole, arcani e citazioni (dal gran maestro Gil Scott Heron, per esempio). Quello di Adamson è un ghigno sornione sotto la superficie della musica.
Nemmeno l’avvio, con The Last Words Of Sam Cooke, che potrebbe lasciar facilmente presagire a qualcosa di più “classico”, così classico non è. Losco e affilato, atmosferico e sentimentale, spiritoso e irriverente, ricorda da vicino Tom Waits nell’acido shuffle Amen White Jesus, induce su irriverenti organi da chiesa nella meditativa These Would Be Blues, richiama persino gli U2 in One Last Midnight fino alla meravigliosa, pensosa chiusura con Waiting For The End Of Time.
Sulla musica la sua voce, evocativa dell’abisso di cui ci ripropone le profondità, resta al centro della scena di un disco che, lungi dallo scalare le classifiche, merita attenti e religiosi ascolti. G.R.

GARY NICHOLSON

"Common sense"

Qualified Rec. (USA) - 2024

What a little love can do/Bob Dylan whiskey/The truth about a lie/Make good trouble/Everybody/We don't talk about it/Follow the money/Worry be gone/All that makes me happy is the blues (feat. Anson Funderburgh)/Common sense/Woody's dream/There's no them


Gary Nicholson vanta quel tipo di credenziali che solo gli artisti dai trascorsi più sacri possono ostentare. Cresciuto attraverso le turbolenze degli anni ‘60, quando si trasferì a Nashville dal natio Texas, lavorò come sideman suonando la chitarra per Guy Clark, Billy Joe Shaver, Bobby Bare e sviluppando le sue capacità di coautore. In questo senso, cominciò prestando il proprio talento di songwriter a Willie Nelson, Bonnie Raitt, John Prine, BB King, Buddy Guy e Keb Mo; oltre che al sommo conterraneo Delbert McClinton, insieme al quale firmò più di trenta brani e, del quale, coprodusse un solido poker di dischi.
A suo modo figura di culto di un genere che, solo con troppa faciloneria, si potrebbe etichettare come Americana è ormai da un quarto di secolo che Gary Nicholson ha preso a metterci la faccia come solista. Con un sorriso sornione e perspicace, il ghigno di chi capisce le cose, l’attitudine al commento politico di Woody Guthrie e l’astuto lirismo di un Guy Clark, Nicholson pare un trovatore del XXI secolo. In Common Sense, ogni titolo riecheggia coerenza e canzoni come The Truth About A Lie ed Everybody, paiono assumere la forma finita di un inno, mentre We Don't Talk About It esprime il fascino e il carisma del poeta di strada. Una passeggiata sonora attraverso il lato inespresso della vita tra giochi di parole, la vocalità veracemente gospel delle McCrary Sisters e suggestivi intarsi d'armonica.
In quest’opera, prodotta da Kevin McKendree e interpretata da un nutrito stuolo di musicisti tra i quali Colin Linden, Anson Funderburgh, Rick Vito, non si riesce a trovare una sola nota sprecata. Talvolta può suonare scarna, ma la scelta appare precisa e dettata, anche negli episodi che virano verso blues o rock, dalla ricerca di quella semplicità di fondo tipicamente folk. G.R.

KEVIN BURT & BIG MEDICINE

"Thank you brother Bill - a tribute to Bill Withers"

Gulf Coast Rec. (USA) - 2024

Who is he (and what is he to you)/Kissing my love/World keeps going round and round/Just the two of us/I'm her daddy/Ain't no sunshine/Lean on me/Let us love/Another day to run/Grandma's hands/The same love that made me laugh/Hope she'll be happier/Thank you brother Bill


L’importanza della figura artistica di Bill Withers, figura spesso discreta al punto da non concedergli la conquista di un meritato e pieno proscenio in vita, la si misura oggi, a quattro anni esatti dalla sua scomparsa, con il metro del numero di tributi discografici a lui e al suo prezioso repertorio dedicati.
Questo di Kevin Burt, verace e asprigna creatura del Midwest, è l’ultimo del quale si abbia notizia. Cantante, chitarrista e, al bisogno, armonicista Burt affronta e si confronta qui con le pagine più note del soul man virginiano. Il suo baritono un po’ grossolano ma, talvolta, sorprendentemente tornito mostra una strana, insolita assonanza proprio con quello di Withers, peraltro già omaggiato in chiusura del precedente disco con una versione inaspettatamente funk di Better Off Dead. Dunque non stupisce affatto che Burt abbia deciso di riproporsi come interprete del songbook del vecchio Bill. Come detto, la scelta dei brani è in massima parte tutt’altro che avventurosa così come l’interpretazione che se ne dà, a un primo ascolto in perfetta linea di continuità con gli originali. Tuttavia, questo Thank You Brother Bill, a ben guardare offre un elemento di estremo fascino costituito - ed è la sola, sebbene significativa, novità! - dall’infondere queste celebri melodie con un’inedita, capricciosa vena blues. Viene meno, qui, quella finezza interpretativa tipica di Withers che lascia spazio, invece, a certe ruvidezze da roadhouse. Prova ne è, per esempio, la versione in acceso crescendo di World Keeps Going Round And Round o della meno conosciuta I’m Her Daddy. Sorte analoga spetta alla celeberrima Ain’t No Sunshine come a un po’ tutto il resto dei brani che acquisiscono così una caratterizzante nota agrodolce al palato. G.R.

DOUG MacLEOD

"Raw blues 2"

Sledgehammer Blues Rec. (USA) - 2024

Fine lookin' sugar/Keep on moving/Just like a minstrel/Horse with no rider/Goin' down country/My good girl blues/One good woman/Long time road/All I had was the blues


Maestro indiscusso nell’antica arte dello storytelling, agreste poeta del ‘back porch’, arguto e intimista cantore, chitarrista erede di una tradizione di cui s’è fatto interprete sensibile e, a modo suo, moderno Doug MacLeod ritorna nella veste per lui più autentica e, a lui, più congeniale.
Come ben lasciava intendere quel numero “1” appiccicato appresso al titolo del precedente disco e come, peraltro, da lui stesso confermato in quest’intervista a Macallé Blues, ecco arrivare puntuale il seguito: Raw Blues 2. Inutile dire che la formula è, in tutto e per tutto, la stessa adoperata con profitto per il passato disco: Doug in solitaria, seduto di fronte al microfono con la sua chitarra a snocciolare una manciata di brani rigorosamente acustici e, come sempre, rigorosamente autografi sebbene non tutti inediti. Metà delle tracce sono riprese da vecchi dischi pubblicati tra il 1996 e il 2008 (da You Can’t Take My Blues, Whose Truth Whose Lies e The Utrecht Sessions); i restanti, parrebbero, invece di fresco conio. E, nel raccontare queste storie in un contesto schietto, diretto e senza fronzoli Doug MacLeod chiarisce una volta di più il perché ogni anno risulti tra i candidati, quando non tra i vincitori, di un qualche blues award. G.R.

JENNIFER PORTER

"Yes, I do!"

Cougar Moon Rec. (USA) - 2024

Before we call it a day/Yes, I do!/Over you/All I needed was you/Don't worry no more/How long/Lucky dust (shining through)/Good ol' wagon


Benedetta dal dono naturale di uno strumento avvolgente, dalla densa morbidezza di miele scuro, Jennifer Porter, attrice e autrice, cantante e pianista, si è sempre fatta interprete di repertori ampi, frequentando con eleganza e brio quel “campo largo” che va dal jazz al blues, dal country all’opera. Ma la Porter è artista che potremmo, più correttamente, definire roots se spesso e volentieri, e come pure in questo suo decimo disco, appare a proprio agio seduta al piano e alle prese anche con qualche blues, suonato seguendo i dettami della vecchia scuola.
Se già il precedente Sun Come And Shine, registrato con la direzione artistica del leggendario batterista Bernard Purdie, godeva del prezioso contributo di Christian McBride, Rob Paparozzi, della regina della pedal steel guitar Cindy Cashdollar e del principe ereditario dello zydeco C.J. Chenier, il suo nuovo Yes, I Do ritrova il sostegno di queste ultime due presenze regali e caratterizzanti. La prima lascia scivolare il suo sinuoso, ammiccante bottleneck in Don’t Worry No More, moderno blues in minore per ance e coro, con evidenti richiami alle note sinistre magie neorleansiane; il secondo, si insinua tra le pieghe delle più sbarazzine sonorità cajun di All I Need Is You a intrecciarsi con un piano che ci ricorda sommessamente del vecchio Professor Longhair. Degli otto brani presenti in questo delizioso, snello cd, sei sono a firma - testi e musiche - della Porter stessa che inframmezza un paio di episodi dalla più delicata eloquenza cantautorale al tratteggio di bozzetti in stile New Orleans. Completano l’opera, un’inconsueta, avventurosa rilettura del Leroy Carr di How Long, illuminata dalle notturne luci della Crescent City, e un’innovativa Good Ol’ Wagon di Bessie Smith per soli piano, voce e basso tuba. G.R.

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