In America, negli anni ‘50 e ‘60, il blues non godeva di una posizione centrale nell’ambito della musica popolare, tuttavia era sempre presente ai margini e solo occasionalmente (come accadde, per esempio, con B.B. King e la sua The Thrill is Gone, che raggiunse la prima posizione delle classifiche alla fine degli anni ‘60) acquisiva posizioni di rilievo e di vasta popolarità. Così, mi trovai esposto non propriamente al blues, quanto più a quella musica che, in qualche modo, si rifaceva al blues attraverso, per esempio, Beatles, Rolling Stones, Yardbirds e altri gruppi ancora nei quali l’armonica, anche se suonata in maniera non particolarmente magistrale, era spesso uno degli strumenti presenti. Mi sembrò, così, del tutto naturale intraprendere un percorso a ritroso, partendo dalla musica che ascoltavo e amavo, ripercorrendo la sua strada fino alle origini. A quel tempo, molti dei grandi come B.B. King, Albert King, Freddie King, Otis Rush, Junior Wells, James Cotton e altri ancora, erano ben vivi e vegeti. Così, verso l’inizio degli anni ‘70, mi calai a capo fitto nel blues e, da allora, non ho mai smesso di ascoltarlo e suonarlo. Verso la metà di quegli stessi anni, comunque, cominciai anche ad ascoltare jazz e, principalmente, la cosìddetta fusion: Weather Report, Miles Davis, Return to Forever, Al Di Meola, Mahavishnu Orchestra e tutto quel genere di gruppi e musicisti. Con loro, feci lo stesso percorso a ritroso già fatto precedentemente col blues e scoprìi Toots Thielemans, Stephane Grapelli, Bill Evans, Ron Carter, Charles Mingus e altri ancora. Alla fine, i miei gusti in fatto di blues e jazz cominciarono a delinearsi e convergere tanto che iniziai davvero ad ascoltare e a suonare, con un piacere che non avevo mai provato prima, jump e big band blues.
Negli ultimi sei o sette anni, ho avuto modo di fare diversi viaggi in Brasile e di essere esposto a molta della meravigliosa musica locale. Puoi ascoltare influenze di quella musica nel brano omonimo del mio ultimo disco, Wash My Horse In Champagne, così come ci sarà un’altra canzone nel mio nuovo disco, di prossima uscita, fortemente influenzata dal jazz brasiliano;
MB: sebbene tu sia un musicista blues stagionato, qualche lettore potrebbe pensare che tu sia invece un neofita considerato che hai inciso, fin qui, soltanto due dischi solisti. Ovviamente, non è così! Allora, per capire meglio chi sei, raccontaci qualcosa dei tuoi esordi come bluesman…
BHG: negli anni ‘60, vivevamo nell’area di Los Angeles quando, un giorno, mio fratello maggiore, che aveva partecipato a un raduno hippie in un parco in centro città, arrivò a casa con East-West di Paul Butterfield (Paul aveva suonato a quel raduno). Quella fu la mia prima esposizione al vero modo di suonare l’armonica che, contrariamente a quello di Bob Dylan, John Lennon o Brian Jones non era, invece, rudimentale.
Avevo dodici anni all’epoca e posso dire che fui forgiato da quel suono. Ma prima di ciò cominciai anche a cantare. All’età di dieci o undici anni, mi unii a una band, formata da compagni di scuola, che suonava standard da classifica. Dopo esserci trasferiti nel nord della California, ben presto presi in mano la mia prima armonica Marine Band e cominciai a imparare la versione di Paul Butterfield di The Work Song. Tutti ci provavano, ma credo che io mi ci applicai ben più di molti altri! Verso i diciassette anni, mi diplomai e cominciai a frequentare l’università di Davis dove, attraverso mia sorella maggiore, che già studiava là, incontrai un paio di ragazzi che suonavano prevalentemente blues acustico. Mi invitarono a unirmi a loro e, così, cominciammo a suonare nelle feste e nei bar attorno a Davis. In quel gruppo, io non cantavo; suonavo solo l’armonica. Poi, mi iscrissi a uno stage all’estero presso l’Università Americana di Beirut e, con mia grande sorpresa, scoprii là un gruppo di musicisti americani e arabi che suonavano blues e che erano appena rimasti senza il loro armonicista! Così, mi unì a loro e formammo The Bliss Street Blues Band (Bliss Street era la strada che costeggiava tutt’attorno l’università presso la quale eravamo studenti) avendo un modesto successo e tenendo concerti a Beirut. Registrammo pure una manciata di brani dal vivo in una radio di Beirut. Anche in quel gruppo, suonai principalmente l’armonica, ma mi capitò pure di cantare alcuni brani;
MB: prima dell’uscita del tuo esordio discografico come solista, hai avuto altre collaborazioni musicali o sei apparso nei dischi di qualcun altro? So, per esempio, che Otis Grand fu il primo a spingerti a registrare….
BHG: Otis è stato un membro originale della Bliss Street Blues Band. Dopo essere tornati da Beirut in California, io e Otis ci siamo sempre mantenuti in contatto. Nel 2000 o 2001, durante le registrazioni del suo disco Guitar Brothers con Joe Louis Walker, Otis è stato ospite a casa mia. In quell’occasione, mi invitò a registrare uno strumentale per quel disco, che decidemmo di intitolare proprio Bliss Street Blues; quella fu, in realtà, la mia prima registrazione in un disco americano. Successivamente, suonai l’armonica e cantai nel suo disco Hipster Blues, in un brano di Buddy Guy (Willie Dixon, ndr) intitolato Every Girl I See. Nel 2000, poi, ho anche suonato in un disco di Michael Robinson, un musicista di Oakland.
Certamente, nel corso dei tanti anni di attività, ho suonato con molta gente, in molti posti e in situazioni informali senza che tutto ciò fosse registrato;
MB: tu vivi in California, una regione geografica ben nota per gli armonicisti, alcuni dei quali sono stati dei veri e propri innovatori dello strumento: certamente, George “Harmonica” Smith è il primo che viene in mente ma, oltre a lui, possiamo citare William Clarke, Gary Smith, Mark Hummel, Rick Estrin, etc. Senti, anche tu, di appertenere a questa 'scuola californiana', se così possiamo chiamarla?
BHG: beh...tu hai nominato dei grandi musicisti, ma non sono così sicuro che ci sia molto che li unifichi stilisticamente (e, comunque, hai dimenticato di citare Kim Wilson che è fantastico!). Direi che, più che di 'scuola californiana', sarebbe corretto parlare di tradizione o scuola della West Coast, che parte da George Smith attraverso William Clarke, Rick Estrin, Paul deLay e me, ed è caratterizzata da un uso più creativo dell’armonica cromatica. George Smith, di certo, è stato il padrino di questa tradizione che ha contribuito a rendere più diffuso e popolare l’uso delle ottave sulla cromatica così come il fatto di suonare in prima posizione (posizione che quasi nessuno usa) e l’avventurarsi, sempre sulla cromatica, al di fuori dei più stretti confini del blues, sconfinando nei terreni del pop e nel jazz (un esempio, in questo senso, è il tema della vecchia serie TV Hawaiian Eye).
William Clarke ha sviluppato molto l’uso della cromatica in senso jazzistico, direi, come in The Boss, Moten’s Swing, etc. Rick Estrin pure è un superbo armonicista cromatico e sebbene, nei dischi, l’abbia sempre sentito suonare in terza posizione, a differenza di molti altri armonicisti cromatici, ha sempre fatto un uso molto libero del bottone suonando cose davvero belle. Il suo solo in Sure Seems Strange è, per me, uno dei pezzi più belli, tra quelli mai incisi e suonati in terza posizione. E poi c’è Paul DeLay....
MB: quel’è stato il musicista, se ce n’è stato uno, che ha definitivamente contribuito a farti prendere la decisione di suonare l’armonica?
BHG: dovrei dirti Paul Butterfield, considerato che è stato il primo armonicista di valore che ho ascoltato in vita mia. E, come ho già detto, fu la sua versione di The Work Song quella con la quale mi scontrai e sulla quale sudai nel tentativo di impararre a suonare l’armonica. Ma non passò molto tempo che conobbi, musicalmente, Sonny Boy Williamson II (Rice Miller, ndr) e, una volta ascoltato lui, ebbi la sensazione di aver fatto jackpot! Successivamente, cominciai ad ascoltare James Cotton, Junior Wells, Little Walter e tutti gli altri armonicisti di Chicago. Ironia della sorte, a quel tempo non ero un amante di Little Walter, contrariamente a molti altri armonicisti. Penso che il motivo fosse che, all’epoca, non consideravo la sua voce interessante al pari di quella di altri e io sono sempre stato molto sensibile alla voce umana. Questo è probabilmente il motivo per cui, invece, Otis Rush, sebbene non fosse un armonicista, è stato uno dei miei cinque musicisti blues preferiti di tutti i tempi! Il suo canto è spesso talmente torturato e intenso da risuonare in me come quello di nessun altro. Solo più tardi ho cominciato ad apprezzare il genio armonicistico di Little Walter e, oggi, anche la sua voce ha assunto, per me, un valore che allora non aveva;
MB: molti musicisti non sono professionisti nel vero senso della parola; non essendo così facile, soprattutto in un contesto di nicchia come quello del blues, vivere di musica, mantengono un impiego convenzionale. Anche tu, in questo senso, non sei mai stato un musicista professionista. La differenza, però, tra te e buona parte degli altri musicisti e che tu, per così dire, non hai proprio un lavoro comune: tu sei un avvocato e un insegnante universitario e credo che queste siano le ragioni principali che ti hanno tenuto, per buona parte della tua vita, lontano dal blues, professionalmente parlando. Non è certo facile incontrare un professore universitario che è anche un bluesman! La giurisprudenza deve essere stato un altro tuo grande interesse se hai scelto la vita accademica?
BHG: ho amato la mia carriera di difensore pubblico – che è l’avvocato difensore destinato a tutte quelle persone che non possono permettersi di pagare un legale – così come i miei tanti anni trascorsi come professore di legge, cercando di formare e addestrare i futuri avvocati a lottare per la giustiza sociale.
Mio padre era palestinese e, per tramite suo, ho avuto modo di osservare le ingiustizie sofferte dal suo popolo. La ricerca legale e la pubblicazione, anche di editoriali per importanti giornali mi ha fornito la giusta piattaforma per condividere, con un pubblico ampio, la mia passione per la giustizia e per i diritti dei palestinesi. Per me, il blues è quell’espressione di forza e vitalità che è nata ed emersa da un mondo di ingiustizia e discriminazione. Non è una musica di resistenza, nel senso che non ha contribuito a mobilizzare le persone a combattere per perseguire un cambiamento sociale; piuttosto, è una musica di resistenza nella misura in cui afferma quello spirito indomito e quel rifiuto assoluto di permettere all’oppressione di drenare la nostra capacità di vivere bene, quali che siano le circostanze.