Doug MacLeod
Le interviste...
Macallè Blues incontra Doug MacLeod
Vincitore del Blues Music Awards 2014 come Acoustic Artist Of The Year e Acoustic Album Of The Year e il Blues Blast Music Award 2013 come Male Artist Of The Year, straordinario cantante, autore, storyteller e bluesman, Doug MacLeod conversa con Macallè Blues.
Macallè Blues: Cominciamo dall'inizio. Ogni volta che mi capita di parlare con qualche amante del blues o con qualche musicista, una delle mie più grandi curiosità è sempre capire in che modo ha scoperto il blues. Quindi Doug, come ti sei avvicinato e come, direi, hai iniziato ad amare il blues? Grazie a collezioni di dischi trovate in famiglia, tramite amici, per caso o cos'altro?
Doug MacLeod: Ho cominciato ad ascoltare blues quando la mia famiglia si è trasferita a St. Louis. Ricordo che c'erano due stazioni radio che trasmettevano blues ventiquattr'ore al giorno tranne la domenica, quando trasmettevano da mezzogiorno alle sei. Lo chiamavano Rhythm & Blues. Ho cominciato ad amarlo quando ho realizzato che era una musica che mi parlava ad un livello che all'epoca non riuscivo quasi a capire. Ora so di che livello si trattava. E' come ciò che dico nei miei concerti - “Questa è una musica che permette di superare le avversità, non a esserne soggetti”. Personalmente, mi ha aiutato a superare l'abuso che ho subito quando ero bambino e la conseguente balbuzie.
MB: Doug, è stato analogo per me. Nel senso che ho scoperto il blues per caso, grazie alla televisione, quando avevo circa undici anni. A quell'epoca non capivo l'inglese, quindi non c'era modo per me di comprendere cosa dicesse il cantante che stavo ascoltando, ma qualcosa di direi "primitivo" - non so di preciso cosa fosse - nel canto e nella musica che stavo ascoltanto mi colpì a tal punto da darmi i brividi alla schiena. Fu pura emozione e le emozioni sono molto importanti nell'esistenza di ognuno, soprattutto quando stai crescendo perché, in qualche modo, forgiano e condizionano la tua vita. Senza il blues, dico sempre scherzando, oggi forse lavorerei in banca; e neppure sarei qui a parlare con te.
DML: So cosa intendi dire, Giovanni. Quando la musica è onesta, trova sempre il modo di raggiungere l'anima. Come dico spesso, credo che alle canzoni piaccia abitare l'anima. Non credo ci siano le parole adatte in ogni lingua per descrivere ciò, ma tutti sappiamo quando ne veniamo toccati. E' un po' come l'amore. Tutti lo conosciamo, ma prova a descriverlo o a spiegarlo? Ricordo che una volta ero al Port Fairy Folk Festival in Australia. Avevo terminato il mio set e avevo del tempo a disposizione così decisi di andare ad ascoltare un po' di musica. C'era questa giovane cantante africana che salì sul palco e disse: "Vi canterò una canzone nella mia lingua madre che, scommetto, davvero pochi di voi, se non proprio nessuno, conosce e ve la canterò senza la mia band. Questa canzone parla di una donna che ha appena perso l'uomo che ama". Beh, quando finì, sotto quella tenda, tra quelle 2500 persone di pubblico, non era rimasto un solo occhio asciutto; sebbene nessuno avesse capito le parole, tutti avevano compreso il feeling!
MB: L'altra mia curiosità ha a che fare direttamente con te. Tu hai esordito discograficamente, come chitarrista elettrico, negli anni '80; allora, artisti a indirizzo soul-blues come Robert Cray o Joe Louis Walker stavano giusto cominciando a emergere, così come molti altri chitarristi magari più orientati sul versante blues-rock. Sebbene avessero sonorità moderne analoghe alle tue, tutti erano però chitarristi elettrici. Tu, al contrario, in quel periodo sei passato dalla chitarra elettrica alla chitarra acustica, molto prima che il blues acustico fosse, per così dire, riscoperto e tornato di moda. Questa tua scelta sembrò piuttosto inusuale. Come e perchè prendesti quella decisione?
DML: Bella domanda, Giovanni. Alla fine degli anni '60 io già suonavo blues acustico nelle coffee houses della Virginia e del Maryland. Quelli sono i posti dove ho realmente cominciato. Presi la decisione di ritornare alle mie radici acustiche intorno al 1991. In versione elettrica, sentivo che non riuscivo a entrare in comunicazione col pubblico come avrei voluto. Inoltre, avevo la sensazione che i testi delle canzoni venissero persi o fossero percepiti come secondari alla musica. Così, dissi a mia moglie che volevo tornare alle mie vecchie radici acustiche di cantautore e bluesman ed esibirmi nuovamente da solo. Senza battere un ciglio disse “Bene, allora fallo!”. Ed eccomi qui.
MB: Quindi hai avuto una solida, precedente esperienza nell'affrontare il pubblico come solista; e credo che, al tempo, sia stata una gran bella palestra; non trovi? C'è qualche trucchetto che hai imparato all'epoca per conquistare il pubblico e che ancora utilizzi oggi?
DML: Come dici tu, suonare da solo è davvero una gran palestra. Dipende tutto da te. Acutizza i tuoi sensi e ti insegna ad essere ben focalizzato su ciò che fai e su come il pubblico interagisce. Ciò che ho imparato suonando è che tu, come intrattenitore, devi essere il primo a darti al pubblico con tutto il tuo cuore, l'anima, il tuo essere. Alcuni artisti vogliono che sia prima il pubblico ad arrivare a loro. Ho conosciuto qualcuno così e per qualcuno funziona anche. Ma penso che, alla fine, siano tornati sui loro passi.
MB: In questo senso, un'altra cosa che ti differenzia da molti altri artisti acustici contemporanei è il tuo strumento: com'è che ti sei tanto dedicato alla National steel guitar piuttosto che a una semplice chitarra acustica?
DML: Della National, mi piace la complessità del suono, la potenza del suo suono. Inoltre, posso percuotere la sua cassa armonica con la mia mano destra come fosse una percussione e non mi devo preoccupare troppo di danneggiarla. Diciamo che se la Fender Stratocaster è come una Porsche o, potrei dire, una Ferrari, la National è come un camion Mack Truck. E io un camionista...
MB: Tu sei anche un grande autore, allora parliamo un po' di come si scrive un testo. Ho sempre pensato che persino i più grandi bluesmen acustici come Robert Johnson, Lightnin' Hopkins, Big Bill Broonzy per nominarne alcuni, prima di essere bluesmen fossero fondamentalmente dei cantautori (Hopkins, secondo me, era addirittura un poeta); o forse potrei dire che erano dei cantastorie che, musicalmente, si accompagnavano con forma e metriche tipiche del blues. Ora, io ti ho scoperto nel 1994 grazie al tuo disco "Come to Find " e, da allora, ho pensato anche a te in quel modo: credi che la definizione di cantautore ti stia bene addosso e senti di essere stato ispirato da quei bluesman?
DML: Assolutamente, in tutti i sensi. Trovo incredibile che davvero tanta gente abbia difficoltà ad accettare il bluesman come un cantautore quando questa musica fu proprio creata fondamentalmente da cantautori! Ho sempre pensato che i più grandi cantautori fossero, in realtà, dei poeti, capaci di dire così tanto con poche parole. Mi hanno sempre ispirato sin dall'inizio e continuano a farlo. Sono molto onorato di essere, in qualche modo, accostato a loro.
MB: Sono completamente d'accordo, Doug. Vedi, per esempio, io amo molto i vecchi cantautori italiani e ho sempre sostenuto che, in qualche modo, loro fossero un po' i nostri "bluesmen" e quando dicevo così, malgrado l'espressione fosse un'evidente iperbole, tutti mi guardavano come fossi pazzo! Ma credo che quel paragone, ancorchè metaforico, abbia senso in entrambi i casi.
DML: Sono d'accordo con te; e non solo perché mi stai facendo questa bella intervista. Io vedo il blues in molti paesi, fuori dagli Stati Uniti. E ascolto anche onesti musicisti blues all'estero. E' molto importante per i musicisti blues e, più in generale, per tutti i musicisti, trovare la propria personale voce. Essere influenzati da qualcuno che è venuto prima di noi va bene, ma bisogna riuscire ad affermare la propria unicità. Solo in questo modo la musica continua a vivere e testimonia il rispetto per quelli che non ci sono più. A tal proposito, un esempio. Quando suonavo ancora in elettrico, ero molto influenzato da B.B. King e cercavo di suonare come lui. Un giorno, George ‘Harmonica’ Smith mi disse, “Dubb, suoni proprio come B.B. King!". Risposi, "Grazie, George!" E lui, "Dubb, il mio non era un complimento.” E aggiunse, “Mettiamo un po' Dubb là fuori e vediamo cosa succede”.
MB: Visti il tuo abituale strumento, lo stile slide e la tua abitudine al parlato, sia nei tuoi dische che, soprattutto, nei tuoi concerti, Bukka White è un altro artista al quale penso tu possa sentirti affine: si può dire?
DML: Beh, i bluesmen sono stati e sono cantastorie. In realtà, il mio primo mentore si può dire che fu un vecchio country bluesman di nome Earnest Banks e uno dei più grandi consigli che mi diede fu, “Non scrivere e non cantare mai di qualcosa che non conosci.” Secondo quel pensiero, le canzoni devono nascere da storie vere di vita, della tua vita! Quindi, perché non raccontare alla gente anche le storie che sono alla base delle canzoni e le canzoni stesse?
MB: Confesso, Doug, non ho mai sentito parlare di Earnest Banks prima, se non leggendo le tue note biografiche: è stato un artista che ha registrato qualche disco o è stato solo un musicista locale che ti è capitato di incontrare?
DML: Se non lo conosci, non devi dispiacertene. Difficilmente ne avresti sentito parlare a meno che tu non fossi vissuto in Virginia verso la metà degli anni '60. Penso che abbia anche registrato qualcosa, ma sotto altro nome. Dicevano che aveva suonato con Blind Lemon Jefferson. Lo incontrai a Toano, in Virginia. Non conosco la sua vera storia, ma so che aveva una straordinaria mano destra.
MB: Tu sei un artista singolare e prolifico - e questo non suoni come un complimento, ma come un dato di fatto - tanto musicalmente quanto come autore. Allora vediamo di approfondire un po' l'aspetto dei testi delle tue canzoni. I tuoi testi sono tanto umoristici quanto introspettivi, intimisti, ricchi di quella "grazia e arguzia" che possiamo ritrovare in tutta la tradizione del blues: generalmente, come nascono le tue canzoni? I testi nascono e prendono forma facilmente o, piuttosto, ti senti un po' come uno scultore che deve lavorare sodo per trovare la giusta parola, la giusta frase e la giusta forma finale?
DML: Le canzoni arrivano quando vogliono. Non ho un vero controllo su di loro fino a quando, diciamo, non sono arrivate. E anche una volta giunte, non ho molto controllo comunque. Sono loro che continuano a dirmi come vogliono essere rappresentate. Generalmente le canzoni arrivano quasi fatte e finite. Beh, quanto meno nella loro forma di idea/messaggio. A quel punto devo solo raffinare un po' le parole e dar loro il giusto feeling.
MB: Sembra che tu sia un po' come un medium per le canzoni e che loro siano qualcosa di superiore che si rivela attraverso te. E' qualcosa di magico, di spirituale che ha a che fare, credo, con l'epressione artistica in generale. Non credi? E ti è mai capitato di discutere di questo interessante aspetto con altri artisti?
DML: Oh certo, ho tenuto anche dei seminari sul tema al Merlefest e al Legendary Rhythm and Blues Cruise. Ogni cantautore sembra avere modalità diverse per arrivare alla canzone, ma c'è una cosa che li accomuna: se una canzone ti sveglia durante la notte e tu dici, "Ma che bel verso! Non me lo dimenticherò. Però, adesso mi giro dall'altra parte e dormo ancora un po'; domani, poi, mi metto a scriverlo.” Finisce che la mattina ti svegli, ma la canzone ti ha lasciato pensando, “Mi sa che non mi vuole; allora andiamo un po' a vedere cosa combina Coco Montoya stanotte."
MB: Come narratore, sei stato anche un giornalista di successo collaborando con la rivista Blues Revue Magazine sulla quale tenevi mensilmente una tua rubrica; ora quell'esperienza è finita, ma credo proprio che ai lettori di quella rivista piacerebbe che tornassi a scrivere lì o su qualche altro giornale facendo nuovamente qualcosa di analogo al Doug's Back Porch. Non ti manca questo aspetto e pensi sia possibile trovarti nuovamente sulla pagina di qualche rivista?
DML: Beh, forse sì, ma non su carta stampata. Sto pensando seriamente di pubblicare un audio book dal vivo con le mie storie. Devo solo trovare il locale giusto dove registrare per un paio di sere e invitare un po' di gente a partecipare.
MB: Prima di diventare solista, hai suonato con un bel po' di artisti blues come Pee Wee Crayton, Big Joe Turner, George "Harmonica" Smith, Big Mama Thorthon, etc. e immagino che in tanti ti abbiano chiesto qualcosa riguardo a loro; però nei tuoi dischi, hai anche avuto ospiti come Charlie Musselwhite o il grande e compianto Carey Bell: c'è stata qualche ragione particolare che ti ha condotto a scegliere questi due grandi, ma differenti armonicisti?
DML: Sia Charlie che Carey avevano uno stile unico. Volevo proprio il loro stile specifico in quegli album. Joe Harley, il produttore di quei dischi, era pienamente d'accordo con me. Dacché ho lavorato con George "Harmonica" Smith, sono diventato un fan dei bravi armonicisti. Charlie and Carey?!? Due dei migliori.
MB: Nei tuoi dischi acustici, sei solito essere accompagnato da piccoli combo, tipicamente contrabbasso e batteria o aggiungendo un po' di buon piano come nel tuo ultimo cd. Ma in tour, sei solito esibirti da solo e viaggiare molto leggero, con appresso il bagaglio di un semplice o di un saggio: poche cose, se non nulla. Quando ci siamo incontrati, nell'autunno del 2008, guidavi un'auto a noleggio e con te avevi soltanto una valigia e la chitarra. Viaggiare in quel modo e stare sul palco da solo ogni sera deve essere davvero un'esperienza emozionante e arricchente dove tutto dipende soltanto da te: come ti senti in quei momenti?
DML: Quello è il modo in cui mi trovo più a mio agio. Potresti dire che sono un po' anacronistico e legato ai primissimi musicisti blues. Anche loro viaggiavano leggeri. Beh, a dire il vero, anche molto più leggeri di me! Ho solo bisogno di una valigia e una chitarra. Ho imparato a far bene le valigie quando ero in Marina; e la mia National, che chiamo ‘Moon’, va bene da suonare sia col plettro che col bottlenceck ed è ok su tutte le tonalità che utilizzo. Quindi, non mi serve molto più di quello. Inoltre, come dico, “If you can travel light, you gonna’ be alright.”
MB: Ho letto che c'è un tuo ritratto al Delta Blues Museum di Clarksdale, Mississippi: dopo tutti questi anni, mi pare che possa essere un grande riconoscimento e un onore, non trovi?
DML: E' stato ricavato da una foto di Jeff Dunas scattata per un libro sul blues. Non sono sicuro di meritarmi tanto, ma sono assolutamente sicuro che lavoro duro per essere meritevole di un tale onore.
MB: Un'ultima cosa: malgrado la tua lunga carriera, l'Italia non è un paese dove hai suonato molto. So che sarai nuovamente in tour nel nostro paese il prossimo ottobre dopo essere stato in Italia, credo per la prima volta, nel 2008. Come ti senti nel tornare qui e hai qualche ricordo particolare del tuo precedente tour che vorresti condividere con noi?
DML: Sono molto ansioso di tornare in Italia. E' un paese ricco di storia e di cultura. Ricordi?!? Se ti dicessi che lì ho trovato il miglior cibo che io abbia mai assaggiato e del meraviglioso vino?!? Potrei tornare anche solo per questo!