Fabrizio Poggi
Le interviste...
Macallè Blues incontra Fabrizio Poggi
Armonicista, cantante, autore, divulgatore, già leader dei Chicken Mambo nonché cultore dell'armonica e della musica popolare in genere, Fabrizio Poggi incontra Macallè Blues per parlare diffusamente di Texas Blues Voices, il suo ventesimo, bellissimo, ultimo disco.
Macallè Blues: il tuo ultimo disco è, come recita il titolo, palesemente dedicato al Texas; stato che, malgrado si sia sempre più propensi a intestardirsi su Chicago quale patria del blues, tanto ha dato storicamente a questa musica esprimendo molti dei suoi più illustri e originali rappresentanti: da Blind Lemon Jefferson a Lightnin Hopkins, da Juke Boy Bonner a Freddie King, Albert Collins e Johnny Copeland, fino ai contemporanei Johnny Winter, Stevie Ray Vaughan, Chris Duarte. E allora, per cominciare, raccontaci un po’ com’è nata l’idea di dedicare un intero disco proprio al Texas. E’ un posto col quale hai un rapporto privilegiato?
FP: Erano parecchi anni che desideravo celebrare le grandi voci del blues texano di ieri e di oggi. Come giustamente tu dici, il Texas ha dato parecchio al blues (qualche studioso sostiene persino sia nato lì!) con musicisti che sono ormai entrati nella leggenda, Blind Willie Johnson sopra a tutti visto che, da qualche anno, viaggia anche nello spazio sul Voyager alla ricerca di nuovi mondi. E poi in Texas, al di là degli stereotipi e dei luoghi comuni, il blues è davvero nell’aria. Sarà una coincidenza o forse un segno del destino ma Robert Johnson ha registrato le sue 29 canzoni proprio in Texas. Il blues è sempre stato un perno importante nell’impianto musicale e culturale del Texas. Persino nel country texano ci sono importanti influenze blues: lo stesso Willie Nelson, straordinaria icona del genere, ha dichiarato più volte che alla base della sua musica c’è sicuramente il blues. Da tantissimo faccio tour in Texas quasi ogni anno e lì ho registrato il mio unico disco live; con molti dei musicisti che appaiono in questo progetto avevo, sì, suonato live ma mai registrato dal vivo. Ho pensato che quindi fosse arrivato il momento.
MB: E perché dedicare questo disco proprio alle “voci” del Texas? Oltretutto, alcuni degli ospiti presenti, tipo Mike Zito o Guy Forsyth, pur ben dotati vocalmente, non sono principalmente noti per essere dei cantanti?
MB: Concordo, Fabrizio! Accompagnare i cantanti o i solisti in genere è una vera e propria arte nell'arte: richiede sensibilità e capacità di ascolto non comuni. Ne sanno qualcosa i grandi pianisti jazz, per esempio. E non stento a credere che le esperienze in duo che hai citato tu, anche per la loro natura più raccolta, ti abbiano aiutato a riscoprire quest'aspetto. Oltretutto, con Guy Davis sarai nuovamente in tour a breve, vero?
MB: Texas Blues Voices è un lavoro corale. Malgrado le molte e differenti anime che lo popolano, non riesco ad avvertire fratture o momenti di discontinuità. Tutto sembra così naturalmente omogeneo e ben amalgamato: merito anche di Stuart Sullivan, ingegnere del suono preso a prestito dal celebre club Antone’s di Austin?
FP: Questo non è un aneddoto su Texas Blues Voices, ma è un aneddoto che spesso racconto e che svela un dietro le quinte piuttosto interessante.
Che ripagano di tanti sacrifici e bocconi amari. Quando ho confidato al mio amico Jimmy Carter che ancora oggi vengo assalito da dubbi e paure di non essere all’altezza, di venire considerato, forse anche giustamente, in maniera diversa, per il fatto di essere nato e cresciuto in un paese che ha una cultura musicale totalmente differente, Jimmy mi ha detto: “Sai Fabrizio, io sono cieco dalla nascita. Sì, me l’hanno spiegato e quindi mi sono fatto un’idea, ma i concetti di nero, bianco, italiano, americano non significano molto per me. Non riesco a comprenderli fino in fondo. So solo che quando ti sento suonare la tua armonica, ti considero uno di noi. Non sento nessuna differenza tra me e te. E’ come se parlassimo la stessa lingua. Ti considero uno di famiglia, uno che appartiene alla mia stessa famiglia musicale”. E anche questa grande lezione di vita, è il blues.
MB: Questo tuo aneddoto, che tanto racconta dell'umanità che sta dietro il blues, mi ha fatto tornare alla mente quest'altro aneddoto che voglio raccontarti. Non ha a che fare direttamente con Texas Blues Voices, ma indirettamente sì, perchè c'è molta umanità e molto blues.
Nei primi anni '90, in Svizzera, ascoltai per la prima volta Kent Duchaine, bluesman solitario, personaggio a metà strada tra John Hammond e un “hobo”; all'epoca, abitava in un camper in Alabama. Qualche anno dopo, nel 1997, dopo vari inseguimenti, riuscì a portarlo al Macallè Blues Festival. Il giorno della sua esibizione, contrariamente a tutti gli altri artisti, arrivò in teatro solo, senza nessun accompagnatore: si era affittato un'auto e girava l'Italia, cartina alla mano, con soltanto un valigino e la custodia della sua National. Lo accolsi, gli ricordai di quando ci eravamo incontrati anni prima, ma lui non parve ricordare e non sembrò neppure particolarmente interessato alla chiacchiera. Gli chiesi, allora, come mai girasse solo, senza un "roadie", ma lui mi guardò stranito e quasi non rispose. Più tardi, dopo il sound check, eravamo seduti fianco a fianco in teatro. Io ero chiuso in un silenzio imbarazzato, dati gli esiti ben poco incoraggianti dello scambio precedente ma, questa volta, fu lui improvvisamente a rivolgermi la parola. Infilandosi una mano nella giacca, mi disse: “...io non sono mai solo, guarda!...”. Dalla tasca interna estrasse una busta dentro la quale c'era riposto un mazzo di foto che mi mostrò con lo stesso pudore col quale, quasi in confidenza, si confessa qualcosa di intimo: ritraevano lui con Johnny Shines, Robert “Junior” Lockwood, Snooky Pryor.... Sembrava mi stesse mostrando le preziose foto di un album di famiglia e quando io riconobbi, chiamandoli per nome, uno a uno quei bluesmen, si illuminò all'improvviso quasi a dire “...ma come? Li conosci?”. In quel momento, probabilmente, capì di essere in famiglia anche lì: il muro della diffidenza era improvvisamente crollato!