Jeff Dale and Jeff Stone - The Southside Lives
Recensioni
Il disco raccontato da...
Jeff Dale
JEFF DALE & JEFF STONE
"The Southside lives"
Pro Sho Bidness Rec. (USA) - 2017
Honeyboy story/Rooster/The Southside lives/Hooked up to a plow/The old blues hotel/The dream/The first time I met the blues/The bus broke down/Tight Ass Mama/Mud on my shoes/Broke and burned
Il blues è fatto anche di tutti quei personaggi meno noti che, però, hanno avuto la ventura di avere a che fare o accompagnare o semplicemente conoscere a fondo alcuni grandi del genere. Jeff Dale è uno di questi. Chitarrista e autore, nato e cresciuto a Chicago, ha condiviso palco e pensieri con artisti del calibro di Lowell Fulson, Pee Wee Crayton, Albert King, Etta James.
Col suo gruppo The South Woodlawners, ha accompagnato regolarmente, e fino alla sua scomparsa, una delle ultime leggende viventi del blues: David "Honeyboy" Edwards. Il suo ultimo disco, registrato in compagnia del vecchio amico armonicista Jeff Stone, è un tributo ai luoghi e ai suoni della sua giovinezza, a quel Southside di Chicago, presenza indelebile nella memoria.
Nell'intervista che segue, con Jeff Dale parliamo proprio di The Southside Lives.
Macallè Blues: prima di tutto Jeff, cominciamo col dire qualcosa di te. Tu vieni dal Southside di Chicago, posto nel quale hai anche iniziato la tua carriera musicale. Raccontaci, allora, qualcosa riguardo i tuoi esordi e la tua storia…
Jeff Dale: essere cresciuto nel Southside di Chicago, negli anni ‘60, mi ha dato l’opportunità di respirare davvero il blues. Nel 1965, mio fratello maggiore portò a casa il primo disco della Paul Butterfield Blues Band. Cominciai, poi, a notare in giro poster pubblicitari di concerti che parlavano di musicisti con strani nomi come Howlin’ Wolf e Muddy Waters. All’epoca, ascoltavamo di tutto: Beatles, Stones, Who, The Animals, Hendrix, Cream etc. Piano piano cominciai, per così dire, a mettere insieme i pezzi osservando le note riportate sugli album di questi gruppi, notando che gli autori dei brani interpretati erano Chuck Berry piuttosto che Bo Diddley, etc. Poi, su una rivista per ragazzi, vidi una foto di Eric Burdon con B.B. King dove entrambi stavano fumando un sigaro e pensai che B.B. fosse proprio il tipo più figo che avessi mai visto fino ad allora. Avevo dodici anni e avevo già acquistato dischi di B.B. King, Muddy Waters e Chuck Berry. I miei genitori mi comprarono, poi, una chitarra Sears Stella. Un anno dopo, avevo visto dal vivo Muddy Waters, Otis Rush, The Siegel-Schwall Band, Hound Dog Taylor e molti altri ancora. E, a quattordici anni, scrissi la mia prima canzone intitolata New York City Blues.
MB: dopo aver realizzato un paio di album negli anni ‘80, sei scomparso dalle scene per riapparire, poi, una quindicina d’anni dopo con una nuova band chiamata The South Woodlawners….
JD: sì, alla fine degli anni ‘70, col mio amico “southsider” Lightnin’ Dan, formai una band chiamata The Blue Wave Band. Lavoravamo sia come band di apertura che come backing band per alcuni grandi del blues come Lowell Fulson, Pee Wee Crayton, Long Gone Miles ed Etta James. Nel corso degli anni, siamo evoluti da piccolo blues combo a big band con fiati e, negli anni ‘80 appunto, abbiamo inciso un paio di dischi. Verso la fine di quel decennio, però, molti dei locali nei quali ci esibivamo regolarmente chiusero i battenti; i ragazzi del gruppo, dunque, dovettero cominciare a concentrarsi sulle proprie necessità finanziarie e famigliari. Così, sentii di aver raggiunto un bivio artistico e creativo. In seguito a ciò, ci furono per me, un po’ di anni selvaggi prima di decidere che avrei voluto uscire di nuovo sulla scena tornando al suono originario del blues combo.
Ricordai che un insegnate, a scuola, era solito chiamare me e alcuni miei compagni ‘branco di South Woodlawners’ perchè eravamo particolarmente discoli. Con quell’espressione, intendeva assimilare noi ai bambini che abitavano in una zona più povera. Quindi, quell’espressione era da intendersi come insulto ma, non avendo idea di dove e cosa fosse precisamente il South Woodlawn, idealizzammo quei bambini pensando che fossero i più fighi del mondo e così accettammo di buon grado quel nome come se si trattasse di una medaglia al valore.
MB: ancora oggi, direi che la parola 'South' è come un comun denominatore per te. Persino questo tuo ultimo disco, oltre a riportare quel termine nel titolo, è pregno di un qualcerto 'southern feel'. Ti ritrovi in questa definizione o descriveresti, piuttosto, la tua musica in modo diverso?
JD: io non scrivo musica a caso. Ascolto tutto, da Vivaldi a Kendrick Lamar. Ma la musica che divoro quotidianamente è il blues, il R&B anni ‘50 e poi ancora blues. Tutto ciò che scrivo prende forma da ciò che ascolto, ma in genere scrivo sempre usando il blues come perimetro stilistico. Così, a volte ciò che salta fuori è un brano Chicago style, altre volte un pre-war blues o, altre volte ancora, un jump blues, ma tutto col mio particolare taglio.
MB: The Southside Lives è stato pubblicato dopo l’uscita, lo scorso anno, del dvd con David “Honeyboy” Edwards (artista al quale sei stato legato per molto tempo); e sembra che, questo disco, sia una specie di concept album che ha a che fare con alcune tue vecchie, personali esperienze. Sembra un disco dove tu, come si dice in gergo, “riporti tutto a casa”…
JD: vero, buona parte del contenuto di The Southside Lives è autobiografico e, un’altra parte, è un tributo a Honeyboy. Molto di ciò che è stato scritto per il disco riguarda un evento chiamato 'white flight', una specie di diaspora che ebbe luogo tra la fine degli anni ‘60 e l’inizio degli anni ‘70, a Chicago e Detroit. La nostra amata comunità non ne fu immune. Una cosa è l’essere un giovane teenager e vedere le cose che cambiano naturalmente, attorno a te, col passare degli anni. Altra cosa è l’essere un giovane teenager che, improvvisamente, vede il suo mondo di conoscenze e affetti crollare e scomparire perchè tutte le persone che hai conosciuto fino a quel punto della tua vita svaniscono nel vento e, a causa degli eventi, decidono di andare a vivere altrove.
Con alcuni dei miei più cari amici decidemmo di restare in contatto in qualche modo, sebbene questa decisione fu presa in un’epoca in cui non esistevano ancora computer e telefoni cellulari e, ancora oggi siamo in contatto malgrado nessuno di noi viva nella medesima città. Così, torno nel mio vecchio quartiere diverse volte all’anno per reimmergermi in quelle atmosfere in modo che, quando ci ripenso, non sia soltanto una sbiadita immagine del passato.
MB: questo è un disco particolare perché è stato registrato in compagnia del tuo amico d’infanzia nonché asso dell’armonica Jeff Stone. Tu e Jeff avete intrapreso differenti percorsi nel corso degli anni; e, forse, è per questo che dici che 'The Southside Lives' è rimasto in cantiere per cinquant’anni quindi, immagino che il disco non sarebbe stato lo stesso se l’avessi registrato senza di lui, vero?
JD: certo! Jeff è uno di quegli amici d’infanzia che furono etichettati, insieme a me da quel famoso maestro, come un South Woodlawner. C’è una profonda intesa tra di noi e inoltre condividiamo anche quell’amore per il blues che si impadronì di noi così presto. Le nostre esistenze hanno preso strade diverse fin dalla più tenera giovinezza; malgrado ciò, ho sempre intravisto la possibilità di registrare quest’album con lui. Possibilità che è durata a lungo e di cui ho, ora, approfittato. Volendo cantare della mia vita, della mia famiglia e delle mie radici, non ci sarebbe stata scelta migliore da fare che ingaggiare qualcuno che conoscesse esattamente ciò che avevo intenzione di raccontare.
MB: inoltre, questo cd, focalizza l’attenzione sulle tue abilità di autore: tutti i brani, infatti, sono tuoi originali e mostrano atmosfere e sentimenti differenti; tuttavia, ci sono dei punti in comune tra i brani come una scrittura generalmente arguta e umoristica…
JD: ho sempre sfruttato il senso dell’umorismo nelle mie canzoni. Anzi, l’ho sempre usato durante tutta la mia vita come mezzo per gestire le avversità…..sai quando si dice "ridere per non piangere"? Di fatto, sono fondamentalmente un entertainer e voglio che le persone ascoltino le mie canzoni per stare bene ma, occasionalmente, dimentico il mio lato luminoso e lascio che sia quello oscuro a muovere la penna.
MB: e, oltretutto, questo disco ha un qualcerto ‘live feel’: è stato registrato in presa diretta?
JD: molti dei brani presenti, sì. Ed è una cosa possibile solo quando c’è particolare affinità e i musicisti coinvolti viaggiano sulla stessa lunghezza d’onda. Dunque, onore a Jeff Stone così come a Pat Ciliberto e Wendysue Rosloff.
MB: e allora parliamo dei musicisti: in The Southside Lives, fondamentalmente ci siete tu alle chitarre e Jeff Stone all’armonica ma, in alcuni brani, viene aggiunta la ritmica (Pat Ciliberto al basso e Wendysue Rosloff alla batteria appunto). Questa minimale formazione è dovuta al fatto che volevi puntare di più l’attenzione sulle canzoni o al fatto che ci tenevi a mettere in evidenza il duo Dale/Stone?
JD: i brani registrati senza la ritmica sono stati scritti proprio con l’idea di essere suonati in duo e in stile frontporch. La scelta della presenza di una ritmica per gli altri è dovuta al fatto di voler dare a quei particolari brani, un maggior spunto e una maggior vivacità. L’idea generale era, comunque, quella di mescolare il tutto per poter offrire più varietà all’ascoltatore.
MB: dando un’occhiata alle singole canzoni, la prima sembra essere un tributo alla vita raminga di David “Honeyboy” Edwards, vero? Tu canti questo pezzo come fosse un rap….
JD: questa canzone, Honeyboy Story, è interamente basata su alcune storie della propria vita che mi raccontò Honeyboy stesso. Honeyboy aveva una memoria fotografica ed era capace di raccontarti storie accadute settantacinque anni prima, iniziando il racconto con dettagli tipo “...era un mercoledì pomeriggio...” o cose simili. Sopravvisse all’era Jim Crow e c’era già quando i bluesmen della prima metà del ventesimo secolo calcavano questa terra. Mi sono preso, in verità, qualche licenza artistica in questo brano per ricostruire quelle stesse storie con molte rime, in uno stile e con un groove davvero frontporch.
MB: 'The Old Blues Hotel', invece, ha a che fare con altri aspetti della vita errabonda…
JD: The Old Blues Hotel è un lamento circa la vita itinerante del bluesman. Ma è anche una canzone che tratta di come continuare a suonare e a vivere questa vita malgrado tutte le difficoltà.
MB: 'Rooster', 'Tight Ass Mama' e 'Broke And Burned' sono, invece, esempi di quel senso dell’umorismo, a volte nero, di cui parlavo prima…
JD: Rooster narra degli inconvenienti dell’allevare, per così dire, il proprio cibo in città; Tight Ass Mama, invece, parla di un musicista che vive alle spalle della propria ragazza e Broke and Burned racconta di chi spera nella possibilità di sfuggire alle conseguenze delle proprie azioni. Una delle mie principali ispirazioni, come autore, è Willie Dixon il quale, nelle sue canzoni, ha sempre ondeggiato tra differenti temi tanto da scrivere, per esempio, di giustizia sociale in una, di qualcosa di buffo nella successiva e incensarsi compiaciuto, come da tradizione, in un’altra ancora.
Tutti quanti i miei mentori del blues mi hanno sempre suggerito di scrivere solo di ciò che conosco e posso dire di aver preso proprio alla lettera il loro suggerimento.
MB: cosa diresti se dicessi che, la miglior sintesi dello spirito di questo disco è rappresentato dalla frase “you can take a boy out of the Southside, but inside the Southside lives”, tratta dalla titletrack?
JD: direi che, sì, quel verso che tu citi è l’essenza di questo progetto. Sono nato e cresciuto nel Southside di Chicago, ma non vivo più lì da più di quarant’anni. Però, gli anni trascorsi lì durante la mia crescita sono stati davvero anni formativi che hanno continuato a dare sostanza anche a tutti i successivi. Quei quartieri, quella gente, quelle esperienza sono ben presenti nella mia coscienza quando scrivo. L’estate scorsa sono andato in quel quartiere a trovare un amico il quale gestisce un negozio di dischi. Mi ha invitato a sedermi fuori dal negozio, per strada, e a suonare qualche blues per i passanti. Il suo negozio sta dalla parte opposta rispetto a un altro negozio nel quale lavoravo quando ero ragazzo. Quel ragazzo sarebbe stato sorpreso nel vedersi uomo maturo a suonare il blues in strada. Ma so che sarebbe stato anche ben felice così come mi sono sentito io in quel momento.