Luciano Federighi
Le interviste...
Macallè Blues incontra Luciano Federighi
(per gentile concessione di Luciano Federighi)
Critico musicale (principalmente sulle pagine della rivista Musica Jazz), saggista, scrittore, disegnatore, cantante, autore, musicista, Luciano Federighi, a pochi mesi dall'uscita del suo ultimo disco By The Lonely Lights Of The Blues (come il precedente Blues And Moonbeams On The Menu pubblicato per l'Appaloosa Rec.), già recensito su questo sito, concede a Macallè Blues una lunga chiacchierata a tutto tondo.
Macallè Blues: di fronte a una personalità poliedrica come la tua (critico musicale, musicista, autore, scrittore, disegnatore), mi viene spontaneo chiederti, per prima cosa, come e quando siano nate tutte queste tue passioni e attività che, da qualsiasi lato si osservino, inglobano sempre la musica quale comun denominatore.
Come Una Vita Difficile: per la parte del figlio di Alberto Sordi, da bambino, avevo fatto un provino con il grande attore. Fra stabili ed estivi, all’aperto, c’erano almeno una dozzina di cinema – quand’era possibile correvo a vedere commedie inglesi e americane, gialli, film horror con Vincent Price o Christopher Lee, che erano (e sono tuttora) una delle mie passioni. La musica era dominante. Il jazz di Ellington e Armstrong, me lo faceva sentire mio padre, insieme a parecchia musica classica e, intorno al 1967, cominciai a comprare e a consumare 45 giri di soul. Il primo album fu The Wicked Pickett: e Wilson Pickett, ebbi la fortuna di poterlo ascoltare dal vivo non molto più tardi, alla Bussola di Sergio Bernardini, a due o tre chilometri da casa. Alla Bussola sentii anche Aretha Franklin, Nina Simone, Duke Ellington e mi pareva che Viareggio – oggi infiacchita, impoverita e ripetutamente commissariata - fosse piuttosto vicina al centro del mondo. Disegnavo e dipingevo musicisti e cantanti di soul, scoprivo il blues grazie a Lp di B.B. King e John Lee Hooker e cominciavo a suonarlo (alla tastiera, poi su un sax tenore usato) e cantarlo con compagni di liceo, trascurando greco, latino e chimica, mentre scrivevo raccontini di fantascienza e dell’orrore. D’estate trascorrevo qualche settimana a Londra, mi fermavo per ore alla vecchia Tate Gallery a studiare i surrealisti e Francis Bacon e Turner e Constable, frequentavo i mercatini di Whitechapel e di Soho in cerca di 45 giri Duke di Bobby Bland e Junior Parker, che stavano diventando i miei idoli, andavo nei locali a sentire gruppi rock-blues e nelle discoteche a ballare con gli ultimi singoli R&B arrivati dall’America, passavo del tempo in Hanway Street nella sede del quindicinale Blues & Soul a chiacchierare con il direttore, John Abbey. Quando a 19 anni, a Pisa, mi iscrissi a lettere, gravitando intorno all’istituto di lingua angloamericana, ero un po’ entusiasta, un po’ curioso e parecchio confuso. L’estate successiva andai per la prima volta negli Stati Uniti, con l’amico chitarrista Fabio Ragghianti e le cose diventarono apparentemente un po’ più chiare: volevo suonare e cantare il blues (confortato dai neri che si fermavano ad ascoltarci a Washington Square quando si faceva Everybody Knows About My Good Thing di Little Johnny Taylor – voce, chitarra e kazoo) ma anche ascoltarlo, analizzarlo e provare a scriverne.
MB: Il disegno e la “scrittura di raccontini” sono certo due aspetti che sono rimasti più nel confine del privato ma, se il disegno era comunque legato al tema della musica, mi fa davvero curiosità e sorpresa sapere che i racconti erano, invece, di fantascienza e dell’orrore. Erano un’attività e un’ispirazione derivanti, per così dire, dai gusti cinematografici?
MB: Nella tua attività di critico musicale, c’è sempre stata un’attenzione particolare per le voci e la loro poetica tanto che più di uno dei libri da te pubblicati ha affrontato proprio questo aspetto. E non sarà un caso se l’introduzione a "Cantare Il Jazz" (ed. Laterza, 1986), la apri con questa citazione da "Song of Myself" del poeta Walt Whitman “...sento il suono che amo, il suono della voce umana…”. Cosa ti affascina così tanto nello strumento vocale?
(per gentile concessione di Luciano Federighi)
MB: Hai incontrato difficoltà nel proporti come cantante e musicista o l’essere ben conosciuto e apprezzato come critico musicale ti è stato di aiuto?
(per gentile concessione dell'autore)
MB: Non sapevo di questo tuo esordio con Cooper Terry, personaggio che io conobbi molti anni fa (in quell’occasione, accompagnava Carey Bell in un duo chitarra, armonica e voce) e che, in Italia, trovò la sua seconda casa tanto da diventare un musicista quasi di culto qui da noi. Che ricordo hai di lui, umanamente e musicalmente?
LF: Cooper aveva probabilmente un lato, diciamo, ombroso, che filtrava anche certe occasionali annotazioni più sprezzanti che spiritose ("...dove mi porti, nel ghetto?" mi disse mentre si attraversava in macchina il quartiere di Città Giardino, a Viareggio), ma di lui ricordo soprattutto la cordialità e la simpatia. Quando fu ospite a casa nostra, prima del concerto pisano, a pranzo cercò di spiegare a mia nonna la storia del Piccolo Principe in un italiano bislacco e condito di anglicismi: mia nonna fingeva di capire, lui si accorgeva che la comunicazione era in realtà difficoltosa, ma andava avanti comunque, ridendo e improvvisando il suo racconto con logica a tratti mal penetrabile. Se ne fregava completamente. Aveva un senso dell’umorismo dai tratti quasi nostrani, come se avesse miscelato sarcasmo toscano e ironia napoletana. Quando ci incontrammo, nuovamente a Pisa, una decina d’anni dopo, io, da sposato e padre di famiglia, avevo messo su diversi chiletti e non mi salvai dalle sue frecciate sghignazzanti. Musicalmente eravamo piuttosto in sintonia, specie sui blues di Broonzy o di Robert Johnson. Nel 1991, mi pare, ci trovammo a Mendrisio, nel Canton Ticino, in occasione di un festival di cultura nordamericana: io ero lì per una conferenza su Langston Hughes, lui per un concerto con Fabio Treves. Cooper, superando le difficoltà buro-finanziarie poste dalla manager di Treves, insistette perché mi unissi a loro sul palco. Facemmo Me and the Devil, Outskirts of Town e altri blues a due voci e fu tutto molto naturale e divertente. Purtroppo fu l’ultima volta che suonammo insieme.
MB: Relativamente alla tua attività di critico musicale, c’è un aspetto che mi ha sempre affascinato. Leggo le tue recensioni da quando frequentavo le scuole superiori e sono sempre stato colpito dal modo in cui parli dei dischi: riesci a tradurre verbalmente, attraverso una scrittura che definirei “pittorica”, quella che è l’essenza
(per gentile concessione di Luciano Federighi)
del disco e dell’artista in oggetto, rendendo leggibile ciò che, altrimenti, sarebbe soltanto ascoltabile. E senza esprimere giudizi diretti di gusto o di valore. E’ un approccio, mi verrebbe da dire, molto rispettoso, sia dell’artista che del lettore; distaccato e partecipe a un tempo…
LF: Quando cominciai a scrivere recensioni e piccoli articoli (in inglese per Blues Unlimited, in italiano per Blues Power di Gianfranco Skala, quindi per Musica Jazz), ancora vedevo me stesso più come pittore e disegnatore che come scrittore e, forse, fu naturale che la mia sensibilità visiva penetrasse nella scrittura attraverso il filtro della musica, del canto. Ascoltando una voce, ho sempre immaginato che avesse un colore e una serie di sfumature, una forma, una densità: che fosse uno strumento per definire e personalizzare una melodia e raccontare una storia (o semplicemente un’emozione) attraverso pennellate di diverso spessore, i graffi e i chiaroscuri di un olio, i netti contrasti e le curve, i curlicue di un disegno a china. La lettura prima di Dave Godin, lo scrittore più immaginifico di Blues & Soul, e poi di Whitney Balliett, cronista jazz del New Yorker e autentico maestro dell’aggettivo, mi ha insegnato moltissimo: e così l’attenzione di Arrigo Polillo, direttore di Musica Jazz.
(per gentile concessione di Luciano Federighi)
La musica - mi diceva - svanisce troppo presto dalla memoria: bisogna fermarla in parole e immagini che abbiano potere evocativo. Polillo, naturalmente, era molto più critico di me, a volte tranciante nei giudizi, tanto da farsi diversi nemici. Io cerco sempre di calarmi nella mentalità di chi suona e canta, cerco di capire il perché delle loro scelte che, magari più di una volta, non condivido. Ma se non scorgo furbizia o falsità, rimango, come tu dici, rispettoso.