Luciano Federighi - Macallè Blues

Macallé Blues
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Luciano Federighi

Le interviste...
Macallè Blues
incontra Luciano Federighi

Luciano Federighi a Oskaloosa, Iowa 2016
(per gentile concessione di Luciano Federighi)

Critico musicale (principalmente sulle pagine della rivista Musica Jazz), saggista, scrittore, disegnatore, cantante, autore, musicista, Luciano Federighi, a pochi mesi dall'uscita del suo ultimo disco By The Lonely Lights Of The Blues (come il precedente Blues And Moonbeams On The Menu pubblicato per l'Appaloosa Rec.), già recensito su questo sito, concede a Macallè Blues una lunga chiacchierata a tutto tondo.


Macallè Blues: di fronte a una personalità poliedrica come la tua (critico musicale, musicista, autore, scrittore, disegnatore), mi viene spontaneo chiederti, per prima cosa, come e quando siano nate tutte queste tue passioni e attività che, da qualsiasi lato si osservino, inglobano sempre la musica quale comun denominatore.

Luciano Federighi: Negli anni caotici e aggrovigliati dell’adolescenza, trascorsa a Viareggio tra spiaggia, ginnasio, librerie e negozi di dischi e cinema, in quegli anni la mia città era ancora una piccola capitale cinematografica, era ancora viva l’eco dei film che vi avevano girato Lattuada o Dino Risi.

Come Una Vita Difficile: per la parte del figlio di Alberto Sordi, da bambino, avevo fatto un provino con il grande attore. Fra stabili ed estivi, all’aperto, c’erano almeno una dozzina di cinema – quand’era possibile correvo a vedere commedie inglesi e americane, gialli, film horror con Vincent Price o Christopher Lee, che erano (e sono tuttora) una delle mie passioni. La musica era dominante. Il jazz di Ellington e Armstrong, me lo faceva sentire mio padre, insieme a parecchia musica classica e, intorno al 1967, cominciai a comprare e a consumare 45 giri di soul. Il primo album fu The Wicked Pickett: e Wilson Pickett, ebbi la fortuna di poterlo ascoltare dal vivo non molto più tardi, alla Bussola di Sergio Bernardini, a due o tre chilometri da casa. Alla Bussola sentii anche Aretha Franklin, Nina Simone, Duke Ellington e mi pareva che Viareggio – oggi infiacchita, impoverita e ripetutamente commissariata - fosse piuttosto vicina al centro del mondo. Disegnavo e dipingevo musicisti e cantanti di soul, scoprivo il blues grazie a Lp di B.B. King e John Lee Hooker e cominciavo a suonarlo (alla tastiera, poi su un sax tenore usato) e cantarlo con compagni di liceo, trascurando greco, latino e chimica, mentre scrivevo raccontini di fantascienza e dell’orrore. D’estate trascorrevo qualche settimana a Londra, mi fermavo per ore alla vecchia Tate Gallery a studiare i surrealisti e Francis Bacon e Turner e Constable, frequentavo i mercatini di Whitechapel e di Soho in cerca di 45 giri Duke di Bobby Bland e Junior Parker, che stavano diventando i miei idoli, andavo nei locali a sentire gruppi rock-blues e nelle discoteche a ballare con gli ultimi singoli R&B arrivati dall’America, passavo del tempo in Hanway Street nella sede del quindicinale Blues & Soul a chiacchierare con il direttore, John Abbey. Quando a 19 anni, a Pisa, mi iscrissi a lettere, gravitando intorno all’istituto di lingua angloamericana, ero un po’ entusiasta, un po’ curioso e parecchio confuso. L’estate successiva andai per la prima volta negli Stati Uniti, con l’amico chitarrista Fabio Ragghianti e le cose diventarono apparentemente un po’ più chiare: volevo suonare e cantare il blues (confortato dai neri che si fermavano ad ascoltarci a Washington Square quando si faceva Everybody Knows About My Good Thing di Little Johnny Taylor – voce, chitarra e kazoo) ma anche ascoltarlo, analizzarlo e provare a scriverne.

MB: Il disegno e la “scrittura di raccontini” sono certo due aspetti che sono rimasti più nel confine del privato ma, se il disegno era comunque legato al tema della musica, mi fa davvero curiosità e sorpresa sapere che i racconti erano, invece, di fantascienza e dell’orrore. Erano un’attività e un’ispirazione derivanti, per così dire, dai gusti cinematografici?

LF: Da quelli cinematografici e, soprattutto, da quelli letterari. Oltre ai romanzi umoristici di P.G. Wodehouse e ai noir di Henry Kane o Fredric Brown, divoravo la fantascienza tradotta sulla collana Urania e andavo perennemente in cerca dei classici della letteratura gotica e dell’orrore – Arthur Machen, Algernon Blackwood, il raffinatissimo Montague Rhode James (le sue Ghost Stories of an Antiquary mi fanno ancora venire i brividi). E naturalmente Edgar Allan Poe, H.P. Lovecraft e il meraviglioso Dino Buzzati: era loro la principale fonte di ispirazione per i tentativi di scrittura “orrorifica”, ma anche per certi quadri a olio tra spettrali e surreali che si alternavano a quelli dedicati a Otis Redding o a Wilson Pickett.

MB: Nella tua attività di critico musicale, c’è sempre stata un’attenzione particolare per le voci e la loro poetica tanto che più di uno dei libri da te pubblicati ha affrontato proprio questo aspetto. E non sarà un caso se l’introduzione a "Cantare Il Jazz" (ed. Laterza, 1986), la apri con questa citazione da "Song of Myself" del poeta Walt Whitman “...sento il suono che amo, il suono della voce umana…”. Cosa ti affascina così tanto nello strumento vocale?

LF: Quand’ero bambino, tenevo sei o sette Ep di Fred Buscaglione sul comodino, sopra il mangiadischi. La sua voce, così schietta e diversa da quella dei canterini un po’ melensi che dominavano radio e televisione, mi colpiva profondamente. In particolare quella canzone bluesy e mesta, Vecchio Boxeur, mi commuoveva. Fred aveva un piglio melodico struggente e colloquiale e – anche se allora ovviamente non avrei saputo individuare questa miscela – aveva humor, swing, originalità timbrica e comunicativa, il talento per modellare e proiettare le parole, per raccontare una storia. Sono gli elementi che, variamente intrecciati, ho poi sempre cercato nell’espressione musicale: ed è la voce umana che sa convogliarli. Con tante nobilissime eccezioni, naturalmente – la tromba di Armstrong, in puntuale simbiosi con il suo canto impareggiabile, Johnny Hodges e gli altri strumentisti ellingtoniani, le “voci” della sua orchestra, Gene “Jug” Ammons, specchio sassofonistico del canto di Dinah Washington. La chitarra di T-Bone Walker e di B.B. King e dei texani che commentavano e ampliavano lo storytelling di Bobby Bland – come Wayne Bennett o Clarence Hollimon.
MB: Non è un caso, direi, che tu citi strumenti a fiato (e i relativi musicisti, soprattutto e giustamente le grandi personalità emerse dal “gregge” ellingtoniano) che sono un po’ lo specchio della voce umana e che, grazie alla loro peculiarità timbrica e modulatoria, ne sono la loro naturale estensione…
LF: Sono strumenti – in particolare i sassofoni – che “cantano” e sembrano suggerire le parole e le emozioni dei blues e delle ballad. Specie quando si tratta di musicisti delle generazioni pre-coltraniane. Lester Young, com’è ben noto, suggeriva ai suoi colleghi di prestare molta attenzione al testo di un brano prima di eseguirne il tema e di studiare e improvvisare un assolo. E lo si nota in Ammons e in suoi epigoni contemporanei come Houston Person, ma anche, in misura diversa, in Ben Webster, in Dexter Gordon, in Stan Getz, in Zoot Sims, in molti altri. Ci sono del resto anche pianisti che sanno raccontare una storia: penso a Jimmy Rowles, a Ellis Larkins, a Tommy Flanagan, che poi, spesso, sono quegli stessi pianisti che hanno saputo sviluppare in maniera magistrale l’arte – molto difficile - dell’accompagnamento dei cantanti. Ellis Larkins con Ella Fitzgerald, appunto – ma anche, in una chiave ben distinta, Bill Evans con Tony Bennett.
MB: La tua discografia inizia, invece, negli anni ‘80 arrivando fino ai giorni nostri; sono, dunque, molte le canzoni che hai scritto. Come nascono, in genere?
LF: Il primo album, Loose as a Goose, fu registrato nell’autunno del 1979, con la band di Fabio Ragghianti, i Fabio’s Fables, che avevamo messo insieme sei anni prima, al ritorno dall’America. Cominciai allora a scrivere qualche pezzo, sulla forma blues, perlopiù. Negli album successivi ho ampliato l’orizzonte espressivo, tanto a livello melodico e armonico che lirico. Ma non ho una formula stabile per comporre un brano. A volte mi siedo al piano avendo solamente il titolo in testa, sviluppo un’idea melodica, aggiungo il testo man mano che la struttura prende corpo. A volte, durante un viaggio, è qualcosa che vedo che mi ispira uno o più versi o un frammento di melodia: successe per By the Banks of the Beautiful White River: in macchina verso Indianapolis in un paesaggio innevato, mio figlio Alberto mi registrò sul suo telefonino mentre guidavo e canticchiavo. A volte ho un testo più o meno completo a disposizione, per esempio quelli che ha scritto per me Al M. Leroy (come The Story of the Writer Who Never Wrote a Single Line), e mi diverto a incorniciarlo in una struttura che – nel suo caso, essendo lui un patito di Merle Haggard – ha dei richiami country. A volte Fabio Ragghianti (I’m a Low-Tech Boy) o Tiziano Montaresi (Beyond the Night) mi hanno dato dei pezzi a cui aggiungere testi: e lo stesso ha fatto Dino Betti Van der Noot per diversi dei suoi album. A volte mi sveglio la mattina e ho un misto di testo e melodia nella mente: mi precipito al pianoforte, accendo il registratore, suono e canto quello che ricordo, e poi, con calma, completo e cesello tutto quanto. Mi accadde, in particolare, pochi anni fa, dopo essere andato a dormire con in testa la notizia della morte di Vic Mizzy, compositore di molti temi cinematografici e televisivi (tra cui la musica della Famiglia Addams): il risultato fu An Affair with the Moon, che ho registrato con Michela Lombardi. Ho sempre pensato che Mizzy me l’avesse lasciato in eredità!
MB: Nelle tue canzoni, la scrittura è immaginifica; dotta, ma non cerebrale. Assimili il gusto per la rima, i doppi sensi e quell’umorismo arguto che sono tipici aspetti della tradizione blues, unitamente ad atmosfere più intimiste, lunari, creando un mix che, in un unico disco, può richiamare alla mente Nat King Cole, come Tom Waits o Percy Mayfield, il blues e il jazz ovviamente, ma anche il country. Sembra che tutta la musica ascoltata nella vita venga restituita, in un sol botto, accompagnando storie originali…
LF: Il fatto è che non sento solo la mia voce quando scrivo una canzone. Anzi, molto spesso penso alle grandi voci che amo e sviluppo una melodia e un testo come se dovessero poi essere interpretati da loro. La blue ballad che appare in due miei dischi, Another Lonely Sunday (e, come duetto country tra me e Cinzia Ramacciotti, in un Cd di Fabio Ragghianti), nacque a metà anni Ottanta per un progetto discografico di Bruno Schiozzi, mai realizzato, che doveva essere dedicato a Peggy Lee – e ricordo ancora quanti dischi ascoltai allora di Peggy per arrivare a una sintesi che le rendesse giustizia (anche se il testo è apparentemente lontano dalla sua poetica). Più di recente, Is All That Is Left of a Kiss si è materializzata pensando al canto di Nat King Cole, e I Shot My Lady rievocando il Jimmy Rushing di I Left My Baby (che è sempre stata nel mio repertorio live) e pensando a un’ormai impossibile interpretazione di Bobby “Blue” Bland – ci sono, se ascolti bene, un paio di richiami vocali a BBB nella mia incisione, timidi omaggi all’inarrivabile maestro. Senza pudore, Living on Borrowed Time (da 15 Minutes & 30 Years del 2004), l’ho immaginata modulata da George Jones, e Why Did You Whisper Goodbye nientemeno che da Sinatra e, certo, Percy Mayfield fa capolino tante volte in fase di scrittura. Nell’album On the Streets of Lonelyville c’è poi un’altra blue ballad, Sometimes, che mi chiese Nicola Arigliano dopo aver ascoltato qualcosa di mio e, dopo aver letto le note che avevo scritto per un suo concerto torinese, “Tirami giù qualcosa tipo Black Coffee - mi disse - con quell’atmosfera, con accordi di nona”. Gli piacque, ma trovò il testo troppo complesso per lui.
Luciano e Fabio Ragghianti nel 1979
(per gentile concessione di Luciano Federighi)

MB: Hai incontrato difficoltà nel proporti come cantante e musicista o l’essere ben conosciuto e apprezzato come critico musicale ti è stato di aiuto?

LF: Non mi pare ci siano stati particolari conflitti fra i due ruoli, anche perché, come forse qualcuno tra il pubblico del Macallè ricorda, ho spesso cercato di combinarli. Ma neanche vantaggi per il musicista – semmai, forse, qualche sospetto da parte di colleghi critici. Ironicamente, inoltre, sulle pagine di Musica Jazz sono apparso prima come recensito che come recensore: nell’estate del 1974 Stefano Arcangeli paragonò, con entusiasmo strepitosamente prematuro, la voce del mio sax tenore a quella del sax di Archie Shepp! L’occasione era il concerto d’esordio di Pisa Jazz e, Fabio ed io, con i Fabio’s Fables, suonavamo insieme a Cooper Terry, che avevamo conosciuto mesi prima al festival organizzato da Gianfraco Skala a Somma Lombardo.
James Brown and a Strange New York Crowd, disegno del 2015 di Luciano Federighi
(per gentile concessione dell'autore)

MB: Non sapevo di questo tuo esordio con Cooper Terry, personaggio che io conobbi molti anni fa (in quell’occasione, accompagnava Carey Bell in un duo chitarra, armonica e voce) e che, in Italia, trovò la sua seconda casa tanto da diventare un musicista quasi di culto qui da noi. Che ricordo hai di lui, umanamente e musicalmente?

LF: Cooper aveva probabilmente un lato, diciamo, ombroso, che filtrava anche certe occasionali annotazioni più sprezzanti che spiritose ("...dove mi porti, nel ghetto?" mi disse mentre si attraversava in macchina il quartiere di Città Giardino, a Viareggio), ma di lui ricordo soprattutto la cordialità e la simpatia. Quando fu ospite a casa nostra, prima del concerto pisano, a pranzo cercò di spiegare a mia nonna la storia del Piccolo Principe in un italiano bislacco e condito di anglicismi: mia nonna fingeva di capire, lui si accorgeva che la comunicazione era in realtà difficoltosa, ma andava avanti comunque, ridendo e improvvisando il suo racconto con logica a tratti mal penetrabile. Se ne fregava completamente. Aveva un senso dell’umorismo dai tratti quasi nostrani, come se avesse miscelato sarcasmo toscano e ironia napoletana. Quando ci incontrammo, nuovamente a Pisa, una decina d’anni dopo, io, da sposato e padre di famiglia, avevo messo su diversi chiletti e non mi salvai dalle sue frecciate sghignazzanti. Musicalmente eravamo piuttosto in sintonia, specie sui blues di Broonzy o di Robert Johnson. Nel 1991, mi pare, ci trovammo a Mendrisio, nel Canton Ticino, in occasione di un festival di cultura nordamericana: io ero lì per una conferenza su Langston Hughes, lui per un concerto con Fabio Treves. Cooper, superando le difficoltà buro-finanziarie poste dalla manager di Treves, insistette perché mi unissi a loro sul palco. Facemmo Me and the Devil, Outskirts of  Town e altri blues a due voci e fu tutto molto naturale e divertente. Purtroppo fu l’ultima volta che suonammo insieme.

MB: Relativamente alla tua attività di critico musicale, c’è un aspetto che mi ha sempre affascinato. Leggo le tue recensioni da quando frequentavo le scuole superiori e sono sempre stato colpito dal modo in cui parli dei dischi: riesci a tradurre verbalmente, attraverso una scrittura che definirei “pittorica”, quella che è l’essenza


Luciano Federighi con lo scrittore americano Al Young, Palo Alto - California 1985
(per gentile concessione di Luciano Federighi)

del disco e dell’artista in oggetto, rendendo leggibile ciò che, altrimenti, sarebbe soltanto ascoltabile. E senza esprimere giudizi diretti di gusto o di valore. E’ un approccio, mi verrebbe da dire, molto rispettoso, sia dell’artista che del lettore; distaccato e partecipe a un tempo…

LF: Quando cominciai a scrivere recensioni e piccoli articoli (in inglese per Blues Unlimited, in italiano per Blues Power di Gianfranco Skala, quindi per Musica Jazz), ancora vedevo me stesso più come pittore e disegnatore che come scrittore e, forse, fu naturale che la mia sensibilità visiva penetrasse nella scrittura attraverso il filtro della musica, del canto. Ascoltando una voce, ho sempre immaginato che avesse un colore e una serie di sfumature, una forma, una densità: che fosse uno strumento per definire e personalizzare una melodia e raccontare una storia (o semplicemente un’emozione) attraverso pennellate di diverso spessore, i graffi e i chiaroscuri di un olio, i netti contrasti e le curve, i curlicue di un disegno a china. La lettura prima di Dave Godin, lo scrittore più immaginifico di Blues & Soul, e poi di Whitney Balliett, cronista jazz del New Yorker e autentico maestro dell’aggettivo, mi ha insegnato moltissimo: e così l’attenzione di Arrigo Polillo, direttore di Musica Jazz.

Luciano Federighi con la cantante Irene Reid, 1998
(per gentile concessione di Luciano Federighi)

La musica - mi diceva - svanisce troppo presto dalla memoria: bisogna fermarla in parole e immagini che abbiano potere evocativo. Polillo, naturalmente, era molto più critico di me, a volte tranciante nei giudizi, tanto da farsi diversi nemici. Io cerco sempre di calarmi nella mentalità di chi suona e canta, cerco di capire il perché delle loro scelte che, magari più di una volta, non condivido. Ma se non scorgo furbizia o falsità, rimango, come tu dici, rispettoso.

MB: Come scrittore, oltre che saggi sul blues e il jazz, hai anche pubblicato una raccolta di storie blues, "Strani Blues Dall’Ovest" (ed. L’Epos, 2005) e un romanzo, "Cielo Di Terremoto" (ed. Pacini, 1996). Saggistica, narrativa, canzone, manca solo la poesia e il passo potrebbe essere molto breve. Ci possiamo aspettare un libro in versi prima o poi?
LF: Ho uno zio poeta, Alfredo Lucifero, la cui prima raccolta di versi, Maschere di Sabbia, mi colpì profondamente quando ero bambino. Poesie, o qualcosa del genere, ne ho sempre scritte, riflessioni o confessioni un po’ vagabonde, a cui ho spesso cercato di dare un andamento ritmico e una palpabilità sonora, giocando con assonanze, chiaroscuri, occasionali giochi di parole.
Talvolta in rima, talvolta vicine a una stream of consciousness un tantino casareccia; talvolta viareggine, talvolta americane o inglesi; talvolta faticate durante lunghe mattine, prima di affrontare articoli o recensioni un po’ svogliate, talvolta appuntate con divertimento nelle notti dei viaggi. Non ho mai pensato a pubblicarle (se non, due o tre, nel mio website), ma alcune hanno poi trovato forma come canzoni. Per esempio Chelsea on a Winter Night e prima ancora alcuni brani di In a Blizzard of Blue.
MB: A proposito di poesia, tu hai tradotto alcune opere dello scrittore americano Al Young che, come te, ha insegnato all’Università di Davis in California. In America credo sia abbastanza noto; meno, qui da noi. L’hai conosciuto all’epoca della tua permanenza all’università? Cosa ci puoi raccontare di lui e della sua scrittura? Anche lui è molto legato alla musica vero?
LF: Me lo fece conoscere un eccentrico professore di letteratura afroamericana, Jack Hicks, sanguigno irlandese originario di Baltimora, ma docente a Davis. Al Young abitava a Palo Alto, allora, e con mia moglie Rita andammo a trovarlo nel suo cottage. Passammo un’intera giornata insieme e lo intervistai per Musica Jazz: avevo appena letto i suoi primi romanzi, Snakes, Who Is Angelina? e Sitting Pretty (gli ultimi due, di lì a breve, li avrei tradotti per Jaca Book), e avevo naturalmente notato quanta parte la musica, e soprattutto il jazz, il blues e il soul, avessero nel suo raccontare, tanto come riferimenti quanto come ritmo e colore nella sua prosa. I richiami musicali erano fortissimi anche nella sua poesia: A Dance for Ma Rainey, The Song Turning Back into Itself… E più tardi Al avrebbe anche inventato un genere, le “memorie musicali” (in Kinds of Blue e altri volumi), in cui sviluppava il ricordo di particolari ascolti jazz, blues, pop e soul in musicalissimi bozzetti narrativi. Scoprii, intervistandolo, che Al, nativo di Ocean Springs, Mississippi, e cresciuto nella Detroit di Aretha e di Wilson Pickett, che frequentavano le sue stesse scuole, aveva un padre musicista di jazz, un fratello pianista classico, e che lui stesso era stato cantante e chitarrista folk blues. Di recente, per il mio sessantesimo compleanno, mi ha regalato un paio di registrazioni che fece nei primi anni Sessanta (si era appena trasferito a Berkeley da Detroit) per la Arhoolie, ma che non erano mai state pubblicate.
MB: La tua profonda conoscenza della musica americana nasce, sì, dalla passione personale, ma anche dall’esperienza diretta, conseguente alle tue lunghe e ripetute permanenze negli States; durante questi soggiorni, hai avuto modo di incontrare molti artisti blues e jazz. Quali ricordi con più affetto e c’è un aneddoto relativo a qualcuno di loro che vorresti raccontare?
LF: Nell’autunno del 1989 andai in California per cercare artisti di blues da portare in Piemonte per una rassegna progettata con il Centro Jazz Torino. Al Young fece diverse telefonate ad amici del settore, venne fuori spesso il nome di Robert Lowery, cantante e chitarrista attivo nella incantevole Santa Cruz, a sud della penisola di San Francisco. Avevo alcuni indirizzi di locali che Lowery frequentava e passai un giorno intero, con mia moglie e mio figlio, a girare dall’uno all’altro. Senza fortuna, finché una barista non mi dette l’indirizzo dell’abitazione. Una breve visita, un drink e qualche fotografia e l’uomo fu ingaggiato, con una semplice stretta di mano. Tornammo in Italia e dopo pochissimi giorni sentimmo che un tremendo terremoto, quello oggi noto come di Loma Prieta, aveva colpito l’Area della Baia e in particolare Santa Cruz. Lowery ne emerse senza danni e in primavera prese parte alla nostra rassegna, Blues Nel Mio Animo. Durante la breve tournée ci fermammo a casa mia, a Viareggio, e nel mio studio, su un registratore Tascam che avevo da qualche tempo, lui registrò un brano ispirato dal terremoto, Earthquake Blues. A mia volta, con Alberto Marsico (avevamo un trio piano-sax-voce, allora, chiamato Hot Track, con Davide Dal Pozzolo), avrei presto scritto un omaggio alla città di Robert, Santa Cruz. Ma l’episodio più curioso avvenne a Roma, quando portai Lowery a visitare il Colosseo: Bob era un uomo gentile e pacato, ma ben determinato a vedere dove gli schiavi combattevano con i leoni. Di fronte al Colosseo, lo vidi improvvisamente congelarsi: aveva visto qualcosa di insolito. Seguii il suo sguardo e notai un personaggio bizzarro, un chitarrista nero e tarchiato con fedora e vestito scuro, pieno di ciondoli e medaglie, che suonava e cantava una canzone napoletana per un gruppo di turisti giapponesi. Appena smise di suonare e i turisti si dileguarono, i due si scrutarono per parecchi secondi, poi si avvicinarono con una certa cautela e si salutarono senza entusiasmo. Riconobbi anch’io l’uomo: era Norbert, il cantante apparentemente poliglotta che intratteneva i turisti a Ghiradelli Square, a San Francisco, uno spazio che evidentemente condivideva (o si contendeva) con Robert. Ci raccontò diverse storie di aristocratici e ricconi conosciuti durante il suo viaggio europeo, e come avesse stretto amicizia con tanti di loro. La sera, in albergo, un ombroso Lowery continuava a scuotere la testa mentre accordava la chitarra e provava un paio di pezzi. “Balle, sono tutte balle, sai. Quelle che racconta lui.”
MB: Veniamo al tuo ultimo disco “By the lonely lights of the blues”: come è nato e cosa trovi lo accomuni o lo differenzi dai precedenti?
LF: A me sembra che abbia alcune caratteristiche che lo rendono affine ai tre precedenti: una fondamentale combinazione di blues, jazz e pop tradizionale (con qualche deviazione country e soul) nell’impianto musicale e un intreccio di colori bluesy, noirish e umoristici nel racconto. Questa componente noirish, appunto, questa sorta di dolente senso della predestinazione alla sconfitta e di tormentosa perdita della felicità, non necessariamente legati alla malinconia del blues ma molto vicini alle figure centrali della narrativa e in particolare della cinematografia noir americana degli anni Quaranta e Cinquanta, mi pare che domini i personaggi o il clima generale di tante canzoni degli ultimi quattro album: Dream, Sometimes, When Shadows Sing the Blues, I Walk the Night, I Spend My Lonely Days with the Blues, e filtri in dosi distinte in diverse altre. Ma negli ultimi due album c’è un aspetto squisitamente strumentale, l’uso del trio senza batteria (il piano di Andrea Garibaldi, il contrabbasso di Mirco Capecchi, la chitarra di Montaresi, più strumenti ospiti, i sax di Davide Dal Pozzolo, la tromba di Alessio Bianchi, l’armonica di Dave Moretti), che dando più spazio e intimità alla voce - la mia e quella di Michela Lombardi - mi ha permesso di accentuare queste atmosfere e di provare a creare una minore distanza emozionale o, forse, un equilibrio più stringente tra i quadretti cupi e quelli comici – come una serata al cinema nel 1942 in cui il pubblico vedeva in rapida successione This Gun for Hire con Alan Ladd e My Favorite Blonde con Bob Hope e l’alternanza e il contrasto noir-humor avevano tutto sommato una loro logica. Rispetto al penultimo, Blues and Moonbeams on the Menu, Lonely Lights ha un minore accento sul romanticismo – nel suo menù ci sono pochi raggi di luna, se non nel duetto con Michela, I’m Coming Back to You – e una chiaroscurale qualità noir forse più marcata e ghignante, suggerita anche dal bianco e nero della copertina e del libretto. Anche se il titolo dell’album e della canzone conclusiva prende spunto da quello di un celebre love song del 1910, By the Light of the Silvery Moon, e del musical hollywoodiano con Doris Day che lo rilanciava sugli schermi degli anni Cinquanta.
MB: Una curiosità: c’è un misterioso Lou Faithlines armonicista che si aggira tra le trace degli ultimi due dischi….
LF: E’ un attempato signore di Bowling Green, Kentucky, che da decenni prova a suonare l’armonica blues (ha provato anche con la cromatica, gli ho fatto leggere il bel metodo scritto da Max De Aloe, ma lui è un tipo che si stufa presto e ha finito per rinunciare) e da quando si è trasferito nell’Alta Versilia, tra i boschi di Stazzema, ho voluto dargli un paio di chance. Ha una tecnica e un volume modesti, ma anche un certo piglio melodico eccentrico che gli permette di entrare nel clima un po’ lunatico di alcune mie canzoni. Sta anche scrivendo un libro, Soul Heaven and Other Faraway Places, che dice che completerà nel 2026, anche se ho i miei dubbi, conosco bene l’uomo e la sua tendenza a procrastinare.
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