Mike Sponza - Macallè Blues

Macallé Blues
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Mike Sponza

Le interviste...
Macallè Blues
incontra Mike Sponza

Chitarrista, cantante, compositore, bandleader, il triestino Mike Sponza vanta una carriera pluridecennale e collaborazioni internazionali. Ma soprattutto con i suoi progetti Continental Shuffle e Kakanic Blues, è diventato l'esponente di punta di quello che potremmo definire blues europeo. E' appena uscito il suo nuovo disco Ergo Sum, registrato agli Abbey Road Studios di Londra e, quella che segue, è la chiacchierata fatta con Macallè Blues.


Macallè Blues: Sono passati quasi vent'anni dal tuo esordio discografico, prodotto da Guido Toffoletti, musicista che ricordo con molto piacere avendo lui tenuto a battesimo proprio quello che fu il Macallè Blues Festival nel lontano 1993. Giusto per inquadrarti meglio, dunque, raccontaci quali sono stati i tuoi primi passi nel mondo del blues e come sei arrivato a collaborare con Guido.

Mike Sponza: Come molti musicisti della mia generazione, ho scoperto il blues partendo da alcuni dischi che giravano per casa. Ero attratto di più da quelli con un certo sound, un certo groove. Non sapevo ovviamente di cosa si trattasse ma, poco a poco, ho capito che si trattava di blues, soul, rock’n’roll: black music, in breve. Così, ho passato i miei teenage-years a studiare questa musica e poi a suonarla in una band. Quando ho iniziato a collaborare con Guido Toffoletti, ero già attivo da qualche anno nel circuito live. Cercai il suo numero sulla guida del telefono di Venezia e iniziai a lasciare messaggi nella sua segreteria telefonica, finché lui mi richiamò.


MB: E cosa accadde poi? Immagino gli avrai fatto sentire qualche tua demo. Ci fu qualcosa in particolare che gli piacque e spinse Guido a iniziare la collaborazione con te?

MS: Nessuna demo. Mi disse solo: “Presentati questo giorno in questo locale e impara i miei pezzi; mi piace come insisti…” A fine serata mi chiese se avessi la patente, per andare con lui una settimana a Roma. Avrei dovuto guidare la sua Rolls Royce del 1960, perché lui era senza patente a seguito di una contravvenzione.

MB: Considerando la tua produzione discografica, possiamo dire che Mike Sponza si sia dedicato a sviluppare uno stile piuttosto trasversale, moderno e anche lontano da certi stereotipi. Questo tuo approccio trovi sia stato generalmente compreso e ben accolto o pensi invece che, malgrado i meritori sforzi per cercare una propria strada, sarebbe stato più "conveniente" dedicarsi alla sola tradizione?

MS: Io penso che ci sia un unico modo per un artista di fare musica: fare quella che si sente nel cuore. I ragionamenti di convenienza li possono fare i commercianti, le aziende. Nel momento in cui inizi a suonare cose tue, a sviluppare un suono, un concept, ritengo si debba anche pensare a come portare questa musica in giro, nei club, nei festival, su disco. Non ho una grande simpatia per la cosiddetta “blues police”, anzi, a dire il vero mi stanno sulle scatole gli pseudo-ortodossi. E’ anche vero che per molti anni, prima di lanciarmi su progetti miei, ho suonato i classici; il blues è una musica che richiede padronanza di linguaggio, studio, approfondimento, ma ad un certo punto bisogna provare a dire la propria.
MB: Sono perfettamente d’accordo con te, tuttavia è mia impressione che il blues più tradizionale piuttosto che il rock-blues siano generalmente meglio accolti e recepiti dal pubblico rispetto alle “contaminazioni”. Dunque mi interesserebbe capire da te, che frequenti quell’osservatorio sociale privilegiato che è il palcoscenico, come accoglie il pubblico le proposte musicali più originali, personali, meno legate all’ortodossia e alla tradizione.
MS: Io parlo, parlo molto ai miei concerti, e quindi prima di suonare pezzi miei che magari nessuno conosce, li descrivo, li presento, cercando di dire qualcosa di interessante. Così il pubblico li ascolta con un po’ di attenzione in più. Devo dirti che la risposta è sempre ottima. Penso che anche gli ascoltatori più ortodossi si siano rotti le scatole della milionesima versione di Hoochie Coochie Man. Se poi nel pubblico ci sono persone giovani, ancora meglio.
MB: Il blues non è un genere che culturalmente ci appartiene, nel senso che non è nato qui. Dunque, ho sempre visto di buon occhio chi, pur partendo dal blues, si è speso per arricchirlo con nuove influenze e idee. Tu, in qualche modo, ti sei spinto anche oltre nel senso che, con la Central Europe Blues Convention, progetto che riunisce numerosi musicisti provenienti da altrettanti paesi europei, hai aggiunto all'insieme, l'elemento geografico. Del resto, sei triestino e lì, l'influsso della mitteleuropa si sente. Raccontaci di come ti è venuta quest'idea e del relativo progetto "Kakanic Blues" e del successivo "Continental Shuffle".
MS: Personalmente penso che il blues sia diventato uno dei linguaggi musicali europei da almeno sessant'anni. Grazie agli inglesi, una via per l’euroblues è stata aperta e tracciata fin dagli anni ’50. Tutti i grandi nomi del blues europeo sono ricordati per aver sviluppato sound nuovi e personali. Questa è la radice di Kakanic Blues e Continental Shuffle. In ogni paese europeo, il blues (come anche il jazz – più liberamente) è stato arricchito dalla tradizione musicale autoctona. Il blues suonato in Germania è diverso da quello suonato in Ungheria. Il sound di una band scandinava è un’altra cosa rispetto a quello di una band francese. Cambiano completamente gli approcci ritmici, melodice e armonici. Nonostante gli stessi ingredienti, viene fuori un piatto diverso. Nei progetti che hai citato, volevo proprio evidenziare e valorizzare questo aspetto.
MB: Sbaglio, o tutto ciò ti ha portato a essere ben più attivo e conosciuto a livello europeo che non italiano?
MS: Avevo circa 21, 22 anni, stavo iniziando a suonare con la band nel circuito del Triveneto ed in Slovenia; su una cartina geografica dell’Europa, ho puntato un compasso su Trieste, l’ho allargato fino a circa 500 km e ho deciso di provare ad allargare il mio raggio d’azione in questo modo. Andava fatto un piano strategico! Vienna, Budapest, Zagabria, Monaco erano più vicini di Firenze, Roma, Torino. E la benzina costava meno (ancora adesso!). In quel periodo, un musicista di blues italiano all’estero, era esotico e la cosa ha funzionato.

MB: Parallelamente a questo tuo approccio più moderno, recentemente hai avuto anche collaborazioni con artisti considerati maggiormente tradizionali, diciamo. Sto pensando a Bob Margolin, ex chitarrista della Muddy Waters Band, col quale hai inciso dischi e fatto tour: com'è nata questa collaborazione?

MS: La collaborazione con Bob Margolin nasce dal desiderio di suonare proprio con uno dei chitarristi traditional che più avevo studiato da giovane e di tornare alle radici del blues elettrico, con l’aiuto di qualcuno che l’avesse vissuto in prima persona. Ho adottato la stessa tecnica che aveva funzionato con Guido Toffoletti, solo che invece di andare al palazzo della SIP a cercare il suo numero di telefono, gli ho scritto su Facebook. E’ stata un’esperienza magnifica, profonda e penso che nel 2017 ci rivedremo per un altro tour europeo.
MB: Veniamo al tuo nuovo disco Ergo Sum. Anche in questo, sono presenti alcuni artisti internazionali, questa volta, non americani, ma inglesi. Si tratta di Ian Siegal e Dana Gillespie, due artisti diversi. Il primo, giovane chitarrista e cantante devoto alla tecnica "slide" e considerato un po' il Tow Waits del blues dato il suo stile, diciamo così, "maledetto"; la seconda, cantante raffinata e legata un po' più al versante jazzistico del genere. Come sono nate queste collaborazioni e cosa ti ha spinto a scegliere proprio Ian e Dana per questo disco?
MS: Pensa, entrambi questi artisti mi sono stati presentati da musicisti dell’Europa dell’Est: io adoro il British Blues e con Siegal la collaborazione è iniziata nel 2006, mentre con Dana più recentemente. Non sono solo dei grandi perfomers, sono entrambi anche degli ottimi songwriters e, per Ergo Sum era necessario lavorare molto sui testi: ho proposto loro il progetto e hanno accettato con entusiasmo.
MB: Ergo Sum è una sorta di concept album ambizioso. Lì, alcune poesie classiche di Marziale, Catullo, Orazio rivivono, riscritte e musicate da te. Da cosa è nata quest'idea e con quale criterio hai scelto le poesie che fanno parte del disco?


MS: L’idea mi è venuta leggendo alcune poesie di Catullo: gelosia, amori non corrisposti, donne sfuggenti. Tutti temi mooolto blues! Ho approfondito, allargato il campo e ho chiesto aiuto alla mia professoressa del liceo che ha fatto una selezione di trenta poesie su cui ho iniziato a lavorare.

Mi sono ritrovato, quindi, con dei testi di derivazione classica, con un genere musicale “classico” (per il XX secolo) e ho provato a bussare al più classico studio di registrazione possibile (Abbey Road). Il più “blues-oriented” dei produttori in-house ha apprezzato il progetto e si è proposto come produttore. Ecco tre anni di lavoro di 5 righe!
MB: Classico e storico Abbey Road, una vera pietra miliare come alcuni dei dischi incisi lì!! E magari hai registrato proprio nel mitico Studio 2? Beh, visti l’ambiente, la produzione, i musicisti ospiti, il lavoro fatto e il tempo impiegato ti ritieni soddisfatto del disco e qual é, se ce n’è uno, l’aspetto di cui maggiormente vai fiero di Ergo Sum?
MS: Il disco è stato registrato nello Studio 3 – quello dei Pink Floyd di The Dark Side Of The Moon, per intenderci. Anche mix e mastering sono stati fatti a Abbey Road. Fare musica lì è incredibile; tutti ti mettono nelle condizioni migliori per dare il massimo, senza stress e il suono che ne esce è incredibile. E’ davvero un posto magico. Mi piace ogni aspetto del disco, ma sono molto soddisfatto dei testi e, dalle recensioni che arrivano, direi che questo è il punto di forza di Ergo Sum.

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