MB: E cosa accadde poi? Immagino gli avrai fatto sentire qualche tua demo. Ci fu qualcosa in particolare che gli piacque e spinse Guido a iniziare la collaborazione con te?
MS: Nessuna demo. Mi disse solo: “Presentati questo giorno in questo locale e impara i miei pezzi; mi piace come insisti…” A fine serata mi chiese se avessi la patente, per andare con lui una settimana a Roma. Avrei dovuto guidare la sua Rolls Royce del 1960, perché lui era senza patente a seguito di una contravvenzione.
MB: Considerando la tua produzione discografica, possiamo dire che Mike Sponza si sia dedicato a sviluppare uno stile piuttosto trasversale, moderno e anche lontano da certi stereotipi. Questo tuo approccio trovi sia stato generalmente compreso e ben accolto o pensi invece che, malgrado i meritori sforzi per cercare una propria strada, sarebbe stato più "conveniente" dedicarsi alla sola tradizione?
MS: Io penso che ci sia un unico modo per un artista di fare musica: fare quella che si sente nel cuore. I ragionamenti di convenienza li possono fare i commercianti, le aziende. Nel momento in cui inizi a suonare cose tue, a sviluppare un suono, un concept, ritengo si debba anche pensare a come portare questa musica in giro, nei club, nei festival, su disco. Non ho una grande simpatia per la cosiddetta “blues police”, anzi, a dire il vero mi stanno sulle scatole gli pseudo-ortodossi. E’ anche vero che per molti anni, prima di lanciarmi su progetti miei, ho suonato i classici; il blues è una musica che richiede padronanza di linguaggio, studio, approfondimento, ma ad un certo punto bisogna provare a dire la propria.
MB: Sono perfettamente d’accordo con te, tuttavia è mia impressione che il blues più tradizionale piuttosto che il rock-blues siano generalmente meglio accolti e recepiti dal pubblico rispetto alle “contaminazioni”. Dunque mi interesserebbe capire da te, che frequenti quell’osservatorio sociale privilegiato che è il palcoscenico, come accoglie il pubblico le proposte musicali più originali, personali, meno legate all’ortodossia e alla tradizione.
MS: Io parlo, parlo molto ai miei concerti, e quindi prima di suonare pezzi miei che magari nessuno conosce, li descrivo, li presento, cercando di dire qualcosa di interessante. Così il pubblico li ascolta con un po’ di attenzione in più. Devo dirti che la risposta è sempre ottima. Penso che anche gli ascoltatori più ortodossi si siano rotti le scatole della milionesima versione di Hoochie Coochie Man. Se poi nel pubblico ci sono persone giovani, ancora meglio.
MB: Il blues non è un genere che culturalmente ci appartiene, nel senso che non è nato qui. Dunque, ho sempre visto di buon occhio chi, pur partendo dal blues, si è speso per arricchirlo con nuove influenze e idee. Tu, in qualche modo, ti sei spinto anche oltre nel senso che, con la Central Europe Blues Convention, progetto che riunisce numerosi musicisti provenienti da altrettanti paesi europei, hai aggiunto all'insieme, l'elemento geografico. Del resto, sei triestino e lì, l'influsso della mitteleuropa si sente. Raccontaci di come ti è venuta quest'idea e del relativo progetto "Kakanic Blues" e del successivo "Continental Shuffle".MS: Personalmente penso che il blues sia diventato uno dei linguaggi musicali europei da almeno sessant'anni. Grazie agli inglesi, una via per l’euroblues è stata aperta e tracciata fin dagli anni ’50. Tutti i grandi nomi del blues europeo sono ricordati per aver sviluppato sound nuovi e personali. Questa è la radice di Kakanic Blues e Continental Shuffle. In ogni paese europeo, il blues (come anche il jazz – più liberamente) è stato arricchito dalla tradizione musicale autoctona. Il blues suonato in Germania è diverso da quello suonato in Ungheria. Il sound di una band scandinava è un’altra cosa rispetto a quello di una band francese. Cambiano completamente gli approcci ritmici, melodice e armonici. Nonostante gli stessi ingredienti, viene fuori un piatto diverso. Nei progetti che hai citato, volevo proprio evidenziare e valorizzare questo aspetto.
MB: Sbaglio, o tutto ciò ti ha portato a essere ben più attivo e conosciuto a livello europeo che non italiano?
MS: Avevo circa 21, 22 anni, stavo iniziando a suonare con la band nel circuito del Triveneto ed in Slovenia; su una cartina geografica dell’Europa, ho puntato un compasso su Trieste, l’ho allargato fino a circa 500 km e ho deciso di provare ad allargare il mio raggio d’azione in questo modo. Andava fatto un piano strategico! Vienna, Budapest, Zagabria, Monaco erano più vicini di Firenze, Roma, Torino. E la benzina costava meno (ancora adesso!). In quel periodo, un musicista di blues italiano all’estero, era esotico e la cosa ha funzionato.