Rough Max and The Steamrollers - Roots in the blues
Recensioni
Il disco raccontato da...
Max Pieri
ROUGH MAX AND THE STEAMROLLERS
"Roots in the blues, crown far ahead"
Buffalo Bounce Rec. (I) - 2018
Candy ass blues/Quite man/I am to loose (I want to stand)/Junk/Guilty/Hey big wonder/The second bite/Betrayal/Little stone in my pocket
Con un vissuto musicale alle spalle che abbraccia rock e blues e che l'ha visto imbracciare, durante una lunga storia fatta anche di tante militanze e collaborazioni artistiche, prima la chitarra e poi il basso oggi, Rough Max Pieri con i suoi Steamrollers, si colloca, con originalità, nell'ambito del panorama blues italiano con una proposta ricca di innesti genetici e influenze diverse tanto da dare vita, potremmo dire, a una nuova grammatica che, come ben spiega Pieri nell'intervista che segue, intreccia le regole di idiomi americani ed europei.
Roots in the blues, crown far ahead è il suo nuovo disco e ne parliamo proprio con lui....
Macallè Blues: Max, hai vissuto parte della tua vita in movimento, in una sorta di emigrazione al contrario: sei partito da Viterbo e ti sei trasferito a sud, prima in Sicilia, quindi in giro, su e giù, fino a fermarti a Caserta. In che modo questo ha influenzato - se lo ha fatto - la formazione della tua personalità artistica?
Max Pieri: vivere in movimento ti lascia la possibilità di conoscere luoghi, persone e vicende sempre diverse, ti concede l'occasione di ampliare gli orizzonti e arricchire il tuo bagaglio culturale. Tuttavia l'erranza ha senso solo se hai radici piantate da qualche parte, se hai un posto dove tornare per appendere il cappello. Vivere senza radicamenti non è mai facile, soprattutto quando sei molto giovane, perché non hai il tempo per avviare relazioni interpersonali durature. Da adulti il rischio è quello di non poter vivere l'epica dell'amicizia, restando orfani di quegli affetti che un luogo e le persone che lo abitano sono in grado di regalarti. Insomma, quello che guadagni da una parte, inevitabilmente lo perdi dall'altra.
Probabilmente le vicende familiari mi hanno inconsciamente influenzato nella scelta del blues come stile di vita e come veicolo di espressione musicale. Fatte le dovute differenze, anche il blues si è sviluppato attorno alla storia di un'emigrazione coatta, seppure in condizioni storico-sociali molto più drammatiche, nel segno di coercizioni, privazioni disumane e di un totale sradicamento per intere popolazioni deportate dall'Africa al continente americano.
MB: pare quasi che questa vicenda migratoria si sia riversata nella musica, nella misura in cui non si avvertono, in essa, connotazioni rigide e precise....
MP: non so quanto ciò possa aver influito, forse la flessibilità che ho imparato in luoghi e in situazioni diverse potrebbe essersi riverberata nella scrittura musicale. Tuttavia credo che l'assenza di stilemi rigidi sia soprattutto il frutto degli ultimi sei, sette anni di lavoro che mi hanno portato dal 2015 a maturare una scelta drastica, pensando a una band tutta mia. Gli Steamrollers sono nati per camminare sul filo del rasoio insieme a me. Una manipolo di musicisti molto eterogenei, intercambiabili, provenienti da esperienze anche assai diverse, ma soprattutto disponibili a sperimentare direzioni trasversali e oblique da imprimere al blues.
MB: prima di arrivare agli Steamrollers, hai avuto diverse esperienze in ambito italiano. Ci puoi riassumere un po’ quello che è stato il tuo percorso musicale e discografico fino a qui?
MP: all'inizio degli anni '90, dopo una militanza come chitarrista rock, sono tornato al blues (con cui avevo iniziato), imbracciando di nuovo il basso, il mio primo e attuale strumento. Ho suonato in numerosi e svariati progetti musicali, approfondendo quasi tutti gli stili e i linguaggi della musica nera. Ho inciso dischi e collaborato con musicisti davvero straordinari: Warm Gun, Mario Insenga e Lino Muoio (membri storici dei Blue Stuff), Rough Combo, Complanare Blues Band, PG Petricca. Tutti mi hanno lasciato qualcosa di importante, esperienze preziose che mi hanno reso più ricco e consapevole di quello che posso dare come musicista.
MB: nel cercare di descrivere questo tuo ultimo disco, partiamo banalmente dalle prime cose nelle quali ci si imbatte: la copertina e il titolo. Entrambi sono evocativi e intenzionalmente rappresentativi dello spirito che aleggia fra le tracce: un albero, simbolo di solidità e fermezza, le cui radici idealmente affondano nel blues, ma la cui chioma, piegata dal vento, si sposta in altre direzioni....
MP: questo punto di partenza non è affatto banale, anzi, hai colto perfettamente un elemento semantico importante di tutto il progetto. Il titolo e la grafica di copertina sintetizzano in maniera radicale lo spirito che ho voluto animasse tutto il lavoro. Non so se ci sono riuscito, ma ho cercato di sforzarmi a non rimanere prigioniero dell’ortodossia che rende spesso autoreferenziale chi frequenta il circuito blues. Credo che nella seconda decade di questo nuovo secolo la cieca fedeltà agli stilemi classici del genere finisca per relegare il blues in una riserva indiana, rischiando di farlo morire alcolizzato e dimenticato.
MB: oltre all’evidente radice blues, quali sono le principali influenze che caratterizzano questo disco?
MP: negli ultimi anni ho cercato di focalizzare la mia attenzione sulla musica proveniente da New Orleans, la meno americana fra le città americane. Un luogo dove è rimasta sempre vivace la connessione multiculturale con la vecchia Europa e la giovane Africa. Per questo nel disco si sente inevitabilmente un suono meticcio, che pesca nel funk e nell'afrobeat, che usa ritmi dispari e marcette, dove a volte emergono umori latini o balcanici. C'è come un'urgenza di riportare da quest'altra parte dell'oceano quel che più ci appartiene della musica americana.
MB: in buona parte del disco, avverto un’atmosfera vagamente 'lounge', un po’ anni ‘60… e non si può fare a meno di notare anche una presenza pianistica importante e, mi verrebbe da dire, caratterizzante....
MP: non sei il primo a sottolineare il carattere "easy" che attraversa le tracce del disco. Non posso negare di essere stato un vorace ascoltatore, oltre che di blues, di tanta altra musica, incluso il pop degli anni '60 e '70. Certo, bisogna anche capire cos'era pop in quegli anni. Scorrendo la 'top 20' dei titoli più venduti negli anni '60 (escluse le ristampe e le vendite degli anni seguenti) trovo tutti i dischi dei Beatles, qualche titolo dei Led Zeppelin e Johnny Cash e, a scalare, Monkees, Iron Butterfly, Jimi Hendrix, Van Morrison, Creedence Clearwater Revival, Doors. Tutti dischi con oltre 3 milioni di copie vendute. Se facessimo la stessa analisi per il decennio che stiamo vivendo, coi numeri e coi nomi, ci sarebbe da ridere.
Per quanto concerne la predominanza del piano, questo è un aspetto consequenziale all'aver posto al centro dell'attenzione la musica di New Orleans. Infatti, gli autori e i musicisti più autorevoli della Bayou Area sono stati soprattutto dei pianisti, basti pensare a Champion Jack Dupree, Professor Longhair, James Booker, Dr John, Allen Touissant, ma anche Jelly Roll Morton, Henry Butler e Fats Domino. E' stato, così, inevitabile che piano e tastiere diventassero il centro armonico attorno al quale far ruotare la musica dell'intero progetto.
MB: oltre che bassista e cantante, sei anche autore. Un altro tratto caratteristico di questo disco è la presenza di soli brani autografi.
MP: uno dei motivi che mi ha spinto a formare gli Steamrollers è stata la voglia di cimentarmi più consapevolmente come autore. In tutti i progetti musicali in cui sono stato coinvolto ho sempre cercato di proporre musica inedita, a volte scendendo anche a compromessi. Ora posso tenere la barra più salda e non trascurare la lezione di alcuni maestri che ho sempre ammirato come Willie Dixon, Jack Bruce, Colin Hodgkinson e, perchè no, Paul McCartney o Mark Sandman; tutti bassisti, cantanti e brillanti autori. Mi piace molto sperimentare brani inediti e trovo che raccontare storie sia un tratto caratterizzante dei veri bluesman. A questo punto del percorso musicale mi sembrava quanto mai opportuno mettersi in gioco fino in fondo e prendersi anche tutti i rischi che il caso richiede.
MB: ci sono, secondo te, dei brani che, più di altri, connotano lo spirito di questo disco e perché?
MP: quasi tutti i brani rappresentano in pieno lo spirito di questa fase della mia vita, soprattutto nella stesura delle liriche. I brani descrivono un momento di passaggio con cambiamenti importanti, una specie di resurrezione a nuova vita, non solo da un punto di vista strettamente musicale.
MB: in tutti i brani, la voce è compressa, alterata, suona molto urbana e post industriale. Come mai questa scelta?
MP: da un punto di vista stilistico, ho cercato di ricreare la sporcizia di fondo che caratterizzava le esecuzioni dei bluesman negli anni '50, quando il canto, per carenza di strumentazione adeguata, veniva filtrato attraverso gli amplificatori per chitarra. Poi c’era la necessità di rendere in qualche maniera più urgente ed espressivo il contenuto di alcune liriche. Certamente, in tutto il disco, la voce arriva disturbata, ma i momenti di rivoluzione e cambiamento descritti non sono un’agevole passeggiata, semmai sono essi stessi impervi e disturbanti.